
Pubblichiamo un estratto dal libro di Marco Rovelli Siamo noi a far ricca la terra. Romanzo di Claudio Lolli e dei suoi mondi, uscito per minimum fax.
di Marco Rovelli
Memoriale del doppio: Disoccupate le strade dai sogni
Claudio pensava che l’Ultima Spiaggia potesse essere una casa. Sfuggire alla logica dell’industria culturale, dare forza a un circuito alternativo, trovare un ambiente in cui sentirsi partecipe, e non solo un ospite esterno. In «Autobiografia industriale» del resto racconta bene questo suo senso di estraneità all’industria culturale, alle sue logiche commerciali. (In quel pezzo, poi, c’è quella memorabile autodescrizione della voce «così piena di ragni di granchi di rane, e altre cose un po’ strane, una voce da regno dei più, o da festival del sottosuolo»: anche la sua voce era estranea a quel mondo.) Per la verità, poi, fu un’esperienza insoddisfacente, non ci fu quel sentirsi a casa che cercava.
Claudio mantenne la sua autonomia totale e radicale, fece un muro per la produzione e l’arrangiamento del disco, delegandolo totalmente a Mariani e Costa, la sua parte più scontrosa e diffidente si manifestò anche nei confronti di un discografico «alternativo», forse anche perché borghese di nobili origini. Il rapporto poi non proseguì, e peraltro di lì a poco l’Ultima Spiaggia chiuse i battenti.
Io, per me, sono ben felice per la copertina che mi porto dietro. L’idea fu di Cesare Monti, uno dei più grandi art director della discografia italiana. Era rimasto colpito da quel Cristo uscito dal circo Togni, e decise che in copertina ci doveva essere un clown in mezzo ai grattacieli milanesi, un clown inquietante, come un incubo. Prese Roberto Manfredi – che lavorava all’Ultima Spiaggia (era il fratello di Gianfranco Manfredi, il cantore del ’77 milanese, che pure lui era nella scuderia dell’etichetta) e a giugno aveva seguito la produzione del disco in sala di registrazione – e gli fece fare il clown.
Gli mise un naso rosso e la falce della morte in mano, gli chiese di fare la faccia feroce, e lo fotografò dal basso, come in basso stanno i topi e i rifiuti. Musicalmente, invece, che posso dirvi, da un certo punto di vista è l’opposto degli Zingari felici. Un po’ la sua dark side. Negli Zingari c’è una storia, la storia affettiva di una piazza. Qui no, nessuna storia. E così anche nell’arrangiamento («collettivo», come da note del disco): negli Zingari era arioso, epico, corale; qui più cupo, visionario, nevrotico, dissonante, duro. Claudio disse che il disco era stato realizzato con troppa improvvisazione e fretta, che avevano aggiunto e accumulato troppo, quando invece avrebbero dovuto lavorarci di più e togliere, purificare, lasciare solo gli elementi essenziali. Ma certo, quell’accumulo, quella cupezza rispecchiavano un momento nel quale si poteva già percepire una fine, e non si era più nel pieno sole della felicità.
Inoltre il disco avrebbe dovuto consistere di un’unica suite, ma per problemi di organizzazione fu solo la prima facciata del disco a essere una suite. La seconda è più disorganica, ci sono anche due canzoni scritte prima degli Zingari, «Autobiografia industriale» e «Canzone scritta sul muro». Quest’ultima spicca perché, in quella cupezza diffusa, fa risuonare ancora la speranza: questa canzone, scritta di rosso, sarà con te a saltare quel fosso, sarà con te, insieme a te canterà il primo giorno di libertà. Anche se poi, certo, anch’essa finisce con l’imbianchino che passa e cancella la canzone scritta sul muro. (L’imbianchino, mica un caso: vent’anni dopo risuonerà nel verso quest’Italia nazi.) E allora niente più speranza; anche se sul muro, certo, si può sempre tornare a scrivere.
Comunque, questo disco è la testimonianza assoluta di come a Claudio non interessasse per nulla la carriera musicale. Uno che avesse voluto il successo avrebbe fatto un disco totalmente diverso. Lui, invece, sceglie il rigore della coerenza, e realizza un disco ostico, con un’etichetta alternativa, fregandosene del denaro. C’è da esserne fieri, per me.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente
“Disoccupate le strade dai sogni” è il più bel disco di Claudio Lolli, e uno dei più belli degli anni 70 interi. In un’intervista Lolli disse che avrebbe potuto cavalcare l’onda del successo e dare alle stampe gli zingari felici due, tre e quattro. Invece scelse la strada più difficile, abbandonò l’EMI e pubblicò quel capolavoro di musica e testi. Spiace che sia un album pressoché sconosciuto ai più e che non sia mai stato ristampato. Ma i miei vent’anni sarebbero stati molto diversi senza l’ascolto di “incubo numero zero” e “da zero e dintorni” che reputo una delle più belle e anomale canzoni d’amore mai scritte. Grazie Claudio.