Un estratto da Abitare il vortice di Bertram Niessen
Pubblichiamo, ringraziando autore ed editore, un estratto da “Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo” di Bertam Maria Niessen, recentemente pubblicato da UTET.
Per i non addetti ai lavori, i luoghi della cultura sono spesso considerati come dati, e immutabili nel tempo. Da un certo punto di vista, in effetti, nel corso della seconda metà del xx secolo gli spazi per la fruizione e la produzione di beni e servizi culturali sono stati caratterizzati da tendenze organizzative, spaziali, economiche e di fruizione molto definite.
Da un lato c’è stata la concentrazione in istituzioni ufficiali come università, musei, centri espositivi e centri studi. Sono stati, e sono tutt’ora, i grandi centri riconosciuti della cultura che dialogano con gli altri attori di primo piano del sistema: gallerie, case editrici, grandi biblioteche, programmi radiofonici e televisivi, terze pagine dei quotidiani eccetera.
Un altro filone, ovviamente, è stato quello degli spazi di fruizione delle opere prodotte dalle industrie culturali. Cinema, sale concerto, librerie, biblioteche, piccoli musei non hanno costituito solo l’ultimo miglio di reti di distribuzione commerciali, ma hanno assunto, spesso, anche il ruolo di piattaforme territoriali di discussione e critica, in un quadro più ampio di costruzione e rafforzamento della sfera pubblica.
In queste due tipologie di luoghi, più che in altre, si sono consolidate le pratiche di fruizione delle opere culturali all’interno di perimetri chiaramente legati alla “civilizzazione” e all’alfabetizzazione dei pubblici, secondo criteri di contemplazione: gestione rituale e funzionale dei silenzi; definizione dei tempi e dei comportamenti appropriati; chiara delimitazione degli spazi e delle azioni. È una tendenza che si è rafforzata nel tempo, seguendo la contrazione delle forme di cultura negli spazi pubblici dichiaratamente popolari e l’inseguimento dello status di classe media, anche attraverso il consumo culturale. Così, rispondere dalla platea alle battute di un attore su pellicola (o in carne e ossa) è divenuto un comportamento sempre meno appropriato al di fuori dei contesti strettamente orientati allo spettacolo di massa (i cosiddetti blockbuster).
Una terza tipologia di spazi che si è sviluppata è stata quella della molteplicità di piccoli presidi territoriali, legati all’associazionismo, al welfare, ai corpi intermedi, alle confessioni o ai partiti: arci, acli, case del popolo, sedi delle società operaie di mutuo soccorso e oratori. Spesso caparbiamente autonomi – e allo stesso tempo legati alle logiche politiche di reti e confederazioni – le associazioni e i circoli hanno costituito per decenni l’interfaccia tra i grandi nodi cittadini della politica e della vita civile e i piccoli centri.
Si tratta di una suddivisione volutamente grossolana e imperfetta, ma può essere interessante utilizzarla ricordandoci che è soprattutto sui margini di quei mondi (e nelle loro intersezioni) che nel corso del Novecento sono emerse le ricchezze della cultura vissuta dai territori, con le sue specificità, contraddizioni, capacità di costruire legami.
Il risultato di queste tre linee di sviluppo è stato per lungo tempo un panorama con alcune caratteristiche relativamente stabili. Gli spazi della fruizione si assomigliavano tutti, e così i modi con i quali venivano utilizzati. Le tipologie di offerta culturale erano vincolate alle grandi catene centralizzate di distribuzione, e solo con estrema fatica opere sperimentali, estranee o divergenti dal gusto comune trovavano il modo di circolare. Anche le carriere degli operatori culturali tendevano a essere più omogenee: c’era chi si costruiva un percorso nell’editoria, nella stampa specializzata o nel cinema, ma moltissimi altri vivevano benissimo con un lavoro intellettuale “di base” – come quello di maestro, di professore o di giornalista locale. Le figure dei professionisti, degli amatori e degli spettatori erano, ovviamente, ben distinte. Gli spazi della cultura tradizionale del Novecento, insomma, si sono sviluppati come luoghi di condivisione e allo stesso tempo di esperienza individuale, in cui la dimensione sacrale e la distinzione sociale connesse ai consumi culturali erano ribadite dalla delimitazione architettonica e funzionale. Ma si sono sviluppati – anche e soprattutto – come luoghi per la costruzione di idee sul mondo, di valori e orizzonti del possibile: spazi di espansione estetica per immaginare altre vite, e per esercitare i muscoli prendendo posizione rispetto a fatti reali o immaginari.
L’esplosione dei movimenti sociali della fine degli anni sessanta ha aperto una fase in cui le istanze culturali minoritarie hanno iniziato a uscire all’aperto come esplicita manifestazione di dissenso rispetto alle strutture di potere tradizionali. L’appropriazione politica dello spazio delle città si è legata indissolubilmente alle pratiche di espressione culturale, con i corpi (manifestazioni, presidi, cori e canti in pubblico) e con i segni (tazebao, murali, striscioni). Attraverso l’espressione di istanze culturali non conformi, strade, piazze e altri spazi pubblici sono divenuti il teatro per la messa in scena di identità sociali a lungo negate o minimizzate, da quelle delle donne a quelle omosessuali. Parallelamente, in ambiti subculturali ha iniziato a prendere piede la pratica dei festival musicali, associati all’emersione dei giovani come categoria merceologica e quindi dell’idea di “creatività giovanile”. I festival pop e rock si sono sviluppati anche seguendo l’aumento della domanda di effervescenza sociale al di fuori delle istituzioni religiose, costruendo contesti rituali che hanno consentito l’esperienza laica di tratti estetici ed estatici prima legati esclusivamente alle pratiche di culto, l’esplosione di una nuova forma di dimensione pubblica nel rapporto tra cultura e territori, che ha permesso la formazione di un nuovo senso comune, di nuove aspettative e di nuovi modi di sentirsi parte di un pubblico.
È in continuità diretta con questo contesto che sono nate e hanno prosperato le stagioni delle rassegne culturali diffuse tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, prime tra tutte quella delle Estati romane. Ideate nel 1977 dall’assessore alla cultura di Roma Renato Niccolini, le Estati romane sono state un momento poderoso di apertura e rinegoziazione dei perimetri classici della fruizione culturale, in cui le nozioni di centro e periferia, di cultura alta e cultura bassa sono state messe in discussione e attualizzate. Roma ha fatto da apripista a una molteplicità di sperimentazioni locali nelle città di tutta Italia e, probabilmente, è stata anche il contesto nel quale una determinata idea di politica culturale ha provato davvero a farsi sistema.
Nello stesso periodo ripresero e prosperarono anche i concerti negli stadi e nelle piazze, dopo una sospensione di qualche anno dovuta alle tensioni politiche, allineando le città italiane a quanto già succedeva da tempo in molte città europee, come Edimburgo o Avignone. Accanto a festival già consolidati come l’Umbria Jazz di Perugia – nato nel 1973 e reinventato nel 1982 – ne nacquero altri destinati a diventare degli emblemi della nuova domanda di cultura diffusa negli spazi urbani, come l’Arezzo Wave. Nei primi anni ottanta si iniziò a parlare a Milano di Fuorisalone, per indicare una serie di iniziative – originariamente spontanee e non coordinate – che avvenivano fuori dai perimetri del Salone internazionale del mobile in fiera, tra gli studi di design e architettura che in quegli anni costituivano una rete di connessione internazionale della città e di sperimentazione dei linguaggi. Dal coordinamento di quelle iniziative nacque nel 1990 la prima Design week meneghina, che impresse una modalità di progettare e produrre cultura diffusa in lassi limitati di tempo – le “week”, per l’appunto – che a oltre trent’anni di distanza è divenuto il modello dominante con cui la città pensa al rapporto tra se stessa e la cultura.
Gli anni novanta videro un’esplosione di grandi rituali subculturali urbani, connessi in gran parte alla nuova ondata dei movimenti sociali. Specifici spazi pubblici in molte città – il parco delle Cascine a Firenze, Villa Ada a Roma, il parco Sempione a Milano – divennero il teatro di appuntamenti, più o meno periodici, in cui si sperimentavano forme alternative di socialità e di autoproduzione culturale. Nel 1997 fu inaugurata dagli attivisti del centro sociale Livello 57 di Bologna la prima Street rave parade antiproibizionista, che per dieci anni divenne un appuntamento culturale cruciale per i mondi della musica elettronica, al pari di altri eventi come la Love parade di Berlino o la Street parade di Zurigo.
Dei centri sociali ho scritto più volte nelle pagine precedenti. Qui basta ricordare che hanno costituito, per quasi due decenni, la rete principale per la produzione, la distribuzione e la fruizione di forme culturali alternative, generando o permutando molte delle sperimentazioni che circolavano fuori, negli spazi della città.
Nello stesso periodo presero vita anche alcune forme più istituzionalizzate – e dedicate a pubblici diversi – di festival culturali negli spazi urbani. Il primo (e più importante) di questa generazione è sicuramente il Festivaletteratura di Mantova, che nel 1995 iniziò ad attrarre nella cittadina lombarda lettori, scrittori, professionisti e appassionati di editoria attorno a un fitto programma di incontri e seminari, che ridisegnarono fortemente l’identità della città e il rapporto dei cittadini con i suoi spazi.
Con gli anni duemila alcune dinamiche iniziarono a cambiare. La “guerra al terrorismo” inaugurata da Bush dopo l’attacco dell’11 settembre, i quattro giorni del g8 di Genova del 2001, il riflusso dei movimenti della metà degli anni zero iniziarono a imprimere alla società un movimento di chiusura, diffidenza e ritorno alla sfera del privato. In ambito culturale, questo si tradusse in una compartimentazione, un disciplinamento e una contrazione delle forme di cultura diffusa nei territori. Non si trattò certo di una sparizione. Il sistema dei festival, per esempio, prosperò al punto da divenire un elemento chiave nello sviluppo della competizione interurbana per risorse, visibilità e turisti, generando macchine organizzative complesse e (in alcuni casi) la collocazione in zone periferiche predisposte. Si moltiplicarono anche iniziative come le notti bianche, in cui ad aperture fuori orario delle istituzioni culturali – musei, gallerie o teatri – si accompagnano eventi diffusi. Anche questo tipo di iniziative entrarono a pieno titolo nei pacchetti di destination branding delle città, connotandosi spesso anche come eventi gastronomici e venendo gestite sempre di più come occasioni di marketing urbano. Negli anni zero aprirono le porte anche molti dei musei di arte contemporanea in cantiere da anni, come il Madre a Napoli (2005), il Macro a Roma (2002), il Mambo a Bologna (2007), il Mart a Rovereto (2002). Si trattò di un momento importante di costituzione di nuove istituzioni culturali, con scopi sia espositivi che di ricerca e curatela, oltre che di un ulteriore tassello nel mosaico del place branding.
Eppure, nonostante innumerevoli casi locali di segno opposto (grandi e piccoli), la seconda metà degli anni zero è stata caratterizzata da una progressiva contrazione della capacità delle città di dialogare con la vita disordinata della cultura tra le sue strade. L’esperienza culturale si è inserita sempre di più in percorsi improntati alla razionalizzazione e alla specializzazione dei ruoli, delle funzioni e dei luoghi e l’adozione di metodologie e strumenti di management culturale ha permesso un’ottimizzazione delle risorse e, in alcuni casi, la costruzione delle premesse per la sostenibilità economica delle organizzazioni. Allo stesso tempo, però, produzione e fruizione hanno iniziato a rispondere sempre di più alla logica del format: una griglia in cui ogni elemento ha il suo posto e le relazioni tra i vari elementi sono previste, così come i risultati. Un modo di organizzazione che presenta innumerevoli vantaggi: dalla maggiore facilità di calcolare costi e ricavi alla possibilità di replicare modelli simili in altri contesti o di scalare verso l’alto la produzione secondo logiche di razionalità economica. Ma è anche un approccio che porta all’overdesign (eccesso di progettazione) riducendo i margini di libertà di artisti e pubblici nella navigazione dei mondi simbolici e nella costruzione di nuovi rituali. Rituali che – per esistere – possono essere solo in minima parte progettati e che devono soprattutto essere vissuti. I format – per definizione – ragionano in termini di standard, e non possono non fare fatica a relazionarsi con lo spazio urbano che è – per definizione – il luogo della complessità.