Un estratto da “Airù” di Alberto Locatelli

Pubblichiamo, ringraziando autore ed editore, un estratto da “Airù” di Alberto Locatelli, pubblicato da Italo Svevo Editore nella collana Incursioni.

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di Alberto Locatelli

E arrivò il momento in cui si dovette sostituire la targhetta in ottone sulla porta dell’ambulatorio di via Quattro Novembre. Scritto in rosso e corsivo, si leggeva ancora il nome del dottor Regaldossi, nonostante se la fosse data a gambe da un po’. 

Da giorni non si contavano più le lamentele, soprattutto degli anziani, uno zoccolo duro e ben nutrito all’interno della sonnolenta comunità di San Fermo, alla cortese attenzione della signorina Sonia Cecchi, segretaria comunale addetta all’Anagrafe, nonché unica responsabile dello sportello reclami di via Matteotti. Se era già una fatica enorme per loro, dicevano a quella poveretta costretta a difendersi attraverso il buco nel vetro, doversi preoccupare dei dolori spuntati la notte senza il benché minimo preavviso – «Colpa della minestra di cavoletti?», domandava uno, «Eh, nemmeno di Brussèl ci si può più fidare!», rispondeva l’altro, «Tempi duri», faceva eco un terzo –, non è che potevano pure vagare come anime in pena su e giù per i tre piani di quell’edificio dall’architettura militare, le pareti alte, di un bianco chirurgico da sentirsi malaticci soltanto a costeggiarle, prima di trovare finalmente lo studio di…

«Chi, scusate?», chiedeva ogni volta la Cecchi, sfiancata, una mano a reggersi la fronte.

«Ol duturì», rispondevano singolarmente o in coro, non nascondendo un certo fastidio nel tono, quasi fosse ovvio a chiunque che quel soprannome potesse riferirsi soltanto a lui, al giovane dottore fresco di nomina. In fondo, era stato lui per primo e in un mese appena ad abituarli a una distanza sempre più ridotta ogniqualvolta lo incontravano per la via. 

«Devono saperlo töcc in paìs, dal prim a l’öltem, diocàn!», aveva detto una mattina un vecchio contadino della Cascina Martina, battendo il pugno sul vetro. La Cecchi, poerèta, si era segnata il petto con la croce… Ma guarda cosa dovevano sopportare le sue orecchie, Maria santissima! Per paura di ritrovarsi a gestire situassioni del diàol, aveva cominciato lei stessa a adottare quel soprannome anche durante le telefonate che si sentì costretta a fare sotto lo sguardo per niente arrendevole dei presenti; gente con la guerra alle spalle. A nulla giovò la spiegazione che balbettando si era sforzata di dare ai suoi aguzzini, perché era un po’ così che si sentiva: presa in ostaggio.

«Se sulla porta si legge ancora il nome del dottor Regaldossi», aveva detto riagganciando la cornetta, «è perché lo ha voluto ol duturì in persona…». E per la prima volta aveva pensato che non suonasse tanto male il soprannome in fin dei conti.

«Non è püsìbel», avevano bofonchiato quelli di rimando.

«È così, va dise», aveva risposto la Cecchi dopo un sospiro.

Vedeva bene l’incredulità sui loro volti. E sapeva di dover soppesare le parole, fare attenzione a non mandarli in bestia.

«L’ha tenuto perché ci sono ancora scatoloni del dottor Regaldossi da portare via».

«Ma che si arrangi quello là, diobèl! Ci si fa su un bel falò e non se ne parla piö!».

La Cecchi, che qualche volta passava al bar per un bicchiere di latte prima di rientrare a casa, mi raccontò di non essersi segnata subito con la croce; lo avrebbe fatto molto dopo, di notte, rimasta sola nella verginità del matrimoniale. Né si era barricata dietro un silenzio che solo per lei era sinonimo d’indignazione. Bensì, si era schiarita la voce e appellandosi alla misericordia del Vangelo, lei che ogni domenica andava in chiesa e partecipava alle attività promosse di sabato pomeriggio dalla parrocchia – era una corista formidabile –, aveva detto piano: «Signori, per favore…».

Sollevando lo sguardo, quelli si erano messi a fissarla. Lei, pur accusando la loro intenzione per niente pacifica, aveva continuato lo stesso. Mi confessò di essersi sentita come Gesù tra i Farisei: dalla Seconda lettera di san Paolo Apostolo ai Corinzi, ma per davvero nè!

«Al duturì…», aveva cominciato, «è sembrato scortese, molto scortese, buttare via le scatole del dottor Regaldossi. Non piace a nessuno, mi ha specificato. È come se uno viene a casa vostra e non lo so…».

Ma alle orecchie di quei signori era bastato quanto già era stato detto per smettere di ascoltarla. Guardandosi, avevano sbuffato. Dopo un istante di silenzio in cui la Cecchi aveva azzardato un sorriso, convinta di essere ormai riuscita ad ammansirli facendo leva sulle corde dell’emozione che, per fórsa, s’era detta, devono esistere nel cuore di tutti, quelli avevano parlato di nuovo.

«Mé gà crède mia!», aveva esclamato secco quello della Martina. «Non è vero per gniente.

«A essere troppo buoni…», si era aggiunto un secondo con il tono di chi sa benissimo di cosa sta parlando. 

«Si fa la fine dei pecoroni», aveva concluso un terzo, indaffarato in un angolo a sistemarsi i lacci delle braghe. E via con le risate degli altri.

«Ma se ci ho appena parlato al telefono, maginàs», aveva obiettato la Cecchi allibita, venendo persino meno a quel contegno digerito a suon di pianti e castighi, in città, al collegio dei Salesiani, quand’era ancora una bambina.

Si era arrivati così a uno stallo in piena regola. Solo con l’intervento del maresciallo dei carabinieri Aldo Aldibrandi venti minuti più tardi, si era riusciti ad allontanare quei signori, subito docili al cospetto della divisa, concedendo alla Cecchi di tirare finalmente il fiato tra le innocue scartoffie di ogni mattina.

La vicenda rimbalzò senza sosta, un che di ammorbante anche a distanza di giorni, al punto tale che ne vennero fornite versioni diverse – ce n’erano davvero per tutti i timpani – e che qualche simpaticone si prese la libertà di storpiare il proverbio Aprile dolce dormire con Aprile dolce nitrire. Ovunque ci si recasse, al bar, dal panettiere o al cimitero pure, non mancava d’incontrare chi l’aveva riascoltata fino ormai a grattarsi i gomiti per la noia e di colpo sospirare, ma con tutta la bocca, facendo vibrare rumorosamente le labbra alla maniera dei cavalli. L’unica cosa certa, su cui nessuno ebbe un solo ripensamento, fu quel soprannome: ol duturì. Lo ripetevano sempre, tutti quanti. Pure quando potevi metterci una mano sul fuoco che del dottore non c’era traccia nei paraggi, si aveva come l’impressione, un ronzio o uno schiocco di dita, che lo chiamassero di continuo… anche solo per sciogliersi la lingua! Pensai che fosse per via dell’accento, di una vivacità da birbanti, un fremito, un guizzo: «Duturì!». 

Così, la mattina dopo il dottore venne visto recarsi di buona lena da Zago il ferramenta, quand’ancora la vetrina sul fondo del cortile in pietrisco aveva le serrande abbassate. Aspettò dieci, anche venti minuti al cancello di zinco smaltato, prima che Zago si affacciasse in pigiama da una finestra sopra il negozio; era lì che per comodità si era risolto a vivere da divorziato. Intuendo il motivo della visita, gli mostrò le dita in segno di vittoria: l’indomani il dottore avrebbe avuto la sua targhetta nuova di pacca.

Il pomeriggio successivo non si sarebbe trovato un buco nemmeno a volerlo al pianterreno dell’edificio di via Quattro Novembre dove stava la porta dell’ambulatorio. A eccezione di quanti non conoscevano riposo nei campi, si sarebbe riusciti a censire tutti gli altri abitanti di San Fermo in un colpo solo. C’era il sindaco Morelli, con tanto di fascia tricolore cinta al petto, l’intera giunta comunale e le autorità, la caserma dei carabinieri al completo. C’erano le rappresentanze delle varie associazioni: la squadra di calcio A.C. San Fermo, il Circolo scacchisti A. Fedrici, la neopromossa società di pallacanestro Virtus San Fermo e perfino il Gruppo micologico sanfermese, un’allegra compagine di ultrasessantenni con la passione per i funghi e le scampagnate, che già si sollazzavano beati con una bottiglia di rosso recuperata dalla cantina personale del presidente Garboli. Se la passavano di mano in mano e bevevano a canna, incassando la testa nelle spalle mentre deglutivano, in modo da sottrarsi un poco alla vista dei più e conservare un briciolo del ritegno richiesto dall’occasione. C’era il bibliotecario, il signor Sergio, con Efrem lo zoppo, l’aiutante; l’assemblea dei commercianti, che stranamente non aveva nulla di cui lamentarsi. Accompagnati dalle maestre, figuravano addirittura gli alunni delle elementari seduti per terra tra le prime file, a gambe incrociate, ciascuno a farsi aria con il proprio foglio da disegno come mimavano loro i genitori sparsi tra la folla, che di tanto in tanto si sbracciavano isterici o approfittavano della spalla di chi gli stava a fianco per sbirciare e sincerarsi che il proprio figlio non fosse stramazzato per il caldo. Era aprile, ma in cielo splendeva il sole di un’altra stagione.

Allora entrò in scena il dottore, identico agli altri giorni non fosse stato per il ciuffo di capelli pettinato all’indietro con la brillantina. Si fece largo tra la folla mentre alcuni gli sussurravano: «Brào». «Gràssie», gli altri. Lui si limitava ad assentire con la testa nella maniera composta che hanno le marionette quando gli si tira il filo. Se soltanto si fosse fermato da uno… Bòna, sai che risentimento gli altri nel giro di un niente? «E a mé negót?». Si sarebbe fatta mattina, ecco. Il dottore doveva averlo ormai capito.

Si avvicinò all’asta del microfono verticale davanti alla porta, a un passo dal panno azzurrino che di lì a poco avrebbe rivelato la nuova targa con il nome scritto sopra e töt quant. Quindi si voltò verso noi compaesani e ostentando allegria per la sorpresa di vederci tutti lì si schiarì la voce, poi indicando il microfono chiese: «Mi sentite anche senza, vero?».

E a chi mai sarebbe saltato in mente di contraddirlo? Qualcuno cominciò persino ad applaudire. Ma il dottore mostrò il palmo aperto della destra con fare solenne: «Buongiorno», continuò. «Buongiorno a tutti…». Respirò, lasciando al saluto in rimando il tempo di acquietarsi e sfumare nell’aria. «Buon pomeriggio, vista l’ora».

E si scatenarono le risa. Pendevano tutti dalle sue labbra: un gesto banale come grattarsi la testa, se fosse stato lui a farlo in quel momento, sarebbe apparso molto di più di quel che in realtà era, una trasfigurazione; mai visto per davvero prima d’allora. Il dottore passò in rassegna i volti delle persone che aveva davanti: sembrava ne cercasse uno in particolare. Poi sospirò. Si schiarì nuovamente la voce, lanciò un’occhiata al cielo che s’intravedeva sul fondo, al di là delle finestre. E con un’espressione strana, impensierita, quasi avesse dovuto pioverci giù qualcosa da un momento all’altro, restò immobile a fissare le nuvole, le poche che c’erano. Indugiò abbastanza da spingere alcuni dei presenti a voltarsi per capire cosa avesse mai attirato a quel modo la sua attenzione. Se ne doveva essere accorto benissimo anche lui, ma non si avventurò in alcun chiarimento.

«Grazie», sentenziò, lo sguardo nella stessa direzione. «Grazie a ciascuno di voi: siete importanti per me».

E prima che a qualcuno venisse il dubbio se stesse parlando a loro, oppure a qualcosa che solo lui sapeva esserci lassù, nascosto nelle profondità blu del cielo, afferrò il panno azzurrino, lo strinse nel pugno, una frustata di polso e lo tirò giù… Dio mio! Sulla targhetta tirata a lucido manco fosse d’oro zecchino, non comparivano il suo nome e cognome riportati per intero, bensì quel soprannome fresco di battesimo: ol duturì.

«Perché quel che farò…», si affrettò a dire nell’entusiasmo generale, «quel che farò sarà sempre per voi», concluse, portandosi una mano sul cuore come sotto giuramento.

Avrebbero raccontato, quanti in quel tardo pomeriggio di aprile lavoravano al solito nei campi intorno al paese, che il fracasso degli applausi a coronare il discorso del dottore giunse fino alle loro orecchie, portato da un vento a cui non seppero dare un nome. Arrivò improvviso, capriolò un poco sulla curva stanca delle loro schiene e poi li fece rabbrividire. Non troppo, ma abbastanza da storcere il naso.

Ecco che la banda comunale montò di colpo un concerto degno della migliore filarmonica, mentre il dottore stringeva mani a chiunque e tutti si congratulavano: «Tanti auguri, bèl duturì». 

Il sindaco Morelli, insieme all’intera giunta – sì, c’erano persino gli esponenti più ostici dell’opposizione riuniti sotto la bandiera unanime della riconoscenza –, inaugurò una vivace processione con quanti erano impazienti di toccare con mano la targhetta. Ci fu chi addirittura si spinse ad appoggiarvi sopra le labbra e a baciarla, scomodando chissà quale antico potere taumaturgico dell’ottone. «Fa bene ai denti», confermò una delle centenarie, due in tutto il paese, che aveva assistito alla cerimonia. «Ma non era ai capelli?», domandò l’altra sua comare lì vicina, rinverdita dal dubbio, nonché l’unica a disporre dell’autorità anagrafica per contraddirla. Infine, in mezzo a questo carnevale, persino la segretaria Sonia Cecchi si abbandonò alle danze, sebbene l’espressione spaesata del viso, oltre a certe giravolte male in arnese, suggeriva un fastidio taciuto: l’idea che a spuntarla, in fin dei conti, erano stati proprio quei vecchi maleducati che l’avevano torturata allo sportello reclami di via Matteotti. E pensare che per l’occasione sfoggiava pure il suo vestito migliore, corto e a pois, indossato un’altra volta soltanto, a un matrimonio che nemmeno era andato a buon fine.

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