Un estratto da “Cravuni” di Orazio Labbate

Pubblichiamo, ringraziando autore e editore, il secondo capitolo di Cravuni di Orazio Labbate, uscito nella collana Grey Interzona di Polidoro Editore.

di Orazio Labbate

Gli occhi di mia madre sembravano specchi opachi. Specchi di dignitosa povertà, di anni di tramonti calamitosi nella periferia di Afton a ricordare la natìa Riesi, occhi di stanze chiuse ermeticamente, che sognavano punizioni e che ora dormivano con la stessa prontezza di chi, mitico, si decide di passare la notte infinita dentro un fegato prometeico.  I capelli erano illuminati dall’unica luce interna, una mappa filamentosa scongiurante la noia, in grado di permettermi, bizzarro osservatore, supposizioni inutili sulla pena della donna. Balbettavo interiori parole strammàte, incoerenti, di una sensibilità delicata fino all’eccesso, disgraziate, nel pulviscolo atmosferico, il quale prendeva a scintillare attorno allo stomaco di mia madre. Potevo gettare l’occhio nella cucina buia alla fine del corridoio della drogheria, ma ardevano nella semioscurità i ciocchi delle budella. Le avrei raccolte dalla crepa oscura dello stomaco e con commozione, assaltato dalla nostalgia, avrei sgomberato la pancia per dare un abbigliamento carnoso adeguato a mia madre. Mi mancava l’ampiezza del panorama dei ricordi da salvare all’istante, giacché aveva preso le mosse la natura fantomatica della morte caduta su mia madre. Tutte le cose raccapriccianti hanno una loro maniera di fare ritorno, come i cereali, mucchietto di ossa polite, di stravaganza vieppiù eclatante. All’appressarsi del rumore fitùsu che avvertivo dallo stomaco, le cui bollicine colleriche risalivano, compresi di entrare nella pancia di mia madre. Con la mano, con la testa, con il candore muscolare di un nevischio che copre piano le altezze degli alberi, solo con le dita di un uomo esemplare al cospetto di un dio morto per attraversare pochissimo, soltanto con le ditine, la rovina dell’essere soprannaturale. Indossai così un guanto, deglutii accettando che il piacere dei pasti del riposo mi fosse rifiutato, e raccolsi tra i cereali un piccolo fagotto di plastica dal quale tirai fuori un bigliettino. Sentivo il nesso tra lutto e indizio, un’alleanza conservata e trasmessa per tutti gli eoni in occasione di ogni investigazione. Ma c’era lo specifico della morte del mio sangue, del ricordo patetico, della forma più elaborata del compianto, a trattare come un suggerimento mitico quella carta materna inattesa di orrore. Era una carta carica di gelida ostilità, di strepito e di sdillìnio, una carta mitica improvvisata, indegno feto, ridicola apparenza di figlio inanimato. Rimasto accovacciato al corpo studiai il bigliettino, non con tremenda curiosità, ma come se trattassi un emblema arraffato in chiesa pregno di sventura. C’era scritto, mentre enigmatico il sangu colava tra le lettere di inchiostro: Suttasutta mangerai stelle a Riesi cu idda. Faceva l’effetto di una mascherata, di un’espressione proverbiale provocata dallo strado ordinamento mentale di chi si abitua alle cose inverosimili. Di chi si adagia nel cambiamento esteriore della realtà e una sconfinata potenza, piena di curiosità, obbliga alla scrittura do diavulu per persuaderci delle proprie suggestioni. Accennai, dunque, un sorrisino piuttosto misterioso alla carta e riflettei sulle parole con ancora un’ermeneutica frammentaria. Adagiai il fogliettino in tasca, senza piegarlo, con vastasaggine di movimenti, con provocazione, senza rinunciare mentalmente all’idea che fosse un medium per vendicare mia madre. Il sogno vero della morte di una mamma non deve avere i tempi del consumo mitico moderno, non un rituale di modesta entità. Non c’è solennità nella morte di mia madre, nell’omicidio, c’è un’angoscia in questo corpo, è un ingiusto orto inselvatichito. Non potevo rovesciare lo statuto di morto di mia madre in quello di martire, sul suo corpo non erano assicurati segni di distinzione teologica, era un’antichità vuota, anatomica. Dovevo solo riportare alla luce un relitto così poco appetibile per Dio, incendiare quel quadro umano la cui assurdità mi avrebbe sfunnàtu lo spirito. Incominciai a baciarle i piedi, i bordi dello stomaco divaricato, baciai l’iride, oscurità trasparente, di tanto in tanto respiravo a fondo, offrivo poca resistenza all’aria delittuosa, baciai le guance, baciai – la luce fosca faceva mia madre giovane e vecchia allo stesso tempo – le tempie, baciai il groviglio meduseo dei capelli, baciai il bosco infranto e misterioso delle costole, bevvi le mie lacrime compiaciute dolorosamente per l’esatto svolgimento del rito cunfunnùtu. Dopodiché, rubai una tanica di benzina dallo scaffale accanto. Dapprima, però, gettai l’anello di mio padre – che ci abbandonò arrivati ad Afton – nel bucu dello stomanco di modo che dall’altra parte mamma potesse non arrischiare il trapasso senza doni significativi. Principiai a bagnare il negozio insieme al corpo di mia madre, anche su idda lo feci come se usassi un aspersorio. Mi sentivo un’astrazione comatosa, un uccello che beccava briciole di un dolce stantio, un uccello grigio immobile al cospetto di una statua prediletta. Ero il suo neonato che singhiozzava appena uscito e che doveva con il brivido della prossimità far ritornare al nènti chi l’ha appena espulso. Non potevo mettere sulla mamma una corona, anche precaria, disequilibrata, perché fosse testimoniata, per il suo dopo, l’eterna razione di curiosità per Dio.
Poi spensi il cuore, lo privai del suo rumore autentico, digrignai i miei denti impavidi, fissai, l’ultima volta, mia madre come se osservassi un paesaggio privo di tracce umane. Accesi l’accendino sulla punta di uno strofinaccio incassato in una bottiglia e lo innalzai, celebrante provvisto di una torcia, portatore di una luce piatta di crepuscolo, issavo una nebbia di orrore luminoso. Buttai il fuoco, senza più forze subito dopo, aspettando che il soffio fantasma del fuocu dissolvesse il corpo di mia madre. Il primo crepitio di giunture, poi il residuo di singhiozzi di grasso dal collo di mia madre, poi il calore accecante delle guance le quali si consacravano colanti col castello che era la sua gola scanalata. Siamo noi gli assassini dei nostri genitori, quando li seppelliamo?
Il silenzio delle fiamme era diventata la pancia protettiva di mamma da cui ero sorto. Il suo negozio, aperto due mesi dopo il nostro arrivo in Oklahoma, bruciava. Mi avviai all’uscita, penetrando sempre più a fondo nella contezza reale di aver perso mia madre. Le stelle sopra Afton c’erano, ma c’erano con troppa luce, giacché la luce che bruciava il negozio, pregna di muscoli insospettabili, assorbiva la tinta dominante del cielo. Quando l’aria parve alleggerirsi, e il buio opaco del fumo si ammorbidì, mi decisi a piangere, in effetti, mentre quasi obbedendo a un richiamo misterioso, mi incantai al fuoco del negozio.
Mi rannicchiai posizionando il busto come uno spicchio di luna per sussurrare a mia madre di coprirsi contro il freddo, perché io adesso potevo afferrare, con totalità sperta, un paesaggio, ricercandola sempre. 

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