Un estratto da “La cronologia dell’acqua” di Lidia Yuknavitch
Pubblichiamo, ringraziando editore e autrice, un estratto dal libro La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch, uscito per Nottetempo nella traduzione di Alessandra Castellazzi.
La valigia
A volte penso di essere sempre stata una nuotatrice. Ogni mio ricordo si increspa come acqua attorno agli avvenimenti della mia vita. O forse, riesco a comprendere meglio ogni cosa mi sia mai successa immaginandola in una grande piscina azzurra, clorata. Nemmeno la Florida poteva uccidere la nuotatrice che è in me.
Alla festa di fine anno, in Florida, giocai a braccio di ferro con cinque ragazzi ormai quasi uomini. Persi una volta sola. Dopo il ballo ci ubriacammo tutti e scavalcammo la recinzione della piscina di Gainesville. Ci tuffammo nudi nella piscina olimpionica da cinquanta metri – la stessa piscina dove mi allenavo due ore al mattino e due ore alla sera tutti i giorni. Il mio corpo non era mai stato così forte. Sembravo un figlio. I bicipiti di un figlio. La mascella. Le spalle. I capelli che cancellavano il genere.
Senza seno. Quando tutti cominciarono a pomiciare, io feci vasche su vasche.
Quell’estate lunga e umida per me lo fu in modo particolare. L’aria si addensò non soltanto per il calore. A giugno, la cassetta della posta cominciò a ricevere le lettere. Offrivano delle borse di studio, per il nuoto. Visti di uscita.
La sera andavo fuori a controllare la cassetta della posta. Il respiro faceva un tuffo carpiato nei polmoni quando mi apprestavo ad aprire la cassetta e a rovistare tra quelle stupide lettere, aspettandone una dalla consistenza diversa. Aspettando di partire.
Arrivarono cinque lettere.
La prima lettera per una borsa di studio era fresca e pesante tra le mani. Arrivava dalla Brown University. Lo stemma rosso e nero sulla busta aveva un aspetto regale ai miei occhi. Lo percorsi con le dita. La busta era liscia al tatto – la qualità della carta annunciava qualcosa di diverso dal solito. La annusai. Chiusi gli occhi. La strinsi al petto. Rientrai quasi credendo in qualcosa.
La posai sul tavolo della cucina. Rimase lì durante tutta la cena, che consumammo in salotto guardando la tv. Barney Miller. Sentivo il sangue pulsarmi nei timpani.
Dopo cena, dopo Taxi, dopo che mio padre ebbe fumato tre sigarette, finalmente andò in cucina. E mia madre. E io. Sedemmo al tavolo della cucina come le famiglie normali, credo. Io e mia madre respiravamo. Lui aprì la lettera con gesti lentissimi da ritardato. Lesse in silenzio. Guardavo i suoi occhi, azzurri come i miei. Nella mia testa facevo le vasche. Mia madre sedeva accanto a me, massa ubriaca informe, picchiettando una mano sull’altra. Cercai di non staccarmi la lingua a morsi.
Alla fine, parlò. La borsa copriva tre quarti delle spese. In una scuola di snob. Una scuola di snob per ricche figlie di papà e bastardi coi soldi. Mia madre guardò fuori dalla finestra, nella notte della Florida. Fissai il foglio con lo stemma della Brown, con il mio nome. Sapevo
che non era una questione di soldi. Li avevamo. Lo disse poco dopo, qual era la questione, mentre il fumo della sua sigaretta si avvolgeva in spirali di vergogna attorno al mio volto. Pensavo di essere speciale? Era come se qualcuno mi stesse strozzando. Ricacciai le parole in gola.
La seconda lettera arrivò da Notre Dame. Di nuovo ci sedemmo al tavolo della cucina, un padre, una madre, una figlia. Il fumo della sigaretta quasi cinematografico. Sedetti in silenzio, persino la mia pelle conosceva la tirannia del linguaggio. Mia madre girava e rigirava una ciocca di capelli tra le dita, pensai che le si sarebbe staccata dalla testa.
Perché lui disse di no? Perché poteva.
La terza lettera arrivò dalla Cornell.
La quarta dalla Purdue.
No.
Al tavolo di una cucina in Florida.
Tutte le stanze della casa portavano il peso di mio padre. Tutte tranne una. La mia stanza tratteneva l’oscurità e il bagnato del mio corpo. Sapeva della mia pelle, di cloro e di erba. Le due finestre sulla facciata erano da tempo il mio portale d’accesso alla vita notturna delle ragazze in fuga. A luglio, in una notte così densa di sudore che avrebbe soffocato altre ragazze da meno, sola nel mio letto decretai la partenza. Me ne sarei andata, non importava come. Quella notte mi masturbai così forte da scorticarmi la pelle. Appena prima di addormentarmi, pensai a una valigia. La più grande che avevamo. Riposava silenziosa in garage dietro la sacca da golf di mio padre e gli scatoloni delle vite passate.
Nera e grande come un pastore tedesco. Grande abbastanza da contenere la rabbia di una ragazza.