Un estratto da “La vita profonda” di Martina Faedda
Pubblichiamo, ringraziando editore e autrice, un estratto dal romanzo di Martina Faedda La vita profonda, in libreria per Nottetempo.
di Martina Faedda
Capitolo 6. Spezza il fiato
Vittorio si era accorto dei graffi. Un giorno li aveva visti di sfuggita – erano ancora ad Asti e usavano lo stesso bagno, si erano incrociati sulla porta. L’accappatoio allentato di Olivia rivelava un lembo di pelle, sulla coscia. Non si potevano chiamare propriamente ferite, il derma era intatto, ma le ombre di quei solchi si sovrapponevano dando l’impressione di gesti reiterati. Segni rossi sull’interno della gamba scendevano verso il ginocchio, e Vittorio riusciva quasi a vederla la mano di Olivia che guidava la lama in quel percorso. Fino a quel momento aveva potuto illudersi che le crisi della figlia fossero solo moti di normale tristezza, gli sbalzi d’umore una caratteristica inevitabile dell’adolescenza, l’odio per se stessa nient’altro che un modo per attirare l’attenzione in quel quadretto familiare sfuggente e asimmetrico.
Olivia, cogliendo lo sguardo del padre, si era stretta l’accappatoio addosso. Vittorio non le aveva detto nulla, né in quell’occasione né dopo, facendo ancora più attenzione a non scorgere per sbaglio la pelle nuda della figlia. Arrivati nella nuova casa Olivia aveva ottenuto il suo bagno personale, e quel segreto era tornato a essere suo soltanto.
Lo sport l’aveva sempre messa a disagio: il sudore, l’affanno, la sua carne adolescente, appiccicosa, piena di ormoni e graffi, tutto la orripilava. Fare sport significava concentrarsi per ore sul disgusto. Olivia era rimasta di costituzione relativamente minuta, al contrario di quanto previsto dalla dottoressa che, sei anni prima, le aveva imposto dei trattamenti per sgonfiarsi. Tuttavia, prese singolarmente, le parti del suo corpo continuavano ad apparirle enormi. Se avesse potuto staccarsi un polpaccio e osservarlo come una cosa a sé, in mostra su una superficie piana, le sarebbe apparso mastodontico, un prosciutto di almeno sei chili. Si sentiva come il macellaio di se stessa, voleva staccarsi le carni ed esporle sul banco del negozio sperando che qualcuno le portasse via: sarebbero stati i tagli più succosi. La coscia, la lombata, la schiena, la pancia. Il polpaccio: le sarebbe venuto naturale appenderlo per la caviglia e affettarlo per i clienti. Avrebbe potuto sfamare centinaia di bocche voraci e averne ancora in avanzo.
L’unica attività fisica che le piaceva, sin da bambina, era passeggiare in montagna con Vittorio, partire nel weekend la mattina presto, raggiungere un rifugio, esplorare un nuovo percorso, arrivare in cima e guardare giù, realizzare soddisfatta la distanza che il suo corpo era stato in grado di colmare. Ma l’adolescenza aveva cambiato tutto: quelle escursioni a due si erano diradate, dopo una lunga settimana sui banchi di scuola tirarsi giù dal letto alle sette anche la domenica le sembrava una punizione, e passare una giornata con suo padre era diventata solo l’ennesima cosa che l’avrebbe resa aliena ai suoi coetanei.
Uno dei primi week-end dopo il trasferimento a Torino, Vittorio chiese a Olivia di andare con lui a camminare. Ormai aveva quasi smesso di farlo, non voleva trasmetterle a forza la sua passione, né inculcarle anche lui il pensiero che l’esercizio fisico fosse un altro stratagemma per scolpire il suo corpo. La vedeva, la disciplina imposta da Gioele, farsi largo negli ingranaggi della figlia. Sperava che Olivia si innamorasse spontaneamente della montagna, anzi nel profondo sperava che quell’amore fosse qualcosa di innato, un DNA fantasma che aspettava solo l’occasione di manifestarsi. Solo di rado, alla fine di ogni estate − secondo lui il momento migliore per arrivare in vetta −, faceva un timido tentativo. Qualcosa come: “Da bambina ti piaceva tanto”, oppure: “È l’unica attività che facciamo insieme”, e lei lo accontentava. Sentiva il bisogno di lasciare continue conferme del loro legame, come briciole sul suo cammino che, ripercorse a ritroso, avrebbero reso quell’affetto legittimo. Sentiva il bisogno di prove che le confermassero che, in qualche modo, si assomigliavano.
“Dai, facciamo un percorso più leggero. Tu non vieni da tanto e io in questi giorni sono un po’ affaticato,” le disse Vittorio. “Sarà il lavoro”.
“Va bene. Però in salita così sudiamo,” rispose la figlia. “Se no cosa vengo a fare?”
“Perché vuoi sudare?”
“Pa’, devo fare un po’ di sport ché se no qui divento una balena”.
Dopo un silenzio interminabile, Vittorio le disse: “Lo sai che sei bellissima, vero?”
Lei gli lanciò uno sguardo irritato, e si avviò.
Una camminata in montagna inizia davvero solo quando superi lo strozzamento. I primi minuti sono tranquilli, quasi non ti accorgi che stai facendo attività fisica. Salendo leggermente di quota, il corpo avverte che la quantità di ossigeno disponibile nell’aria è già diminuita e allora cerca di compensare. Aumenta l’attività cardiaca, il respiro, la pressione arteriosa. Continui a muoverti in ipossia, con meno ossigeno a disposizione. Nella saliva inizi a sentire un sapore ferroso, ti sembra di non riuscire a prendere un respiro completo.
“Trova il tuo passo, spezza il fiato,” le spiegava Vittorio. Ed era vero: a un certo punto, quando fare un altro metro sembrava proprio impossibile e i polmoni si arrendevano, ecco che i muscoli si abituavano, il cuore si adattava all’attività e all’altitudine. Olivia sapeva che, passo dopo passo, se non avesse dato peso al dolore alle gambe, alla lingua secca e al bruciore alla gola, tutto si sarebbe affievolito. Il trucco era non pensarci, non dare adito a quei segnali, concentrarsi su una qualsiasi altra cosa fino a quando le gambe avrebbero semplicemente iniziato a muoversi da sole, pulsando di energia involontaria. A quel punto non avrebbe sentito più nulla: bastava superare i primi quindici minuti, e poi poteva camminare anche per quindici ore. Se solo fosse riuscita a non farsi sopraffare dalla fatica. Se solo anche la vita funzionasse così, si disse Olivia.
“Ricordi quando ti raccontavo delle fate del bosco per convincerti a camminare?” chiese Vittorio, fissando un punto davanti a sé.
Per strada, in città, Vittorio parlava gesticolando, guardandola in faccia, guardandosi intorno, lo sguardo sempre in movimento. Sui sentieri, invece, le aveva insegnato a camminare con gli occhi fissi in avanti, per studiare i passi successivi, essere sicura di dove metteva i piedi. Camminavano, parlavano o rimanevano in silenzio sempre rivolti alla montagna, mai l’uno all’altra.
“Certo che mi ricordo. Bugiardo,” disse lei.
Le aveva spiegato che, quando sentiva di non avere fiato e di non farcela più, doveva rimanere in tenace silenzio, stare attenta a non inciampare su massi o radici. Allora le fate del bosco sarebbero arrivate e le avrebbero dato la forza per continuare e raggiungere la vetta. Le fate conoscevano tutti i funghi, i muschi e le foglie, tutte le fonti e i sentieri, sapevano riconoscere le ortiche e ne stavano alla larga. Sapevano che non bisognava perdere il ritmo.
Adesso Olivia aveva la milza in fiamme, era troppo fuori allenamento, e ancora una volta ignorare quell’istinto a fermarsi le veniva naturale.
“Mi dispiace non venire mai a camminare con te,” disse. Era più facile esprimersi, in quelle passeggiate. Con la montagna come unico spettatore, in quella dimensione sospesa non era necessario che i discorsi avessero un significato preciso e univoco, o che fossero collegati.
“Se a diciotto anni passassi i week-end con me, mi preoccuperei,” la tranquillizzò Vittorio. “Però sono molto contento che oggi sei qui”.
Man mano che salivano la realtà quotidiana si faceva più remota. Intorno solo alberi e pietre, funghi, foglie e terra. Sarebbe potuta apparire davvero una fata: in quel luogo e in quel momento non ci sarebbe stato nulla di strano. Olivia lanciò uno sguardo alle felci, certa per un secondo di cogliere alla sprovvista una fata che non aveva fatto in tempo a nascondersi. Poi, la mortificazione di averlo pensato.
“Pa’…”
Si fermò, prese fiato. Poi continuò: “Io non sono tanto normale, vero?”
“Ma che dici amore, in che senso?” disse Vittorio. Il timbro della voce lievemente più acuto del solito. Sentiva molto di più la fatica, ma cercava di non farci caso.
“Nel senso che non sono tanto normale. Lo so, lo sento,” proseguì Olivia.
Lui aspettò qualche secondo. E in quei secondi immaginò la figlia lacerarsi meticolosamente con una lametta l’interno coscia, rintracciare con precisione chirurgica le ferite abbandonate la volta precedente, e rimarcarle. Si sentì sopraffatto, cercò la risposta giusta, quella che l’avrebbe rassicurata. Credette di averla trovata e la recitò con la voce di sempre: “No, tu non sei normale. Sei meglio”.
Le fece malissimo. Il dolore interiore non è una metafora, è fisico, ti prende a morsi la pancia. Avrebbe avuto bisogno di una smentita, di sentirsi dire che era normalissima e che non c’era nulla fuori posto. Invece doveva continuare a far finta di niente, di essere meglio, ché meglio significava diversa e, sì, avrebbe preferito essere peggio pur di essere uguale a tutti gli altri.
Vittorio si voltò a guardarla. “Forza, ché non siamo neanche a metà”.
Allungarono il passo, entrambi ormai con il fiato spezzato.