Pubblichiamo il primo capitolo di “Ragazza senza prefazione” di Luca Tosi, in uscita oggi per TerraRossa Edizioni (che ringraziamo).

di Luca Tosi

Ultimamente, sono arrivato a pensare: chissà perché, fra i miei parenti non muore mai nessuno. L’ho pensato anche poco fa, quando son uscito a camminare e ho voltato per prender via Cupa. Sarebbe ora che ne schiatti uno. Di qui a poco, preferibilmente. Uno zio, che ne ho sei, o la mia bisnonna di centosette anni. Brutto, mi sembra, come pensiero. Ma è che ho i parenti tutti vivi, io: zii, prozii, cugini e figli dei cugini. Come si chiama il grado di parentela con i figli dei cugini? Ho una cugina, io, che ha sfornato quattro figli maschi. E uno di questi, che c’ha sedici anni, ha già fatto una figlia. A quarantadue anni, mia cugina è già nonna.
Mi escono dalle orecchie, ’sti parenti. E oggi è il complean-no di quello, e il mese prossimo c’è la comunione di coso. «Marcello» mi han chiesto, «vuoi farlo tu, il padrino?».
Il meglio è mio nonno. Primo, si chiama. Maniaco dei Gratta e Vinci. Va al tabacchi, tutte le mattine, col bilancino; pesa i biglietti, prima di comprarli. Secondo lui, quelli buoni pesano qualche grammo in più. Vince? Ma va’ là. Tira le madonne contro il governo e basta. Pretende sempre che vada a casa sua, a trovarlo, chiacchierare…
«Cosa ti costa, venir una volta ogni tanto?» mi dice.
Ma una volta con uno, una volta con l’altro, finisce che s’ammucchiano, tutte queste volte. A metter in fila Natali, Pasque, Pasquette, battesimi e compleanni, vien fuori che non ho mai la testa libera, figuriamoci passare a trovarli anche gli altri giorni.
Vado su per via Cupa, una strada stile San Francisco, tutta salita, dritta. Porta al punto più alto di Santarcangelo: il monte di Piretta. Ci vengo tutte le sere, ormai. Non che mi piaccia particolarmente camminare, son tutto meno che uno sportivo. È che se non sfollo di casa, dopo, mi vien un nervoso che scoppio.
Abitare coi miei, è insostenibile. C’ho la pelle delle braccia, dei gomiti soprattutto, tutta screpolata. Per lo stress, son convinto. Psoriasi, mi han detto in farmacia. Ci devo dare la pomata due volte al giorno, una roba bianca, contiene cortisone però non funziona. Le mie braccia restano così, a passarci le mani si grattugiano come il parmigiano.
Fare una passeggiata mi alleggerisce le cervella. Mentre vado, fumo un tronco di sigarette, che fumare a casa, non sia mai! «Marcello, non c’hai un lavoro, non c’hai la fidanzata, e fumi?» mi dicono i miei.
Mi chiamo Marcello Travaglini, c’ho ventisette anni e mi sento in gabbia. Morisse, almeno, uno dei parenti, uno purchessia, secondo me, sentirei più aria intorno alla testa. Non chiedo molto: uno. Poi gli altri posson campare quanto vogliono.

Eravam a tavola, stasera, mia mamma aveva cucinato le scaloppine coi funghi, che le vengon buone, di contorno radicchio e cipolle, pomodori al gratin: tutto squisito. Mia mamma non va mica al supermercato, a comprar la verdura. Va al NaturaSì, che la roba costa sei volte di più, là. Però, buona è buona.
Dopo mangiato mi son rintanato in camera, sul letto, ma li sentivo discutere, i miei, in cucina.
«Cosa fa, come si sbatte, il lavoro non lo cerca? Io non capisco» ha detto mio babbo.
Non capisce mai un tubo, lui. Però, insieme a mia mamma gonfia dei discorsi, e parlano come se sapessero tutto loro, di come si sta al mondo. Son laureato, io, Economia e Commercio, e dopo la laurea ho lavorato al Fuder, lo zuccherificio, due anni amari. Allora ho mollato e ho fatto un master in Business & Management, di un anno, a Padova, tutto in inglese, è costato bei soldi. Loro, invece? Mia mamma, commessa da Tigotà, una vita a trotterellare per le corsie, e mio babbo disossa le carni chiuso al fresco nella macelleria. Hanno la terza media e vorrebbero insegnarmi a vivere.
Ce ne ho messa di volontà, ho provato, più volte, a spiegarmi.
«Non li vedete, gli altri, in Italia? Quelli della mia età, sono messi tutti come me.»
Non è vero, secondo loro. Gli altri, dicono, si rimboccano le maniche. Io, invece, poltrisco. Ma guardano solo chi gli fa comodo, loro: l’esercito di cugini e i figli dei nostri vicini, gente che si è sistemata subito, casa, lavoro, tosare l’erba il sabato mattina e buonanotte al secchio.
Non vedono più in là. Non lo sentono, l’andazzo che c’è. Io non li soffro più.
E in mezzo a ’sta sofferenza c’è Lei, nella mia testa. So poco di Lei, solo che ha due anni meno di me, e che le piacciono le mandorle salate e tostate, e che è nata a San Mauro Pascoli. Chissà se sta ancora a Bologna: ha fatto lì l’università, Psicologia. Abbiam passato insieme solo un paio di giorni. L’anno scorso, a dicembre, appena prima di Natale.

Otto, nove, dodici transenne in acciaio, due metri e mezzo l’una, ammucchiate là. Le han lasciate all’inizio di via Cupa, dove svolta la strada. E mica le vengono a togliere, quelli del Comune! Cosa aspettano, che vadano via da sole? Due mesi, che siam con le transenne fra i maroni. Da quando è passato il Giro d’Italia.
Erano i primi di giugno. Ci ero andato, a vederlo. Appoggiato a una di ’ste transenne, su per via Cupa. I corridori, in mandria, pedalavano a stufo, tutti in silenzio con delle facce spappolate. Cinque minuti a dir molto. Centocinquanta, duecento corridori sparati, e addio.
Le cose, avevo pensato, vanno via veloci. O ti ci aggrappi al volo, o non le riprendi più. Qui nessuno ti aspetta: se non stai sveglio, passano, e le perdi. Ti attacchi al tram, poi.

L’ultima volta che ci siam parlati, io e Lei, è stato molto prima del Giro. Gennaio, era. Aveva nevicato, ma appena appena, i tetti erano sputati di bianco. Mi aveva telefonato Lei. Quel che doveva dirmi era che aveva ritrovato Dumbo, il suo peluche. Credeva di averlo perso. Era contentissima.
C’eravam chiesti come va, come stai, eccetera. Alla fine, ci sentiamo, ciao.
Dopo ’sta conversazione, mai più sentita, la sua voce. Non ci siamo più telefonati, e un po’ per volta sono finiti anche i messaggi. Adesso è agosto. Un mese c’ha trenta giorni: calendario alla mano, da gennaio a oggi sono duecento giorni. Tanti. Io sono a Santarcangelo che cammino, Lei chissà dov’è.
So di esser ruvido, di carattere. Ho degli spigoli e molto orgoglio. Avrei potuto ritelefonarle io, la settimana dopo, tipo. Farmi sentire. Starle un po’ addosso. Non l’ho fatto. Uno pensa di poter fare questo o quell’altro, ma poi, un momento, ti dici, meglio non far niente, per non sbagliare. Ho pensato così. Perché a sbagliare è un attimo, e gli errori che si fanno poi non passa nessuno a toglierli. Rimangono lì, come le transenne.
È finita così, con Lei. Per non sbagliare.
All’inizio ero stato intraprendente, c’avevo messo del coraggio, la volevo. Mi sembrava su misura per me, come ragazza. Però non ho tenuto botta, mi è mancata la misura, ecco. Il coraggio, man mano l’ho perso, e son venuto meno, lì lì che ce la stavo per fare.

Quelli della mia età, a Santarcangelo, sono una brutta razza. Solo coppiette in giro, mai uno che lo vedi andar da solo. Ci sono le coppiette paleolitiche, che si sopportano dalle superiori, e quelle di primo pelo: le riconosci subito, da come si baciano. S’azzannano, sembra. In parecchi, poi, han già figliato. E c’è chi sta figliando adesso adesso. Ma non è che uno mette su famiglia così, senza essersi fatto i conti in tasca.
Giorgio Zoli, prendiamo lui, è un mio amico. L’università non l’ha fatta ma adesso lavora nell’azienda di suo babbo. Fanno gli aquiloni, gli Zoli. Fatturato di mezzo milione l’anno, senza contare il nero. Giorgio, tre anni fa, è andato a convivere con sua moglie, a Savignano sul Rubicone, che là gli affitti costano meno. Braccino corto, sempre stato così. Dopo, sua moglie è rimasta incinta, e han preso casa a Santarcangelo, senza mutuo. Adesso girano in centro col passeggino elettrico.
Io, invece, casa, azienda, niente. Neanche uno straccio di lavoro, ho.

Martedì son stato da Alan. Ci conosciamo da quando eravam piccoli. Elementari, medie e superiori insieme. Non lo vedevo da aprile: troppo impegnato. Alan, che ha sempre lavorato come corriere per una ditta di beveraggi a San Marino, in quattro mesi si è reinventato: personal trainer. Corso di formazione e brevetto. Poi, suo nonno gli ha dato centoventimila euro, mi ha spiegato, e con quelli ci ha aperto una palestra, in franchising. I clienti li allena uno per volta, attaccati a un macchinario che gli scarica addosso delle vibrazioni, tipo, mentre fanno le flessioni e via dicendo.
«Una tecnologia nuova, d’avanguardia» mi ha detto. «I primi mesi in perdita, sono stati cazzi amari. Ma pian piano ho ingranato.»
Mi ha fatto pensare al mio, di nonno, ai Gratta e Vinci che spella, la testa di rapa.
Siamo stati in terrazzo. Abita da solo, Alan, a Borghi. Là, di notte si vedono i contorni delle colline contro il cielo, e fa un fresco, come al Piretta. Allora giù sigarette, patatine, birre, seduti scalzi e stravaccati, che io quando c’è da stravaccarsi primeggio, son portato.
«Marcello, la spacchi, per la Madonna!»
S’è scocciato, a una certa, per il mio vizio di dondolarmi sulla sedia. Ma so qual è il limite, non mi faccio accoppare da una sedia. Però, casa sua, sedia sua, ho dovuto smettere.
«Com’è che ristagni così?» mi ha chiesto dopo.
Non volava una mosca in terrazzo, e toccava che parlassi.
«Boh» ho detto.
Alan ha fatto di no con la testa, e ha socchiuso gli occhi.
«Ogni cosa, qualunque sia, per farla andar bene bisogna lavorarci dietro. Sgobbare! C’è un sacco di gente che spera e non fa. L’ho preso in culo tante di quelle volte, io, a sperare, adesso ho imparato.»
La differenza fra me e lui, mi sembra, è questa: Alan fa, io ancora lo prendo…
«A fighe, come sei messo?» gli ho chiesto, per cambiar discorso.
Che ne ha passate, Alan: santarcangiolesi, sanmarinesi, riminesi, anche tre a settimana, con Tinder. Gli piace, vantarsene.
«Sto con una di Cesena» mi ha detto. «Saran tre mesi, ormai. Mi sono scocciato di cambiar tipa come si cambia una mutanda sporca.»
Da lì, è passato a parlarmi di una sua teoria, “la terza mandata”: secondo Alan, fra due o tre anni verrà il turno dei cani sciolti, quelli come me, che si troveranno una tipa fissa intorno ai trent’anni, e figlieranno entro i trentacinque.
«Questa, per te, sarà la mandata buona» ha detto.
In effetti, mio babbo ha fatto così: si è sposato a trentatré anni, mia mamma però ne aveva ventuno. Due anni dopo hanno avuto me. Terza mandata, mio babbo.
La cosa che non sopporto, più di tutto, è assomigliargli, a mio babbo. Quando son a tavola, che ce l’ho di fronte, mi fissa. Io tengo gli occhi sul piatto, e faccio finta di niente, ma mi gonfio di nervoso. Fisicamente siam sputati, ci sta, son suo figlio. Ma i gesti… Prendiamo il bicchiere allo stesso modo, teniamo un braccio piegato vicino al piatto allo stesso modo, e mastichiamo uguali, gli stessi schiocchi mascellari. Quasi tutto, di me e mio babbo, coincide. Allora mastico a stufo, che rischio di strozzarmi certe volte, pulisco il piatto e sloggio. Aspettare un paio d’anni, poi fare come lui e pescare una ragazza di dieci anni in meno, che basta raccontarle qualche storiella? No. Se penso a una ragazza, io sono come la sala di un cinema che proiet-ta un solo film. Lei.
Il 20 e 21 dicembre dell’anno scorso sono stati giorni indimenticabili. Non ne ho altri al pari, nella memoria.
Erano anni, che la puntavo, che ce l’avevo in testa, però, ecco, non mi ero mai adoperato in nessun modo. Mai mosso un dito. Che vista la lezione di Alan sul fare, anziché sperare, sarei dovuto esser spacciato. Invece, con Lei le cose sono successe lo stesso. Ma è finita in vacca.
Lei, per me, è dolore e cura insieme. Una cosa unica.

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