Un morto che parla. A proposito di “Io?” di Peter Flamm

Pubblichiamo un estratto dalla postfazione di Manfred Posani Löwenstein al romanzo Io?, il libro di Peter Flamm pubblicato da Adelphi. Flamm è lo pseudonimo di Erich Mosse, psichiatra e scrittore nato a Berlino nel 1891 e morto a New York nel 1963.

di Manfred Posani Löwenstein

Chissà da quanto tempo siamo morti.
Georg Trakl, Entlang

« Non si era notato, che, dopo la fine della guerra, la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile| Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca in bocca ». Prima che Benjamin ne ricavasse la tesi del tramonto del narratore, Ernst Jünger aveva già definito il 1914-1918 come un « evento totalmente al di fuori dell’esperienza ». È questo – la scrittura di uno shock che resiste a ogni elabora- zione individuale – il tema impossibile di Ich|.

Sì, perché il protagonista vorrebbe raccontare, e però non può farlo (« il segreto è come una barriera che mi sigilla la bocca »); no, perché la sua vicenda non tocca la guerra in generale, ma un episodio misterioso, avvenuto durante l’ultimo giorno del conflitto.

Il narratore – chiunque egli sia – afferma davanti a dei giudici di non essere se stesso (« un morto parla per bocca mia »), di non riconoscersi nel crimine che gli è imputato. Per la legge, egli è senz’altro Hans Stern: ha ucciso il magistrato che lo aveva smascherato come chirurgo inadempiente e spergiuro. Ci sono il corpo e l’arma del delitto, c’è un movente plausibile. E tutti questi fatti troveranno conferma nella pur nebulosa testimonianza dell’imputato.

In realtà, la sua ‘confessione’ non collima né con il capo d’imputazione (il delitto su cui si chiude il romanzo), né con l’omicidio colposo (una gravissima negligenza medica) per il quale viene ricattato dal perfido Sven Borges. L’imputato sostiene di avere rubato l’identità a un morto; addirittura di essersi trasformato lui stesso, da umile fornaio che era Wilhelm Bettuch, nel rispettabile dottor Stern, in seguito al furto del suo passaporto.

nello specchio vedo il cane, gli oggetti nella stanza, la sedia davan- ti al tavolo, e sopra il tavolo i libri, il posacenere, la lampada … e un estraneo lì accanto, capelli scuri sulla fronte, la testa sul pelo dell’animale, la mano – paralizzato alzo lo sguardo, anche l’altro solleva la faccia, due occhi mi guardano fisso… l’altro fa lo stesso… io, io, io, un altro è me, io sono l’altro, il morto, che ora vive, faccia, corpo un altro, muscoli, carne, intestino, cervello e anima.

Le possibilità sono due: a) Hans è vittima di un trauma; i frammenti di Wilhelm Bettuch conficcati come schegge nel suo cervello non sono che ricordi di conversazioni in trincea; b) Hans è morto nell’ultimo giorno di battaglia, e Wilhelm ha preso il suo posto. Giunto a Berlino – una città che dice di non avere mai visitato – tutti lo riconoscono come Hans Stern, tranne il cane Nerone, che come un Argo al contrario gli abbaia contro e lo morde.

Chi legge deve scegliere tra due punti di vista inconciliabili. Tuttavia, il criterio dell’impossibilità logica è smentito dall’unità drammatica del romanzo, che assume come vere entrambe le ipotesi (Hans è e non è Wilhelm). I disturbi del protagonista somigliano all’interferenza tra due segnali radio: ora affiorano ricordi di viaggi in quarta classe e incidenti sul lavoro, ora fotogrammi di una quieta esistenza borghese. La stessa punteggiatura di Flamm – diversissima da quella di Céline, dove i puntini di sospensione aderiscono freneticamente al ritmo del parlato – non fa che accentuare questa disarmonia. Come piccole crepe sulla pagina, i trattini annunciano un crollo imminente: nessuno di quei frammenti – non i ricordi di guerra, non la vita privata e professionale – si lascerà ricomporre in un ‘io’. Gli altri personaggi si riflettono nel monologo del protagonista «come oggetti in una vetrina»; ogni cosa è scissa, lacerata, vive «per conto proprio» (il dito del piccolo Kurtchen, l’azione inflessibile della legge, i passi dei due innamorati nella notte). La salvezza è a portata di mano, eppure irraggiungibile:

Mi avvicino piano, all’improvviso mi è totalmente estranea, una sconosciuta, in silenzio, delicatamente le abbasso il vestito sulle gambe, mi siedo sul bordo del letto, vorrei dirle qualcosa, vorrei tendere la mano e accarezzarle i capelli, ma è come una strada sen- za fine…

Tutto (le distanze, il tempo) si contrae e si dilata: «Non è forse un anno esatto che sono tornato» domanda all’improvviso Hans, quando pensavamo che fossero passati pochi giorni dal suo arrivo a Berlino. Flamm affida ai viaggi in treno (quattro, se contiamo la gita all’osservatorio) la scansione della durata ‘oggettiva’ del racconto. Ma essi non hanno alcun rapporto con il ‘tempo vissuto’ dell’eroe. Ogni volta che entra in stazione, questi sprofonda in un buco nero: «Per quanto tempo sono stato via, ore, giorni|, lei sarà ancora di- stesa sul sofà, dormirà ancora|, non sarei dovuto partire…».

A complicare le cose, infine, è il misterioso inserto processuale che vede Hans Stern testimoniare nelle vesti di perito. Ora sul banco degli imputati siede Emma Bettuch, sorella di un certo Wilhelm Bettuch, morto in guerra. Anche lei è accusata di omicidio. E anche qui c’è un cane – lo stesso cane – che morde qualcuno: il vero assassino è lui.

Ma questa, ancora una volta, è la versione di Hans.

 

Commenti
Un commento a “Un morto che parla. A proposito di “Io?” di Peter Flamm”
  1. Luisa Crismani ha detto:

    Avrei voglia di leggerlo questo “Ich?” Ma l’emozione che mi ha dato “Guerre” di Céline mi impedirà, credo, di volgere lo sguardo altrove… Almeno per un po’.
    Grazie
    Luisa Crismani

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