Un nastro rosa a Abbey Road

Pubblichiamo un estratto dal libro di Donato Zoppo Un nastro rosa a Abbey Road, uscito per Pacini editore.

di Donato Zoppo

Il tema cardine di Una giornata uggiosa si aggira tra la leggerezza dal retrogusto agrodolce, la difficoltà di comunicazione, la vaghezza di questa fine decennio, con le Grandi Narrazioni Musicali in disfacimento e le Utopie in pensione anticipata. Dissimili le sonorità del disco precedente, dissimili anche i testi, ma con qualche frammento di continuità. Ad esempio in Perché no, uno dei brani più belli di Una donna per amico, una parte non era stata cantata:

«Una barca sopra il lago, io che remo piano
Il silenzio sorridente, l’ombrellino e tu
Salta un pesce, giusto un guizzo, e tu per vezzo
guardi assente verso riva e non mi guardi più».

Quando Mogol pennellava capolavori di semplicità. Questo velo di malinconia dolciastra, sguardi fugaci che disilludono, è la partenza di Una giornata uggiosa.

Il repertorio mogoliano è appena aggiornato, appena sospeso nel limbo. Sullo sfondo una Milano piovosa. E poi ci sono le confessioni, i malesseri, i desideri personali e pubblici, intimi e civili: un cimitero di campagna, gli affanni da placare dopo un decennio di corse, le mutandine rosa, un amico vero, gente giusta non abbindolata dalle mode, la dignità di un Paese, la tentazione di mollare tutto per la Nuova Zelanda e via dalla Brianza velenosa. Mogol è presente, come sempre.

È Battisti a essere presente in modo diverso. D’altronde ogni suo album è diverso, tutti però hanno un filo conduttore: provengono da un itinerario compositivo che tiene conto della ricezione dell’ascoltatore. Circolarità nella scrittura, genesi di un’emozione, restituzione fedele al destinatario. Tale modalità aveva trovato una prima sistemazione, inevitabilmente ingenua, nella famosa intervista di fuoco a «Speciale per voi», dove erano emerse la apoliticità e la prevalenza dell’emozionalità sul rispetto del canone. All’inizio del decennio per ottenere la “canzone verità” Lucio improvvisava in studio, lasciava imperfezioni e sporcature pur di scuotere il mondo emotivo, incarnava in pieno la “aesthetic of the american hipster” (di cui scriveva Daniel Rogers), da Bob Dylan alla Linea Verde. Nel 1979 invece la sua ricerca di autenticità, ormai distanziata dal blocco generazionale e dalla tensione culturale degli anni precedenti, si concentra sulla cura del “feeling” all’interno di una costruzione certosina.

Una giornata uggiosa nasce ai Town House, nella Sala 1 di uno studio in cui transitano nomi che stanno cambiando la musica, dai Simple Minds agli XTC, da Mike Oldfield agli storici Sweet arrangiati proprio da Geoff Westley, fino ai The Jam. Nella Sala 2 Steve Lillywhite e Hugh Padgham stanno lavorando al suono di un disco che rivoluzionerà il nuovo decennio: il terzo album di Peter Gabriel, meglio noto come Melt.

Lucio lo ascolterà con attenzione, intrigato dal “gated reverb”, dalle innovazioni sonore, dal taglio avveniristico dell’opera dell’ex cantante dei Genesis. Anche Peter lo ammira, ricorda Geoff Westley: «Lucio ed io da una parte, Peter e i suoi musicisti dall’altra, durante quei mesi di lavoro in studio le due squadre si mescolavano quotidianamente, i due erano fan l’uno dell’altro. Capitava ogni giorno di incrociarsi nella sala comune a bere o mangiare, accadeva anche a Peter e Lucio. Non ci fu un incontro storico tipo udienza dal Papa, ma il vedersi nelle pause da una lavorazione che prendeva molto entrambi, accomunati anche dal carattere riservato».

Così i due dialogano, si scambiano informazioni sulla loro attività, su quell’Italia così amata da Gabriel, memore dell’ondata di affetto ricevuta dai Genesis anni prima sul suolo tricolore, su quell’Inghilterra che Lucio sta scoprendo da cittadino comune, dal suo nuovo appartamento londinese al quale torna ogni pomeriggio.

Contatti del genere creano opportunità lavorative preziose: Peter approfitta di una pausa caffè con Geoff per chiedergli una mano, gli serve un tastierista valido che sostituisca il suo Larry Fast in un festival importante. È un’offerta irrinunciabile. Domenica 26 agosto Westley sarà sul palco della 19ma edizione del Reading Rock nella band di Peter Gabriel (David Jackson, John Giblin, Jo Partridge e Preston Hayman; alla batteria l’antico compagno dei Genesis Phil Collins), terzo e ultimo giorno della kermesse con celebrità quali Police, Whitesnake, Cheap Trick, Motorhead e tanti altri.

Una giornata uggiosa rinuncia ai volti prismatici della disco music, alle molteplici declinazioni della fisicità funk, mette al centro un pop-rock a una dimensione ma non statico, per Battisti la ripetizione è vietata. Mogol è lontano dal volo metafisico, dall’occhio della tigre, dalla mascella del maschio che marca il territorio. Lucio non è più il Battisti classico, non è ancora il Battisti delle microsuite elettroniche. Tra i due brilla Westley, fiero del proprio lavoro.

Manca tuttavia la sintesi di cui parlava Lucio nell’ultima intervista, benedetta e santa ultima intervista: dov’è la musica rozza? Dove sono il Lucio e il Giulio sgraziati? Una giornata uggiosa è secco, insistente, costrittivo per i ripetuti falsetti di Lucio, divisivo per Mogol che parla di odio feroce odio ruggente, è la prima volta che questo sentimento marcia così. Pochi mesi e arriveranno cervi e primavere, e poi celesti nostalgie e canzoni stonate.

E poi i giornalisti ancora si lamentano che Lucio non parla: ma c’è l’opera a dire tutto. È tutto evidente. Tranne una cosa. In Una giornata uggiosa si comincia a respirare il futuro ma è presto per capirlo: si chiudono anni di sperimentazioni e assestamenti, si schiudono nuovi cicli nei quali Battisti sarà radicale. È uno dei dischi più eloquenti nell’equilibrio battistiano tra masse e iniziati, tra pop ed esoterico, dialogo che Battiato porterà a compimento. Forma-canzone destinata al consumo di massa ma perfezionata da un artista che rifugge l’autocelebrazione. La contronarrazione che partirà con E già trova qui un primo seme, ben sotterrato e pieno di vitalità. Già ora Battisti è altrove.

Anche Mogol è altrove. Alieno agli ultimi bruciori politici, disinteressato ai bollori danzerecci del riflusso, normalizzato in anticipo rispetto agli imminenti anni ‘80, fatta eccezione per il mood sottile e misterioso dell’ultimo brano. Un epitaffio sospeso tra passato e futuro; tra piombo e look, sassaiole e telecamere, fabbriche e satelliti; tra libellule sul prato, spese, spose e nastri rosa.

 

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