“I meme e Mark Fisher”: un estratto dal libro di Mike Watson
Pubblichiamo, ringraziando l’autore e l’editore, l’introduzione di Mike Watson all’edizione italiana del suo “I meme e Mark Fisher: Realismo capitalista e scuola di Francoforte nell’era digitale” pubblicato da Meltemi con la traduzione di Mariaenrica Giannuzzi e una di Nello Barile.
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I meme e Mark Fisher è stato scritto alla fine del 2020 in Finlandia, in un clima di paura e di attesa a livello globale, quando il lockdown per il Covid sembrava volgere definitivamente al termine. La sensazione prevalente era che, comunque fosse andata, il periodo successivo alla pandemia avrebbe rappresentato un cambiamento epocale. Per molti di noi a sinistra, abituati a successivi fallimenti elettorali e a una rapida ascesa dell’estrema destra in tutto l’Occidente, questo significava vivere nell’attesa di un disastro imminente. Persino la sconfitta di Donald Trump nel 2020 non era stata d’aiuto, poiché gli eventi del 6 gennaio avevano dimostrato che l’odio della destra si era talmente radicato nella psiche nazionale statunitense da minacciare di esplodere spontaneamente e mettere fuori gioco la democrazia in qualsiasi momento. Quattro anni dopo, questa possibilità è ancora un rischio molto concreto negli Stati Uniti. Nel Regno Unito, i primi ministri Tory che si sono succeduti hanno spostato il dibattito politico a destra, mentre in Italia l’estrema destra di Giorgia Meloni guida un governo di coalizione.
È naturale che in un momento così cupo ci si rivolga alla teoria politica e sociale del passato per cercare una via d’uscita, per dare forma a un contromovimento o, semplicemente, per imparare in che modo i nostri predecessori a sinistra hanno affrontato difficoltà che sembravano insormontabili. Così, alla fine del 2020, stremato da diciotto mesi di isolamento che mi avevano allontanato da quasi tutte le persone che conoscevo sia nel Regno Unito (dove ero nato), sia in Italia (dove avevo vissuto per dieci anni prima di trasferirmi in Finlandia), ho guardato al lavoro di Mark Fisher, recentemente scomparso, e anche alla seconda generazione della Scuola di Francoforte. Questa decisione è stata in qualche modo pragmatica. Per qualche tempo ho seguito il fenomeno online legato al lavoro di Mark Fisher: i meme, i video su YouTube e i podcast. Conoscendo questa relativa popolarità del personaggio di Fisher e delle sue idee di base all’interno della comunità online, ho pensato che una discussione sul suo lavoro avrebbe fornito l’opportunità di aprire una riflessione sul ruolo delle forme creative di resistenza. Se decine di migliaia di giovani millennial e zoomer stavano già apprezzando i meme e i video di Mark Fisher, mi è sembrato che fosse breve il salto a convincerli a leggere delle proprietà redentive dell’arte viste dalla Scuola di Francoforte. I meme e Mark Fisher sarebbero stati la porta d’accesso ad Adorno, Benjamin e Marcuse nello stesso modo in cui avevo usato i riferimenti alla cultura popolare durante l’insegnamento di comunicazione e media nelle varie università per spiegare i concetti della teoria critica.
Conoscevo il lavoro di Fisher grazie al suo blog “k-punk” negli anni Duemila. In quel periodo Fisher insegnava in un istituto di istruzione superiore e si era allontanato dal mainstream accademico. La sua grande disponibilità nei confronti di chi lo contattava via e-mail o sui social media era insolita, in un’epoca in cui gli accademici tendevano a essere piuttosto distanti. E io potevo comunicare con Fisher più facilmente che con la maggior parte dei professori del mio master a pagamento.
Ciò che risaltava di Fisher era il modo in cui cercava di tenere aperte le porte alle persone che lo circondavano, piuttosto che entrare negli spazi sacri e socialmente riconosciuti della teoria critica e sbattersi la porta alle spalle, come facevano e fanno tuttora molti altri. In quest’ottica, se da un lato sembra ironico che la teoria di Fisher sia diventata un meme popolare dopo aver sostenuto che il capitalismo banalizza la critica di sinistra, dall’altro è del tutto appropriato. In fondo, la sfera dei meme è perfettamente adatta a far scendere la teoria critica e la filosofia dal loro piedistallo, proprio come Fisher ha cercato di fare attraverso il suo blog “k-punk” e con il suo atteggiamento inclusivo nei confronti dei lettori. Se Fisher doveva essere usato per coinvolgere i giovani nella lettura della teoria critica, questo era un omaggio a quanto Fisher aveva fatto prima dell’esplosione dei teorici dei meme, per aprire la strada a una cultura in cui i giovani si scambiano immagini di cartoni animati su temi filosofici.
Con questo non si vuole ignorare il grado di sdegno che Fisher avrebbe probabilmente avuto nei confronti della natura superficiale dei meme filosofici. Piuttosto, riconosco che Fisher ha visto ciò che Marx e Benjamin avevano visto nel XIX e XX secolo: che il capitalismo avrebbe portato il meglio e il peggio di tutti i mondi. Il compito del teorico critico è quello di passare al setaccio il male e portare in primo piano il bene, cosa che Fisher ha fatto brillantemente, per esempio, da critico musicale e dei media. Il mio compito è stato quello di applicare questo approccio ai meme. Come ho detto giustamente agli amici e al mio editore, probabilmente in alcuni ambienti sarei stato messo alla gogna. Tuttavia, mentre mi tolgo dalla faccia l’ultimo (per ora) dei proverbiali pomodori marci che mi hanno tirato, traggo non poca soddisfazione dalle molte persone che mi hanno detto che la versione inglese di I meme e Mark Fisher è stata per loro una porta d’accesso sia a Fisher, sia alla Scuola di Francoforte.
I meme e Mark Fisher si concentra su due premesse principali di Realismo capitalista: in primo luogo, il capitalismo spiazza i suoi critici culturali e, in secondo luogo, il capitalismo causa la depressione. Il libro analizza poi la cultura contemporanea attraverso il prisma del pensiero della Scuola di Francoforte (in particolare quello di Adorno, Benjamin, Horkheimer e Marcuse) per proporre una risposta a questa duplice sfida. Come scrissi all’epoca, non si tratta di un libro che cerca di spiegare Fisher attraverso la Scuola di Francoforte o viceversa. Non è nemmeno un’introduzione ai pensatori della Scuola di Francoforte tramite i recenti e attuali fenomeni culturali della sinistra (tra cui i meme e Fisher). È un libro che, profondamente inserito nel suo tempo, cercava di svelare il pasticcio in cui ci trovavamo e di fornire un percorso a chi usciva dall’isolamento. Speravo che una generazione a cui era stata negata la libertà di movimento a causa delle restrizioni del Covid si sarebbe incontrata con i disoccupati e gli immigrati, e insieme avrebbero creato una nuova controcultura simile al Grande Rifiuto proposto da Marcuse ne L’uomo a una dimensione, simile a quello che Fisher chiamava “comunismo acido”. Anche se non ho mai pensato che sarebbe successo davvero. Lavorando nel solco di Adorno, Benjamin e Fisher, vedevo il futuro come qualcosa di opprimente e poi abbozzavo l’unica remota possibilità che mi sembrava plausibile per emergere da questi tempi bui: che le energie creative dei malati e degli oppressi potessero produrre rotture nel tessuto del capitalismo. Come sosteneva Fisher, “dobbiamo trasformare problemi diffusi di salute mentale da condizioni medicalizzate in antagonismi efficaci. I disturbi affettivi sono forme di malcontento catturato; questa disaffezione può e deve essere incanalata verso l’esterno, diretta verso la sua vera causa, il Capitale”. In questo modo, una soluzione (un movimento pervasivo, guidato da persone rese malate di mente dal capitalismo) sembra emergere dal problema, cosa essenziale in un clima che rende praticamente impossibile la rivolta in sé.
La mia versione di questo appello ai malati e agli oppressi di sollevarsi si delinea alla fine del libro:
È dalle profondità dell’ansia e della depressione che nasce una missione così irrealistica. È dalle profondità della psicosi che questa chiamata riceve una forma estetica. Queste malattie sono causate, come sostiene Fisher, dal capitalismo e svolgono una funzione di riordino caleidoscopico che colora l’etica umana con la tavolozza ricca e ipersensibile di un episodio maniacale o di un’esperienza psichedelica.
Non è che io abbia o abbia avuto una particolare fede romantica nei malati mentali. Piuttosto, in una situazione in cui siamo tutti sempre più online e in cui questo spazio online è sempre più controllato, e in una società che (come sostenevano Fisher e Adorno) induce alla malattia mentale, forse dobbiamo solo sperare che un rimedio per i mali della società provenga da persone definitivamente online e malate di mente! Sono sempre più convinto che, dato il fallimento dei sani e neurotipici nel gestire efficacemente la società, gli eccezionali processi di pensiero delle persone depresse, psicotiche e neurodivergenti possano produrre scorci di realtà non contaminati dalla falsa razionalità del capitalismo.
In una società spinta verso l’omogeneità sociale e dominata da un’unica ideologia, le divergenze nei processi di pensiero sono cruciali, se vogliamo avere una speranza di sfuggire alla logica e all’estetica del mercato. Se è vero che il capitale induce alla depressione, forse alla psicosi e al bisogno di evasione psichedelica, possiamo contare su questi aspetti come contraddizioni interne che possono produrre delle alternative al capitalismo.
In ogni caso, la rivolta in cui avevo sperato dopo il Covid non si è verificata. Come veterano dell’Internet di sinistra (all’età di sedici anni andavo a casa di un amico per usare il suo Internet dial-up per cercare movimenti socialisti in Europa, era il 1995) sono abituato alle delusioni. Invece di un vibrante movimento in stile anni Sessanta, sulla scia del Covid abbiamo la guerra in Ucraina che porta a livelli osceni l’inflazione in tutta Europa e nuovi movimenti di estrema destra che al confronto faranno sembrare QAnon un tenero ricordo (Italia e Finlandia hanno attualmente amministrazioni di estrema destra). Abbiamo compagni uccisi in Ucraina o esiliati dalla Russia, e quelli in patria che possono a malapena permettersi di pagare l’affitto o di mangiare e che hanno la prospettiva di una guerra in espansione ad aumentare ulteriormente la loro ansia e depressione. Abbiamo livelli orribili di barbarie a Gaza, dove la brutalità israeliana rimane impunita da organismi globali deficitari come le Nazioni Unite. A questo si aggiunge la nota mancanza di sensibilità delle élite globali di fronte all’orrore del cambiamento climatico. E per finire, come un’orrenda ciliegina bio-pericolosa in cima a una torta di liquame fresco, l’uomo più ricco del mondo ha comprato Twitter, aggiungendolo a un portafoglio che comprende interessi nel colonialismo spaziale, nell’intelligenza artificiale e nei software di lettura del pensiero. Siamo molto più fregati di quanto non lo fossimo quando Fisher scrisse Realismo capitalista.
Non possiamo neanche sollevarci contro una guerra capitalista per procura che minaccia l’umanità, più di quanto non possiamo farlo contro l’erosione delle nostre libertà civili, perché la nostra capacità di critica e di organizzazione è stata distrutta dalle forze stupefacenti dei social media e dalla rete di sorveglianza. Eppure, da qualche parte in tutto questo, c’è ancora una capacità di creatività che cresce – o certamente non diminuisce – anche se soffriamo di varie malattie mentali indotte dal capitalismo. Per questo, provo ancora un senso di speranza fuori moda. Le fiorenti piattaforme editoriali disponibili su Internet ci offrono sicuramente qualcosa in termini di comunicazione e capacità organizzativa che potrebbe permetterci di resistere alla totale banalizzazione e alle tendenze depressive del capitalismo. Si dovrebbe pensare che sia così, altrimenti che senso avrebbe avuto tutto il progresso della sinistra fino alla nostra epoca? Gli scrittori rivoluzionari del primo modernismo avrebbero ucciso (forse letteralmente) per avere il nostro pubblico. Ecco perché non odio del tutto i meme, come emerge proprio da I meme e Mark Fisher.
È preoccupante che per interessi capitalistici si vendano i nostri dati, incoraggiando i giovani a rimanere online, piuttosto che incontrarsi. Le possibili conseguenze politiche di questo fenomeno sono evidenti, in quanto le persone esprimono la loro opposizione al capitalismo guerrafondaio online, piuttosto che nelle strade o attraverso altri mezzi di partecipazione politica diretta. Eppure, nell’ultimo decennio, abbiamo assistito a un enorme aumento delle discussioni teoriche e politiche tra le generazioni più giovani, sulla scia del periodo del theory blogging del 2000 e del 2010, quando Fisher e altri teorici angloamericani hanno coinvolto una nuova generazione nella critica marxista. Oggi questo processo si è ampliato con account Instagram, Facebook e YouTube dedicati a Fisher, Marx, Adorno, Hegel, Deleuze, o alla critica socialista, comunista o anarchica in generale. Non dobbiamo perdere di vista l’importanza di questo aspetto, né darlo per scontato, soprattutto perché agli aspiranti compagni di altri Paesi è vietato impegnarsi liberamente in un discorso teorico che metta in discussione lo status quo politico locale. È vero che l’algoritmo cerca di guadagnare su di noi 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e ci costringe a postare in continuazione. Ma è anche vero che gli strumenti teorici per sfidare il potere possono essere trovati tra la costellazione di altre immagini mediatiche (pubblicità, cospirazioni dell’estrema destra, video, selfie delle Kardashian, ecc.). Come la Scuola di Francoforte durante e dopo la Seconda guerra mondiale, dobbiamo essere pronti a far leva sulla possibilità di pensare contro il mainstream anche dall’interno. Questo è vero in Italia come altrove, data la prevalenza del populismo di destra nella sfera politica e mediatica, ma anche grazie alla crescente comunità di meme di sinistra. In un Paese in cui le proteste di piazza fanno parte della cultura, forse è ancora possibile sognare un movimento di sinistra ibridato, online e nella vita reale, che arresti la marcia della destra e porti a un nuovo periodo di assistenzialismo sociale. Come dimostra il lavoro di Fisher e della Scuola di Francoforte, storicamente non siamo soli a sognare.