La realtà oltre l’immagine. La Polaroid tra unicità e identità
di Alberto Trentin
Cosa può dire, in un’epoca iperdigitalizzata come la nostra, la mostra dedicata a Casa Susanna, a cura di Isabelle Bonnet e Sophie Hackett (Arles, Espace Van Gogh, dal 3 Luglio al 24 Settembre 2023)? Cosa possono aiutarci a capire 340 Polaroid amatoriali vecchie di decenni sul rapporto tra realtà e immagine e tra immagine e identità in un tempo in cui, per fare due esempi, il valore di uno scatto è misurato dalla sua condivisibilità social (“instagrammabilità”) o dalla sua presunta verità come testimone del momento presente (BeReal)?
La storia dell’arte procede anche grazie all’intervento del caso. Gli scatti esposti nell’Espace Van Gogh, ad Arles, nella mostra dedicata a Casa Susanna sono stati ritrovati da due antiquari in un mercatino delle pulci a New York City: 340 Polaroid amatoriali, risalenti agli anni 50 e 60, che ritraggono uomini vestiti e truccati da donne. In tali travestimenti non c’è esibizionismo, o eccesso: la femminilità che ne emerge è quella della perfetta casalinga, della donna della porta accanto, della matrona, cioè un’idea di femminilità coerente col mito americano dell’epoca e con la contemporanea propaganda mediatica.
Autori e soggetti di questa rivendicazione del proprio lato femminile erano uomini della classe media bianca, mariti e padri, pienamente integrati in una società che sbandierava, accanto all’orrore per la minaccia comunista, il rifiuto per ogni forma di perversione d’ambito sessuale che potesse incrinare la chiara e distinta identità di genere: le prescrizioni politiche e quelle sessuali, e le conseguenti azioni repressive viaggiavano in parallelo.
Stando a quanto raccontano le Bonnet e Hackett, vari attori governativi erano impegnati a “curare” quelli che consideravano dei deviati sessuali: in una sorta di catarsi al contrario, l’elettroshock veniva associato alla proiezione di immagini di travestiti, per ottenere la normalizzazione del comportamento. Come in Arancia meccanica dove la somministrazione forzata di immagini e scene violente è usata per guarire la propensione alla violenza.
Cosa ci raccontano gli scatti di Casa Susanna? Innanzitutto, che all’interno di questo rifugio si riunivano uomini che volevano condividere, attraverso il gesto più comune e quotidiano tra tutti, quello di vestirsi, l’affermazione della liceità del proprio lato femminile; in più, volevano affermare la propria idiosincrasia nei confronti dell’Habitus culturale dominante, in cui imperava il culto della mascolinità, della virilità divistica, della netta separazione di genere. Ci raccontano anche e tuttavia di un inemendabile paradosso di fondo; la femminilità che volevano affermare e che si concretizzava nei vestiti, nei trucchi, nelle acconciature, nelle pose che gli scatti ci mostrano, adeguandosi alle foto delle riviste femminili patinate allora in edicola, non faceva che confermare quell’ideale culturale che nelle intenzioni i travestiti volevano combattere; era impossibile uscire dall’orizzonte di senso che la società imponeva. Ciononostante, all’interno del rifugio e grazie alle Polaroid, ciascuno poteva riconoscersi nell’altro e guardarsi nelle foto prese e sviluppate lì per lì. In questo la possibilità offerta dalle camere Polaroid era innegabile e non altrimenti sostituibile.
A fine degli anni Cinquanta e agli inizi dei Sessanta queste macchine fotografiche erano ancora qualcosa di recente; la scoperta principale dell’azienda, fondata da Edwin H. Land e George W. Wheelwright III nel 1937 a Cambridge, Massachusetts, era stata la sinterizzazione di lastre di polimeri polarizzati, usati per produrre lenti, lampade, oblò, microscopi e molto altro. L’impiego in fotografia avvenne anni dopo. Secondo il racconto che ha contribuito a cristallizzare la Polaroid in mito, nel 1943 a Santa Fe Edwin Land andò a fare una passeggiata con la figlia di tre anni la quale, infastidita dal dover aspettare giorni prima di vedere sviluppati i propri scatti, avrebbe chiesto al ritorno: “Perché non posso vedere le foto ora?”, stimolando così il padre a una nuova passeggiata e a ulteriori riflessioni.
E nel corso della passeggiata la domanda continuava a presentarsi. “Perché no?” Perché non realizzare una macchina fotografica che dia subito la foto. […] Stranamente, alla fine di quella passeggiata, la soluzione al problema era stata formulata abbastanza bene. Direi che avevo tutto pronto, tranne quei pochi dettagli che mi presero dal 1943 al 1973[1].
Il 1948 è l’anno della prima camera in commercio e l’inizio di un successo che durerà almeno fino agli anni 90 inoltrati, quando l’avvento delle macchine digitali segnerà un punto di non ritorno e aprirà la strada alla bancarotta, dichiarata nel 2001. La camera dava la possibilità di avere subito la foto, legando visione e rappresentazione nel breve interregno di attesa che separava lo scatto dallo sviluppo. Non c’era bisogno di intermediari, e il risultato finale era qualcosa di tangibile e unico, non duplicabile, non sviluppabile ulteriormente. Ma non solo: se nessuno serviva per sviluppare la foto, allora non c’era alcuna remora a scattare in ogni più intima occasione e seguendo ogni personale fantasia.
Con le dita ancora appiccicose di marmellata, Sabbath finì nuovamente in camera di Deborah, a frugare nei cassetti della scrivania. Le aveva perfino Silvija. Tutte le hanno. Basta scoprire dove le nascondono. Nemmeno Yahweh, Gesù e Allah sono in grado di reprimere il divertimento che ti danno le istantanee Polaroid. […] Dio, mutandine, diari e rubriche, a disegni assortiti. La ragazza ha proprio tutto. Tranne. Tranne! Dove nascondi le foto, Debby?[2]
Il presupposto da cui parte Sabbath è proprio questo: nessuno sfugge al fascino di essere fotografato – o di fotografare – durante i momenti di intimità. La sua ricerca tra i cassetti e le mensole e gli effetti personali di Debby, figlia adolescente dell’amico che lo ospita, non parte da un se, ma cerca solo il dove, anche se alla fine, e grazie all’involontario aiuto della spaventatissima domestica che lo scambia per un ladro, le foto che troverà saranno di Michelle, la madre di Debby.
Il documentario An impossible project (Jens Meurer, Germania 2020), è dedicato alla decisione di Florian Kaps di salvare l’ultima fabbrica Polaroid rimasta attiva, a Enschede, in Olanda. Racconta dell’iniziale fallimento (la formula chimica per le pellicole istantanee è andata perduta), della tenacia con cui ha mantenuto il sogno, e del successo finale. Soprattutto, celebra l’idea forte che un mondo non digitale è possibile e l’analogico è una scelta di vita. In una scena un operaio dice di aver riparato dal 1976 centinaia di fotocamere e di essersi per test sempre scattato una foto: «Probabilmente sono l’uomo che si è fatto più selfie al mondo. Anche se non sapevo che sarebbe diventata una moda».
Se è vero che ai nostri giorni il selfie è una moda e, come tale, un’azione senza quasi più alcuna intenzione significante, non lo stesso si può dire dello scatto cui si riferisce l’operaio. La caratteristica predominante della polaroid è l’immediata e fisica unicità, il suo essere nel qui e ora e l’avere, in questa limitatezza spazio temporale, il suo valore.
Andy Warhol nel 1975 scattò nella sua Factory oltre cinquecento polaroid che avevano come soggetti una quindicina di travestiti di colore che si esibivano al Golden Grape. Gli scatti erano prodromici a una mostra commissionatagli dal gallerista torinese Luciano Anselmino[3]; prodromici, perché in realtà le foto servivano come base di partenza per un lavoro ulteriore di Warhol, che prima le modificò attraverso la serigrafia e infine le fece oggetto di intervento pittorico. Il lavoro coi travestiti si inseriva come ultima fase di un lungo progetto artistico di Warhol inerente alla riflessione sul divismo[4], il cui punto d’arrivo – nell’anonimità dei soggetti e nell’assenza di titolo delle immagini – è quello in cui l’unicità della persona scompare e ciascuno diviene maschera di una grande commedia metropolitana. Sono gli anni 70, la seconda ondata del femminismo aveva esasperato, in qualche modo annullandoli, i tentativi di fine anni 50, primi anni 60 (di cui anche il movimento dei travestiti di Casa Susanna era un momento, essenziale) e la temperie culturale permette altre azioni. Per Warhol i travestiti che rappresenta sono la rappresentazione finale dello star system, «archivi ambulanti della femminilità ideale, impersonata dalle star del cinema[5]». A differenza degli scatti amatoriali di Casa Susanna, che mostrano la singolarità dei membri del gruppo ristretto attraverso l’unicità dello scatto, le opere di Warhol escono dal piano cartesiano della significatività, per accedere a quello dialettico della narrazione di finzione, attraverso la sconfessione contemporanea della polaroid di partenza e della singolarità dei soggetti in posa.
Una soluzione per il tempo di dipendenza digitale che stiamo vivendo potrebbe essere allora davvero una nuova attenzione alla materia presente, all’analogico, che sacrificando l’immediata e ubiquitaria condivisione, riaffermi il senso della concretezza.
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[1] Citato in F. Kaps, Polaroid. The magic material, Frances Lincoln, London, 2016, p. 15, trad. mia
[2] P. Roth, Il teatro di Sabbath, trad. di Stefania Bertola, Einaudi, Torino, 2006, pp. 178-179
[3] La mostra, intitolata Ladies and gentlemen, si tenne al Palazzo dei diamanti a Ferrara, dal 26 Ottobre all’8 Dicembre 1975
[4] Cfr. Alessandro Del Puppo, Pasolini Warhol 1975, Mimesis, Milano, 2019, pp. 68-70
[5] A. Warhol, La filosofia di Andy Warhol, Bompiani, Milano, 2001, p. 49