
Pubblichiamo una lettera aperta di Marco Caporali a Giorgio Ghiotti in occasione dell’uscita del libro Ipotesi del vero (LiberAria edizioni). Una lettera da un poeta che, riconosciuto come una delle voci più importanti della poesia italiana dell’ultimo scorcio del Novecento da Elio Pagliarani, fa parte oggi della generazione dei maestri, a un giovane poeta, Ghiotti, che col suo nuovo libro prosegue, confermandolo, un percorso tra i più interessanti della nuova generazione, quella dei nati negli anni Novanta. A legare le loro esperienze è l’incontro con la poetessa Biancamaria Frabotta, della quale Caporali e Ghiotti sono stati rispettivamente gli amici e gli allievi di più lunga e di più recente data. E il nome di Frabotta, la “ragazza che passeggiava nel giardino di Cupi”, torna molto in questa lettera, e insieme a lei il coro di voci poetiche conosciute da Caporali, e da Ghiotti sfiorate nelle pagine dei loro libri, da Giovanna Sicari a Paola Febbraro e altri. Davvero la poesia è il passaggio di un testimone che, suggerisce Caporali, non può arrestarsi nel tempo, in attesa che “mani vere” lo accolgano per portarlo avanti.
di Marco Caporali
Caro Giorgio,
mi è venuto da pensare, leggendo il tuo libro, al binomio amore-leggerezza. Vanno insieme, non potrebbe essere altrimenti. Ci si sente leggeri nell’amore, quando cessa la gravità della vita. Ed è vero quel che dice Carmelo Princiotta: con brio, in senso musicale, ossia con spirito, vivace ed entusiasta. Conseguenza dell’amore. E un’altra cosa: assenza di ostilità. Non c’è ostilità nella tua poesia. Mi dicesti, camminando insieme per Terni, “non sopporto i comizi”. Lì c’è sempre tanta ostilità. E non è forse l’amore che rende amabile tutto della realtà, anche quel che ci appariva ostico, ostile? Con questo sguardo verso la storia, che è storia di poesia e di poeti, di lasciti e di eredi, tu stai nel mezzo, come un canale, un intermediario, tra la Viandanza e Pietro [dedicatario della seconda parte del libro], tra la nonna e il bambino che ora si affaccia nel mondo, figlio della poetessa di Viterbo. E questa tua splendida nonna è un po’ Biancamaria [Frabotta] (così presente nel libro) e un po’ (così mi viene in mente) quella ragazza del secolo scorso che nel giardino di Cupi camminava ignara della serpe. Forse quel che la tua nonna sarebbe stata, se toccata dalla Storia, mentre andava a lezione con la sua macchinina.
Caro Giorgio, quanto amore e quanta leggerezza nelle tue poesie! E quanta incredibile capacità di penetrare una storia da te lontanissima eppure familiare, quella degli anni che sono stati i nostri (io li ho vissuti quando già si imbarbarivano), della ricerca di una nuova vita. Tu li cogli dal lato affettivo, con pietà verso il creato e lo sguardo di chi vuole conoscere, avere contezza. La tua curiosità verso i poeti che ti hanno preceduto, la tua curiosa passione, fa essere il tuo io, come dice Carmelo con felice espressione, “un condominio di poeti”. E di poeti d’amore, soprattutto, da Giovanna Sicari a Paola Febbraro: “Davvero il cuore è l’unico animale che ci ha fatti uguali alle stelle”. La parola innamorata s’intitolava un’antologia di allora, e un’altra cosa si diceva, il privato è politico. In questo modo tu leggi quella storia, con un senso di appartenenza che ti fa chiedere in una poesia: “Davvero, non nati / c’eravamo in quella folla?”. Per te, come in Biancamaria, esiste il mondo dei poeti. Una poesia sodale, parte di un sodalizio. Ne sei l’erede. Da un lato il tempo, che la poesia come una foto ferma, dall’altro il sogno, l’immaginazione. Quanta fantasticheria c’è nell’amore! In poesie meravigliose tu lo fai sentire. “Si rivela talvolta il destino / all’altezza della vita sognata.” È la speranza dell’innamorato. “Non c’è coincidenza che non sia / liberamente interpretabile dal nostro / incessante bisogno d’amore”. Cos’altro vuole sentirsi dire l’innamorato, per essere fino in fondo capito? È questo che muove l’indagine, l’ipotesi del vero.
Ho appena rivisto, per l’ennesima volta, Schiava d’amore di Mikhalkov. Il treno in corsa senza conducente, inseguito da soldati a cavallo, e la struggente canzone. “Voi siete delle belve”, dice il posseduto d’Amore. Il sogno, appunto, che contrapponi al tempo, e la cui sostanza è poesia. E noi siamo “reperti d’amore”. Non riesci a concepire un’esistenza che non sia residuale. I materiali della felicità e della tragedia. In quel reperto, il bambino e il cane natufiano, la tua esistenza di oggi si specchia, si legge, si giustifica. Tempo recente o remoto. Vaso e vetro, è in te che si depositano gli anni. Tra fare il conto degli anni e vivere nel presente non c’è contraddizione. Così puoi dire: “Io che non so pensarmi / fuori dal presente” ed essere invaso da quel che è stato, fino ad esserne il ricettacolo, il vaso e il vetro di tutti i poeti che vivono, che rivivono, nei tuoi versi. Il tempo diviene così una dimensione in cui essere accolti e dimorare. Una discendenza, una genealogia, “nel difficile commercio con la gioia”. Saremo “reperti d’amore”, ora “rendiamo abitabile la terra, teniamo / d’occhio il ridere degli anni”. Qui mi fermo, per ora, a queste note scritte di getto, sull’onda dell’entusiasmo che il tuo libro mi ha suscitato. Ti abbraccio forte,
Marco
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