L’antenato di Unabomber

di Tommaso Pincio

Jack London riteneva che, in determinati momenti, antichi e sopiti istinti possono risvegliarsi e spingere un uomo verso la solitudine delle foreste, lontano dalle città rumorose, per uccidere. Espresse questa convinzione nel suo romanzo più famoso, Il richiamo della foresta, senza troppi giri di parole, con il linguaggio diretto e tempestoso tipico di un «realista selvaggio». Chissà se gli agenti dell’Fbi furono attraversati da pensieri dello stesso tenore quando nell’aprile del 1996 fecero irruzione in una capanna nel Montana e arrestarono Ted Kaczynski con l’accusa di essere l’infame «Unabomber», il terrorista che nel corso di quasi un ventennio spedì plichi esplosivi uccidendo tre persone e ferendone ventinove. La spartana dimora in cui egli si era ritirato per combattere una solitaria battaglia contro la società dell’industria tecnologica avrebbe potuto autorizzare simili paragoni e fu addirittura trasportata a Sacramento, sede del processo, affinché la giuria potesse prenderne visione quale prova inconfutabile che l’uomo era profondamente disturbato. La mitologia sorta intorno a quella capanna fu in buona parte costruita dai mezzi di informazione ma non è uno specchio fedele della realtà. Il luogo in cui era situata non era poi così isolato, tuttavia i giornalisti non esitarono a parlare di «wilderness», un termine che nell’immaginario americano evoca quanto di più distante ci possa essere dall’idea di civiltà. Sorvolando bellamente sul fatto che vivere a quattro miglia da una città è tutt’altro che insolito in uno stato come il Montana, la stampa fece della capanna il simbolo dello stile di vita di un individuo che parlava poco o niente, non portava orologio, non faceva sesso e girava in bicicletta in pieno inverno. «Eccentriche» abitudini che avrebbero dovuto attestare in termini inequivocabili uno stato di irrimediabile alienazione.
Dimostrare che Ted Kaczynski fosse pazzo era però impresa tutt’altro che agevole. Il rapporto psichiatrico con cui al dibattimento si pretese di dimostrare una volta per tutte che egli era malato di mente ruotava in sostanza attorno a due argomenti o, per essere più precisi, due convinzioni dell’imputato. Kazcynski credeva che la sua esistenza fosse controllata dalla tecnologia e che i genitori avessero commesso gravi errori. Ma quante persone pensano cose simili? «C’è un po’ di Unambomber in ognuno di noi» si lesse all’epoca sulle pagine del Times, un’affermazione che non parve affatto stonata, soprattutto se si prendeva in considerazione l’esperienza di coloro che a partire dalla fine degli anni Sessanta scelsero di abbandonare i centri abitati per fare ritorno alla natura. Certo, spedire plichi esplosivi non è da tutti ma a parte ciò, ridotta all’osso, la storia di quest’uomo non era poi così atipica: dopo essersi laureato in matematica a Harvard, nel 1969 Kaczynski lasciò un buon posto di insegnante presso l’università di Berkeley e se ne andò a vivere lontano da tutto come un eremita. Una storia a tal punto simile a quella di tanti hippy e ambientalisti che la destra americana se ne servì per dimostrare come le malsane idee degli ambientalisti e di chiunque osa criticare il progresso tecnologico siano destinate a sfociare in violenza e anarchia. Ci fu anche chi si spinse ben oltre, vedendo in Unabomber una sorta di gemello cattivo di Al Gore, vicepresidente durante l’amministrazione Clinton e autore di Earth in Balance, una riflessione dai toni certamente non estremisti su inquinamento e sfruttamento sconsiderato del pianeta. A rappresentare un problema erano le tesi esposte da Kaczynski nella Società industriale e il suo futuro, il cosiddetto «manifesto» pubblicato da New York Times e Washigton Post nel settembre del 1995 dietro suggerimento dello Fbi nella speranza che qualche lettore potesse riconoscere lo stile della scrittura e fornire elementi utili alla cattura del terrorista. Il nocciolo del prolisso pamphlet era che il progresso tecnologico porta con sé tali e tanti effetti negativi per cui si rende necessario arrestarlo affinché l’umanità possa far ritorno ad abitudini di vita più semplici e in armonia con la natura. Idee che somigliavano tremendamente a quelle degli attivisti di Earth First! e per giunta argomentate in modo razionale.
Alla fine degli anni Novanta lo psicoterapista Gary Greenberg intraprese un carteggio con Kaczynski al fine di chiedergli il permesso di scrivere una sua biografia. Il resoconto dello scambio epistolare è poi diventato oggetto di una sorta di racconto pubblicato nella rivista McSweeney’s. Nella prima lettera spedita a Unambomber presso il carcere di massima sicurezza dove era rinchiuso, Greenberg scrive: «Come molti nostri coetanei, ho trascorso qualche anno in una capanna in mezzo ai boschi senza acqua corrente né elettricità, cercando di vivere solo dei prodotti della terra… Non dimenticherò mai come la gente che non riusciva a capire quello che stavo facendo mi considerasse con sospetto se non addirittura con ripugnanza… Non vorrei apparire presuntuoso, ma credo che la sua storia sia in parte anche la mia e nella sua decisione di adottare questo stile di vita riconosco una forma d’integrità per la quale nutro un profondo rispetto». L’intento dello psicoterapeuta era evidentemente quello di blandire. Egli diceva tuttavia qualcosa di molto vero affermando che la «visione del mondo che sottende e rende possibile l’invenzione di macchinari e apparecchiature… non tollera proteste radicali. Essa coopta l’opposizione o la estirpa, uccidendola senza mezzi termini oppure semplicemente screditandola». Bollare Kaczynski come un folle «prodotto degli anni Sessanta» non era infatti solo un modo per puntare l’indice contro hippy e ambientalisti, sottintendeva pure che mettere in discussione i fondamenti della società tecnologica è una eresia intollerabilmente pericolosa. Del resto, non stiamo di certo parlando del primo caso di strumentalizzazione. Si pensi per esempio al tragico massacro avvenuto nel 1969 nei sobborghi di Los Angeles in cui perse la vita la giovane attrice Sharon Tate. L’acceso dibattito che seguì l’arresto di Charles Manson e di alcuni appartenenti della sua comune asserragliata in una zona sperduta e desertica della Death Valley fu in buona parte teso a dimostrare a quali forme di abiezione e violenza potessero condurre le idee del Movimento. Lo stesso presidente di allora dichiarò pubblicamente colpevole Manson prima ancora che il processo fosse iniziato. Infischiandosene della presunzione d’innocenza, principio imprescindibile di uno Stato di diritto, Nixon condannò di fatto un’intera generazione di contestatori del sistema e pose le basi per un sano ritorno all’ordine costituito, a suo avviso di gran lunga preferibile e più sano di qualunque ritorno alla natura. Le ragioni per cui dovremmo accettare l’assunto che una civiltà tecnologicamente avanzata rappresenterebbe quanto di meglio si possa desiderare sono note. Le macchine offrono sicurezza, comodità e soprattutto incrementano la produzione di «cose» da consumare ovvero fanno bene all’economia di mercato, un bene che dovrebbe far passare in secondo piano tanti mali minori quali l’impatto ambientale o la considerazione che l’esistenza non è fatta solo di «cose» ma anche di amore, amicizia e – perché no? – dell’eventuale aspirazione a stili di vita meno utilitaristici e artificiali. Tali ragioni sono note da così tanto tempo che già all’epoca in cui la società industriale era ancora agli inizi uomini come Henry D. Thoreau lamentarono che in un mondo di macchine molta gente è costretta a vivere una vita di quieta disperazione. È una vecchia storia: gli argomenti di critica ai fondamenti del sistema vengono immancabilmente bollati come assurdi malgrado siano spesso più che ragionevoli. Non bisogna essere dei geni per capire che la vera assurdità è il raggiungimento del profitto a qualunque costo, eppure il principio che regola l’economia e condiziona drammaticamente la democrazia rimane comunque lo stesso: espansione, espansione e poi ancora espansione. Com’è possibile tutto ciò? Come si spiega una simile macroscopica contraddizione? Una risposta plausibile potrebbe essere cercata nell’avidità e in una lunga serie di altre e poco edificanti inclinazioni quali egoismo, ignavia e pigrizia. Mettendola in termini espliciti, quella parte di umanità che dispone del potere di cambiare le cose non vuole o non sa rinunciare a vivere nel più completo benessere. È però una spiegazione sufficiente? Senza dubbio dice molto, ma non proprio tutto. C’è infatti anche dell’altro. C’è per esempio la paradossale dinamica in base alla quale funziona l’economia di mercato, il motore che ha determinato il primato della tecnologia. Il sistema occidentale, quello americano in particolare, fa leva sull’individuo, lo esalta, lo colloca al centro di un universo il cui unico senso sembra essere il raggiungimento della felicità personale, e con ciò lo incita a fare di tutto pur di soddisfare i propri desideri. In realtà, nonostante gli sforzi, non tutti gli individui ottengono quel che gli viene promesso. Ma per il sistema una simile inadempienza rappresenta un peccato veniale in quanto il suo vero scopo non è il benessere dei singoli bensì quello del mercato nel suo complesso.
Fu proprio Henry Thoreau il primo a rendere evidente il contrasto tra la piena realizzazione di ogni individuo e una società tecnologicamente organizzata. Thoreau, il precursore di tutti gli americani che prima e dopo l’era hippy hanno fatto ritorno alla natura opponendo un’economia della frugalità al consumismo forsennato. Mezzo secolo prima di Jack London egli avvertì il richiamo della foresta e nella primavera del 1845 si recò sulle rive del lago di Walden, a Concord, nel Massachusetts. Usando un’ascia presa a prestito abbatté alcuni pini bianchi per ricavarne legname con cui costruirsi un’austera dimora nella quale avrebbe vissuto per due anni, due mesi e due giorni. Si insediò stabilmente nella nuova casa il 4 luglio. Non a caso scelse il giorno della Dichiarazione d’Indipendenza, perché proprio questo è ciò che egli voleva diventare: indipendente. Walden, resoconto del periodo trascorso nei boschi, non è soltanto un libro «con descrizioni di scoiattoli e nevicate». Come giustamente rileva ha Wu Ming 2 introducendo un’edizione di qualche tempo, il lato seducente dei passaggi prettamente naturalistici «non basta a se stesso». Walden è anche un trattato di economia dell’autosufficienza, l’esperimento di un uomo che rifiuta le regole di un sistema concepito per renderci schiavi di noi stessi. «Si parla della divinità dell’uomo!» scrive Thoreau. «Guardate il carrettiere sulla strada, che va al mercato di giorno e di notte; ci può essere una qualche divinità in lui? Il suo più alto dovere è dare foraggio e acqua ai suoi cavalli! Per lui, cosa può contare il proprio destino, paragonato agli interessi di trasporto? Quanto sarà divino, quanto sarà immortale? Vedete come si abbassa e striscia, come passa tutta la giornata vagamente impaurito, senza essere immortale né divino, ma schiavo e prigioniero dell’opinione che ha di se stesso, una fama guadagnata con le proprie azioni. L’opinione pubblica è un tiranno debole, se paragonato con la nostra opinione privata». Walden ha indicato la strada a intere generazioni di giovani ribelli diventando una pietra miliare dell’immaginario libertario americano. Quand’era ancora in vita Thoreau non godette però di un apprezzamento altrettanto unanime. Molti dei suoi contemporanei lo giudicavano una persona un po’ matta che sconvolgeva i valori del vivere comune. Gli agricoltori di Condord lo guardavano con sospetto perché nella sua vita quotidiana metteva in pratica una verità cui essi si abbandonavano soltanto nei giorni di festa. Perfino uno scrittore come Robert Louis Stevenson, che pure doveva molto all’opera di Thoreau, riscontrò in lui la vigliaccheria di chi non vuole prendersi alcuna responsabilità. Non aveva tutti i torti. Malgrado il suo profondo rigore morale e filosofico, sebbene avesse dimostrato di sapere fare anche l’imprenditore contribuendo a risollevare le sorti della fabbrica di matite del padre, Thoreau era un individualista per il quale non esistevano doveri se non quelli riconosciuti da lui stesso. Ma è forse possibile un’autentica pienezza di vita senza una certa dose di quell’egotismo che traspare in controluce anche nelle esperienze di chi, dai beat agli hippy, raccolse la sua eredità? Tornando alla mitologia artificiosamente costruita intorno alla capanna di Unambomber, qualcuno ha riscontrato alcune analogie tra la dimora di Kaczynski e quella di Thoreau. Nemmeno questa è una totale assurdità. Nessuna delle costruzioni era infatti davvero immersa nella wilderness; Thoreau si recava a piedi dal calzolaio per farsi riparare le scarpe. Inoltre, sia Thoreau che Kaczynski usavano il termine «esperimento» per definire le loro radicali scelte di vita. Entrambi erano poi considerati tipi eccentrici dai rispettivi contemporanei. Ovviamente è necessario ribadire che esiste una differenza tra chi uccide e chi, come Thoreau, si limita a rifiutarsi di pagare le tasse. Rimane tuttavia un dato essenziale: l’individuo che si isola dalla comunità per contestarne i valori rappresenta una minaccia e quindi deve essere fatto passare per pazzo.
Henry Miller vedeva in Thoreau «un genuino rappresentante dell’America» ma sosteneva pure che «chi, nel nostro paese osasse assumere l’atteggiamento di Thoreau di fronte a qualche problema cruciale del nostro tempo sarebbe senza dubbio condannato alla prigionia a vita». Questo perché egli «apparteneva a quella categoria di uomini che, se soltanto fossero più numerosi, provocherebbero la caduta naturale di ogni governo». Che dire allora di Manson e Kaczynski? Sono anche loro genuini rappresentanti dell’America? Indignarsi di fronte a una simile affermazione è troppo facile e offre il fianco a quei conservatori che non si fanno scrupolo di usare il percorso di alcuni criminali come strumento per screditare ogni forma di legittimo dissenso. La verità è che usando lo stesso metro logico si potrebbe smascherare l’imbroglio nascosto dietro il tanto decantato diritto della «ricerca della felicità» che sulla carta l’America garantisce a tutti ma nei fatti concede solo a chi è grado di stare nel mercato. Si potrebbe dire, cioè, che è il sistema fondato su un’esasperante individualismo a dar vita al dissenso e alle sue degenerazioni. Così il cerchio si chiuderebbe, ma sarebbe il classico cerchio del serpente che si morde la coda. Per giunta è un cerchio che non gioverebbe a nessuno, perché non possiamo far finta di dimenticare che quel serpente siamo noi e che nostra è quella coda. Ciò non toglie però che Thoreau avesse ragione a dire quel che una volta disse a Emerson. «Cosa ci fai lì dentro?» domandò Emerson che era andato a trovare l’amico in carcere. «E tu cosa ci fai là fuori?» rispose Thoreau che era stato arrestato per non aver voluto pagare una tassa destinata a finanziare una delle tante giuste guerre del governo americano.

Commenti
2 Commenti a “L’antenato di Unabomber”
  1. Rita ha detto:

    A proposito di Manson: recentememente ho visto un film davvero significativo, che mi sento di consigliare: Leslie, il mio nome è il male, di Reginald Harkema.
    Si racconta la storia di Manson e delle sue accolite attraverso il punto di vista di una delle ragazze, accusate e condannate di omicidio. Nel film è portato avanti un discorso molto interessante perché – in maniera estremamente ironica e sarcastica – mostra il Male che è insito, non là dove viene additato dall’opinione pubblica (Manson), ma nelle dinamiche di una società moralista e perbenista (di cui Manson è un prodotto).
    Il film snoda un doppio filo di violenza, di cui una nascosta (moltissime dinamiche sociali e culturali, la religione, il profitto, l’ipocrisia sociale, il perbenismo, il bacchettonismo ecc.) e l’altra platealmente e socialmente riconosciuta (gli omicidi di Manson). Ad asempio, già nei titoli di testa, e poi ricorrenti durante lo svolgimento, ci sono scene in cui i membri rispettabili della società – quelli che inorridiscono di fronte alle imprese di Manson e giudicano, bollandolo come “diverso” per sentirsi più al sicuro, perché colui che è diverso da noi non è come noi e quindi ci rassicuriamo sul fatto che noi non potremmo mai compiere certi gesti – mangiano con gusto pezzi di carne, con riprese in primo piano di coltelli che trinciano, di bocche che masticano ecc., e mentre fanno ciò ascoltano il telegiornale e si scandalizzano per le manifestazioni degli hippies, e si preparano ad andare in Chiesa ad ascoltare la parola divina mentre mandano i loro figli a combattere in Vietnam (come non ricordare il bellissimo monologo di Apocalypse Now? “E se lei mi capisce Willard.. lei farà questo per me…. noi addestriamo dei giovani a scaricare napalm sulla gente… ma i loro comandanti non gli permettono di scrivere cazzo sui loro aerei… perchè è… osceno”). Eccola l’ipocrisia messa a nudo, ipocrisia che argutamente viene messa a nudo anche in quest’altra piccola “perla cinematografica” che è, appunto, Leslie, il mio nome è il male.

    Come non riflettere, per dirne una (e se ne parla troppo poco), parlando della logica del profitto che calpesta ogni valore etico, su uno degli esempi più emblematici della nostra società che è dato dal trattamento mostruoso che riserviamo agli animali?
    C’è un business mostruoso che non riconosce – o, se lo riconosce, lo calpesta perché il denaro viene prima di ogni altra cosa – tutta la sofferenza che infliggiamo ogni giorno a milioni di animali. E’ la banalità del male, semplicemente.

    La filosofia dell’America è molto semplice: si basa sull’utilitarismo più spinto e la morale calvinista. I primi coloni ritenevano un compito affidatogli direttamente da Dio piegare la terra e la natura all’uso dell’uomo. La natura selvaggia era un qualcosa da domare, da sottoporre alla logica della prosperità umana, che è diretta emanazione del compito divino (Ombre Rosse di John Ford in fondo resta un’acuta metafora di questo discorso, dove gli Indiani simboleggiano la natura selvaggia ed i bianchi coloro che devono portare l’ordine).
    Chi non riesce è perché è già condannato, quindi riuscire, avere successo è segno della benevolenza divina.
    Il barbone, il disattato, colui che non partecipa della logica consumistica e capitalistica è colui che – mostrando il segno esteriore della sua maledizione, del suo essere condannato – è fuori della grazia di Dio.
    Calvinismo ed utilitarismo.
    La natura è un qualcosa da sottomettere. Quindi, chi vi fa ritorno, rifiuta l’ordine divino, rifiuta l’ordine tout court. E da qui Manson – che rifiuta la società – visto come il diavolo, come Satana in persona.
    Da qui Unabomber visto come colui che non partecipa della Grazia Divina.
    E’ l’America, signori 🙁 E noi ne siamo la diretta emanazione. L’Europa, che è nata sotto altri valori, ormai si sta mimetizzando bene.

  2. Laura ha detto:

    davvero un bell’articolo! 🙂

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