Ricucire le memorie del mondo: intervista a Claudia Losi
di Elisa Cappai
Secondo l’antropologo Tim Ingold l’arte ha capacità di entrare nelle relazioni e nei processi che danno origine al mondo per renderli visibili. Se così fosse, non si tratterebbe di “esposizione” ma di “conversazione”, un discorso attivo sulla vita. Una riflessione di cura e trasformazione delle esistenze. Questo è molto vero se guardiamo all’opera e all’evoluzione artistica di Claudia Losi, classe 1971.
Ripercorrere i suoi progetti non è come sfogliare un catalogo, ma è calarsi nei luoghi che ha scelto e apprendere. Entrare nella pelle dei territori – l’Etna, il monte Bulgheria o un cortile del quartiere Mirafiori a Torino – e scoprire la mineralogia profonda che ci parla di noi come specie e come individui, all’interno di una narrazione più grande che si fa pianeta o comunità. Le implicazioni poetiche del suo lavoro sono visibili nella materia e nella processualità che sceglie, di volta in volta, per realizzare gli artefatti e le vere e proprie esperienze, ma soprattutto nel segno che lasciano dentro chi le fa e chi le guarda.
Che sia ricamare personalmente un erbario di licheni, far cucire a donne peruviane e marocchine le proprie storie su tessuti-bandiera – in un “racconto” di colate laviche e conflitti sul punto di esplodere – oppure realizzare enormi mandibole di balenottera a dimensione naturale, Claudia Losi traduce gli aspetti storici e antropologici dell’ambiente in cui viviamo. Scambia saperi, coinvolge il canto, il cammino, la narrazione, il fare manuale, i paesi.
Questa creazione di immaginari è quanto di più vitale e urgente in questi tempi di virtualità; le opere di Losi forniscono strumenti cognitivi per risignificare il mondo, spostando il limite della realtà per farci vedere oltre. E degli immaginari del limite si occuperà anche l’edizione 2020 di Sette giorni per paesaggi, il Festival dedicato all’antropologia del paesaggio di cui Claudia Losi è co-direttrice artistica insieme a Giovanna Cavalli, quest’anno in veste di primo Festival in formato podcast, con sette episodi disponibili dal 18 dicembre sulla piattaforma editoriale storielibere.fm.
L’indagine di Claudia Losi si muove sui sentieri di una natura in bilico tra selvatico e coltivato e cammina verso direzioni sempre nuove. Incontrare la sua “geografia” significa avere tra le mani una mappa che orienta un senso possibile della nostra presenza su questo pianeta. Intervistarla è dare spazio a un’arte che apre qualsiasi confine.
Quella che noi chiamiamo arte è un campo di significati e pulsioni difficile da delimitare. Intendo noi come società occidentale, in senso ampio e forse troppo generico. Ma capita a volte, in altre culture e non solo, che quello che noi abbiamo categorizziamo come arte appartenga ad altri aspetti della vita: religione, lavoro, ordine sociale. Anche il tuo lavoro sfugge alle definizioni strette, si nutre di discorsi e di contributi molto vari, materializzano rituali, fatti sociali. Ma se dovessi tracciare un confine e imporre un limite, cosa per te non è arte?
Io stessa ho difficolta, talvolta, a definire il mio lavoro. Dipende da che punto voglio partire, e quale pista seguire. Un territorio di cui nominare gli elementi di cui si compone e costruire, idealmente, di quel territorio una narrazione unica. Un canto polifonico in cui alla mia voce compongo altre voci, altre narrazioni, esperienze di vita e disideri, il quotidiano e l’”esotico”.
Che cosa possa dirsi non arte… difficile riesca a risponderti esaustivamente. Montagne di parole sono state spese su questo bisogno, molto occidentale, di definire per contenere e controllare. E il contesto evidentemente crea la cornice da cui guardare. Ma se pensiamo all’arte come il tentativo di reificare il pensiero simbolico dell’umano, aggiungere realtà a realtà, allora gli aspetti della vita che vengono coinvolti in questo processo essenziale per reggere l’intensità dell’esistere, sono molteplici. Così il santo dipinto sulla volta di una cattedrale e una tazza rotta ricomposta unendone con metallo i frammenti possono convivere con una pari intensità.
Quello che posso aggiungere, riprendendo un’interessante conversazione avuta qualche tempo fa con Pietro Gaglianò, che tra l’altro ha scritto di recente “La sintassi della libertà: arte, pedagogia, anarchia”, riguarda il rapporto tra arte e attivismo. “L’artista non è un attivista”, mi suggeriva, partendo dalla condivisibile osservazione che il messaggio, la spinta all’azione che l’opera contiene sono “trasformati”, rielaborati, rifondati come nuovo linguaggio. In parole povere credo che la presa di posizione di un’artista non sia uguale a quella di un’attivista poiché conterrà sempre (se di qualità) una zona che resta enigma.
Hai costruito e fatto esperienza anche di opere legate a una riflessione attiva sull’abitare, penso al progetto “Aiuola transatlantico”, nell’area Mirafiori Nord a Torino, dove hai innestato il tuo discorso artistico alla necessità di reimmaginare uno spazio di collettività all’interno di un complesso di edilizia residenziale. Oppure ad “Affacci”, un dialogo con gli abitanti di Mirafiori sulla visione di ogni abitante dalla finestra della propria casa, che ha poi dato vita a un’installazione con lenzuola disegnate stese sui balconi. Balconi che nei mesi scorsi ci sono stati parecchio famigliari. Lo spazio delle nostre case in questo anno è stato lo scenario privilegiato della nostra esistenza, forgia le nostre abitudini, restringe le nostre visioni del mondo. Come può l’arte contribuire concretamente ad aprire spiragli in contesti così temporaneamente ristretti?
Grazie di ricordarmi questo progetto di Nuovi Committenti, così importante tra i tanti che ho realizzato. Quando iniziammo i primi sopralluoghi, verso il 2004 e poi frequentammo, con a.titolo (gruppo curatoriale torinese) le case popolari di Mirafiori Nord, per diversi anni, la parte emotivamente più forte furono le visite all’interno degli appartenenti degli abitanti che accettarono di essere coinvolti nel processo: ogni casa, un universo. Entravi nell’intimità di storie a volte molto dure, a volte tenere. Chiedere che cosa gli inquilini di quelle stanze amassero guardare dai propri affacci fu un modo per ascoltare la loro relazione con quel luogo, quegli spazi. Perché mostrassero una parte di sé parlando del fuori. Forse l’arte permette di stare in un “fuori” temporaneo, che vivifica e da senso allo stare “dentro”. Che sia un dentro reale o metaforico, da un certo punto di vista, cambia poco.
Seguendo la tua storia artistica si trovano dei fili rossi che legano l’evolversi della tua espressione; la presenza del ricamo, del tessere e della volontà comunitaria e territoriale del tuo agire mi hanno ricordato i lavori di Maria Lai. Ma ho la sensazione che l’arte di Lai fosse in un certo senso maggiormente “situata”. Il tuo è un modo di di tradurre un’universalità, di connettere flussi globali nel locale. Trai maggiore nutrimento ispirativo dall’andare altrove o dall’appartenere?
Quando incontrai la prima volta Maria Lai, per poco tempo, penso di non essere stata in grado di dire una parola ma ricordo di averla guardata, io molto alta e impacciata e lei minuta e potentissima, col suo caschetto di un bianco luminoso, come una terra esotica, un paesaggio di granito dalle forme di carne viva e da alberi carichi di frutto. Certo il suo radicamento all’isola, alle sue storie, alle magie telluriche e alle parole potenti sono evidenti. Viene da un’isola d’isole. Allo stesso tempo il suo lavoro dice molto altro. Va molto lontano, portando chi la guarda, altrove. La sua generosità ha disseminato segni, piccoli e grandi, in tanti luoghi e in tante anime.
Ricordo un incontro, anni e anni fa, su un’isole dell’arcipelago delle Orcadi (amo molto le isole!), in un momento particolare di quel giorno e della mia vita, in cui un vecchio mi chiese “A dove appartieni?”. Apparteniamo a un dove, a un dove che ha formato il nostro primo paesaggio. A volte si ha la fortuna di poterlo rivedere, quel primo luogo. Di persona, se sei fortunato. A volte continui ricostruirlo e modificarlo col passare degli anni.
Diciamo quindi che amo tornare a dove appartengo, ma è andando altrove che riesco a situarmi. Un movimento continuo e vitale.
Il tuo rapporto con i luoghi prescelti per le tue opere, per la loro genesi ed esposizione, è molto interessante. Si evince che ogni luogo parla attraverso le tue scelte artistiche. Scegliere un luogo, insediarsi, significa preferirne uno tra le infinite possibilità. È un momento importante, che richiede un grande senso dell’orientamento. Quali sono le coordinate che ti spingono a scegliere? Anche nell’esposizione, quando la materia che hai trasformato deve prendere posizione, come ti orienti per collocarla nello spazio?
A questa domanda potrei rispondere scegliendo tra diverse piste. Ne scelgo una per le “coordinate geografiche”. Un’altra per quelle “installative”.
A volte mi viene chiesto di realizzare un progetto in un determinato luogo: per esempio a breve presenterò il racconto di quanto accaduto nel Parco Nazionale del Cilento nel 2018 dove andai dietro invito dell’associazione Jazzi. Voce a vento, è una performance prima e poi un libro d’artista e LP che uscirà all’inizio dell’anno. In altre occasioni ho seguito i racconti, le descrizioni di paesaggi particolarmente attraenti per il mio immaginario (e ancora “a dove appartieni?”) e sono andata o ho provato ad andare.
In un certo qual modo anche quando posso muovermi nello spazio espositivo come desidero, lo studio come un paesaggio, più o meno articolato o scarno, e le opere che vi prendono dimora costruiscono, quando riesco nei miei intenti, una sorta di unica narrazione. Un arcipelago in cui aggirarsi e incontrare terre più o meno ricche e ospitali per chi le osserva. Quando lo sguardo può andare da un dettaglio all’altro, da un’opera all’altra, creando relazioni di cui il fruitore diventava il teatro/scena itinerante e che ricompone in base alla propria esperienza.
Paul Klee ne La confessione creatrice del 1920 scrive: “l’arte non ripete le cose visibili ma rende visibile”. Dunque, l’arte non è specchio del mondo, ma è un canale privilegiato per comprendere le dinamiche, le relazioni, le connessioni apparentemente invisibili del mondo che ci circonda. Un campo in cui si raccoglie consapevolezza. Nella tua esperienza quali sono le cose di cui l’arte ti ha reso consapevole?
Dovendo dare una risposta puntuale a quanto mi chiedi, direi che mi ha reso manifesto, attraverso la processualità che sottende alla realizzazione di ogni opera (mi riferisco ovviamente alla mia pratica, alla mia esperienza) quanto tutto sia irrelato. Ogni azione, ogni pensiero, ogni vivente e questo nello spazio e nel tempo. Diciamo che mi ha tolto ogni certezza e mi ha mostrato come la fragilità possa essere un dono quando ti permette di “ascoltare” con maggiore attenzione le cose del mondo.
Nell’approfondire la tua vita artistica emerge forte il potere delle mani e del fare. Ma non solo. Le tue opere mi hanno parlato di un tenace rapporto con un corpo che si mette in cammino. Penso a “How do I imagine being there?” Il progetto nato dall’attraversamento delle Isole di S.ta Kilda nel 2012, dal quale dopo un tempo di sedimentazione sono scaturiti artefatti reali. Anche in quell’occasione hai ideato un’esperienze intersoggettiva, in relazione con altri saperi e memorie. Così l’opera diventa un “punto di vista” di molteplici corpi in movimento. Come immagini, invece, il rapporto con la tua arte dal punto di vista di chi ne fruisce? Cosa restituisce al tuo lavoro la relazione con chi guarda?
L’ultima personale che ho, per mia fortuna, potuto aprire tranquillamente lo scorso luglio, in Svizzera, a Zuoz, presso Monica de Cardenas, s’intitolava “Come le mani ricordano” ed era curata con dialogo fecondo da Marina Dacci. Mi interessava il modo in cui memoria, immaginazione ed esperienza costruiscono la percezione che abbiamo del tempo e dello spazio.
In “How do I imagine being there?” ho tentato di riflettere sui possibili modelli di lettura del paesaggio, sui sistemi osservativi del mondo che ci circonda, i quali non offrono risposte definitive, ma creano nuovi approdi all’ “arcipelago-mondo”.
Non so esattamente cosa accada in chi fruisce del mio lavoro, chi partecipa ai miei progetti: mi piace pensare che possa sentirsi parte di qualcosa, anche solo per un attimo, composto da altre voci. Che sia attratto da ciò che esperisce e che questo possa muovere i suoi pensieri, che apra un enigma o che consoli di qualcosa che neppure pensava di aver perso o rinunciato. Se, qualche volta, accadesse questo, sarebbe per me un dono.
Come dicevamo hai sempre messo al centro del tuo lavoro la presenza fisica, la copresenza dei corpi. Attraverso linguaggi sempre diversi, che vanno dal cucito, la scultura, il disegno, la fotografia, al bronzo e la ceramica; sia nel processo di genesi che nel processo di restituzione e radicamento delle tue opere si generano incontri. In quest’anno di distanziamento sociale quali sono le derive e le nuove prospettive che hai esplorato e pensi che questo periodo ti abbia tolto o dato qualcosa?
In questi mesi, che sembrano anni, il rapporto col tempo ha subito un cambiamento: non che mi fosse aliena, questa sospensione, questo limbo nell’immaginare i possibili in alternativa al presente, anzi… ma è come se tutto quello in cui sono sempre stata, cercando di tenerlo a bada (anche attraverso il mio lavoro) fosse diventato reale, tangibile.
La reazione è stata quella di attivare nuove collaborazione, alimentare quelle già in atto, tracciare la rotta tra le tante isole che avevo incontrato e quelle che spero d’incontrare.
Una maggiore aderenza al qui e adesso. E l’urgenza di mettere insieme voci che mi possano raccontare di scenari futuri possibili, di azioni resistenti, di modi vitali per guardare al futuro con lucidità, consapevolezza e desiderio di far parte di un tentativo più ampio di noi singoli di “riparare”. Riparare nell’urgenza del cambiamento.
La natura è sicuramente una presenza costante e tenace in tutto il tuo contributo. Da molto prima di Balena Project, il progetto nato nel 2004, che porta in giro per il mondo una Balenottera Comune in tessuto a dimensioni naturali. Mi hanno colpito molto le Tavole Vegetali, dal 1995, una serie di licheni fotografati durante i tuoi viaggi e riprodotti, filo su filo, sopra un tessuto. Ma la natura sta cambiando, ne siamo consapevoli. Qual è l’impatto della crisi climatica su di te? Senti che qualcosa sta cambiando o entrando in crisi anche nel tuo lavoro artistico?
La crisi è un momento, nel lavoro artistico, fondamentale. Benché doloroso è da questa cesura che una nuova direzione può nascere. Crisi come bivio: possiamo scegliere quale direzione intraprendere. Se assecondare questa idea che tutto sia a nostra disposizione e che possiamo farne ciò che vogliamo, perché siamo al centro del tutto, oppure capire la nostra totale dipendenza da un sistema irrelato e complesso che è il pianeta di cui siamo parte. Sento un dovere di ascoltare il richiamo alla responsabilità. Personalmente cerco di attuarlo nei modi che conosco attraverso il mio lavoro e, collettivamente, attraverso per esempio quello che facciamo l’associazione piacentina di cui faccio parte, EN laboratorio collettivo, con la quale abbiamo ideato e costruito il festival Sette giorni per paesaggi.
Probabilmente durante tutta la tua carriera si sono evoluti anche gli strumenti e le tecnologie. Per un’arte così materica e artigianale sembra che la tecnologia non sia un supporto di vitale importanza. È realmente così? Qual è il suo ruolo nella tua esperienza da artista?
La tecnologia è totalmente pervasiva nel nostro vivere quotidiano, a vari livelli e con più o meno evidenza. Il punto è che dovrebbe auspicabilmente rimanere uno strumento dell’uomo per l’uomo. Nella mia esperienza diretta non ho mai operato con mezzi ipertecnologici, ma ne ho guardato le potenzialità. Ho incontrato discipline che attraverso queste tecnologie negli ultimi anni hanno fatto passi da gigante nella conoscenza delle cose dell’uomo, del mondo, e dell’universo. Come non porvi attenzione?
Tra i discorsi ricorrenti delle tue opere troviamo gli animali. Abbiamo citato di Balena Project, che se non sbaglio è ancora in divenire e dovrebbe concludersi nel 2021 con una pubblicazione. Ma quest’anno c’è stato anche Whalebone Arch, progetto tra i vincitori dell’Exhibit Program del MiBACT: due grandi sculture realistiche di mandibole di balenottera, che riproducono una volta d’ingresso, soggetto di azioni performative poi partite per altre direzioni. Sono archetipi, simboli di qualcosa di più profondo, ma sembrano rivendicare anche un’attenzione ecologica. Da cosa nasce il tuo desiderio di rappresentare il mondo animale?
Voglio citarti John Berger che ha scritto, con questo suo modo mai apodittico e fecondo, di animalità e che dice, molto meglio di come potrei fare io, “Perché guardiamo gli animali?” (2009): «Da principio gli animali entrarono nell’immaginario dell’uomo come messaggeri e come promesse», e attraverso di loro fummo in grado di tracciare la mappa dell’esperienza del mondo. «Se la prima metafora fu animale, fu perché la relazione fondamentale tra uomo e animale era metaforica. All’interno di quella relazione, ciò che i due termini – uomo e animale – avevano in comune rivelava ciò che li differenziava.»
Ti voglio raccontare di un’opera nata durante la prima parte di questo 2020: “Amuleti” sono circa cinquanta piccole sculture (ognuna sta nel palmo di una mano) in argilla bianca e poi pigmentata, mezze animali e mezze figure umane urlanti o mute. Talismani nati dal bisogno di frequentare e raccontare di una “zoologia” profonda, intima e presente, più o meno consapevolmente, in ognuno di noi.
Una domanda personalissima. Quest’estate ho avuto l’opportunità di girare per musei e per installazioni con mia figlia di otto anni. Ed è stato molto difficile per lei accedere ai contenuti, sia dal punto di vista logistico – l’esposizione museale non tiene conto delle altezze e della posizione di uno sguardo di bambino – sia dal punto di vista della proposta. Credi che sia importante parlare anche alle nuove generazioni e come si può farlo mantenendo autentica la spinta dell’artista?
Sfondi una porta aperta. Tra le conversazioni più interessanti che ho avuto annovero quelle coi dipartimenti educativi dei musei: il loro è un esercizio di lettura fondamentale delle opere. Certo, hai bisogno di buone “guide”, nel senso di progettualità educative e di divulgazione che non impoveriscano, non si sovrappongano ma siano capaci di “attivare” le opere per pubblici diversi. Nulla da temere in questo, poiché non si perde di autenticità: si aprano solo nuove possibilità di lettura e ascolto. A volte (mi è capitato personalmente) si aprono anche per lo stesso artista.
(In foto, un’opera di Claudia Losi, per gentile concessione dell’artista)