Teatro e televisione al tempo della pandemia

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di Roberto Castello e Andrea Cosentino

Partiamo da due impressioni, soggettive e non troppo ragionate, ma forse proprio per questo degne di approfondimento: la prima linguistica, la seconda sociologica, o socio-psico-introspettiva, se preferite.

Ecco la prima: non è che a forza di sperimentare il teatro in televisione, stiamo inventando il varietà di Antonello Falqui? Che per carità tanto ci manca, come ci mancano Mina e Aldo Fabrizi, bei tempi quelli e bella televisione, o forse ci siamo semplicemente fatti vecchi.

Ed ecco la seconda, sempre in forma di domanda: ma quell’eccitazione mista a malcelata invidia che manifestiamo noi teatranti nel vedere un collega che abbiamo avuto occasione di frequentare e ammirare per anni dal vivo apparire per tre minuti sulla televisione di stato, cosa rappresenta? Non sarà che al fondo, senza volerlo, abbiamo coltivato un’inconfessabile subordinazione al successo e al denaro, e che, mentre parlavamo di teatro, polis, relazione, comunità e cultura dal basso, ci siamo arresi, senza nemmeno sapere come e quando, all’idea che solo la visibilità e il potere possano davvero benedirci?

Proviamo a riordinare le idee. Partiamo dal fatto linguistico, e dal perché i primi esperimenti, diciamo così, ‘autorevoli e ambiziosi’, di teatro in video, che aspirino a una qualche godibilità, ci pare vadano verso il varietà televisivo. Evitano infatti di propinare interi spettacoli, notoriamente poco telegenici, ma costruiscono contenitori con conduttori frizzanti, che presentano rapidi e sapidi assaggi di dialoghi, narrazioni abitualmente musicate in sottofondo, danze e scenette varie, con intermezzo di brillanti conversazioni con i protagonisti di turno. Perché alla fine – è il segreto di Pulcinella – il teatro in tv non funziona, lo riconosci a un primo sguardo da quella patina di noia e sostanziale inadeguatezza ai ritmi televisivi. E normalmente lo eviti, o al più lo tolleri con la benevolenza faticosa, ma autogratificante, di chi si relaziona con un conoscente sfortunato.

Cosa non si fa per la Cultura! Allora certo, per farlo passare in televisione questo benedetto teatro, dovremo pur inventarci qualcosa, che magari non sarà più proprio teatro, ma dopo tutto quello che conta sono le buone intenzioni. Semmai il problema è che il varietà televisivo è stato inventato da più di mezzo secolo, dunque c’è poco da urlare alla novità.

O magari, per riconoscere che di teatro si tratta anche quando passa su mezzi audiovisivi, potremmo provare a riesumare le vecchie bistrattate unità aristoteliche, però in versione due punto zero stavolta, ovvero declinate non sulla vicenda rappresentata ma sugli attori: sono i performer che, perché si dia teatro, devono agire in uno stesso luogo e in uno stesso tempo, possibilmente mettendoci dentro anche qualche spettatore in questa bolla. Il che avrebbe un senso anche interessante e un sapore di analisi profonda, se non fosse che la stessa cosa si può dire anche per i quiz e i talk show televisivi, e per i talent e chi più ne ha ne metta, tutti programmi che da sempre agiscono o almeno simulano la diretta, e in sovrappiù mettono gente nei loro studi, anche senza una specifica funzione, ma perché si sa che lo spettatore deve esserci, non basta saperlo dietro lo schermo a guardare.

È un dato di fatto che, fin dalle sue origini, la televisione, più che il cinema, ha assunto il teatro come modello e lo ha persino vampirizzato, dovendo e sapendo fare i conti con l’idea che non si tratta mai solo di spettacolo, ma di relazioni. Di azioni e reazioni. E dunque non si può far vedere qualcuno che agisce senza rappresentarlo assieme alla comunità che lo accoglie. È in questa comunità che il telespettatore è spinto più o meno consciamente a riconoscersi, fosse anche in un semplice applauso registrato. Ecco dunque una prima questione, semplice ma bruciante, che riguarda noi, attori, danzatori registi, coreografi e chi più ne ha ne metta, noi che invece il teatro lo frequentiamo: vogliamo continuare a lavorare per costruire occasioni di scambio, magari effimere – ma vive, concrete e reali – o vogliamo contentarci di spettatori che dalla poltrona di casa attivano i loro neuroni specchio per conformarsi a una comunità fittizia e condiscendente, che ride e applaude a comando? In sintesi: pensiamo che nostro compito sia concorrere a ricostruire una polis o contentarci di collaborare anche noi a edificarne il simulacro?

Certo, per rispondere onestamente, non ci si può astrarre dalla variabile visibilità e potere, che sembra essere decisamente dalla parte del simulacro. Siamo pur sempre nella società dello spettacolo, dove il successo dipende anche dalla capacità di conformarsi alla moneta corrente.

Proviamo a ripartire con meno enfasi. Vedere spettacoli online è faticoso anche per i direttori artistici di teatri e festival, figuriamoci per uno spettatore. È irragionevole pensare che, dovendo stare a casa, invece di guardare un bel film o l’ultimo prodotto televisivo di successo, o starsene a chattare con amici o sconosciuti/sconosciute in cerca di affinità elettive, magari sulla base di una consonanza sulle serie preferite, o anche solo navigare sul web, saranno in molti ad andare a cercarsi video di spettacoli di prosa o danza, magari pure a pagamento. Di teatro avrebbe dovuto occuparsi da decenni, e non lo ha mai fatto in modo degno, la televisione pubblica, ma non con la pretesa di soddisfare una domanda, quanto piuttosto di crearla, stimolando una curiosità che solo la frequentazione del luogo deputato possa soddisfare.

Diciamolo con franchezza: al di là di una immediata quanto illusoria soddisfazione delle urgenze dei singoli artisti in crisi di astinenza espressivo-esistenziale, in questo momento il teatro in televisione e in streaming, a livello istituzionale, non è che un modo per giustificare l’esistenza di contributi pubblici a una categoria momentaneamente senza lavoro. Ma abbattere la disoccupazione facendo fare lavori socialmente utili, come svuotare e riempire più volte lo stesso fosso, risveglia ricordi di epoche che non si vorrebbero rivedere.

Persino la famigerata Netflix della cultura non ci preoccuperebbe quanto ci preoccupa, se fosse un tentativo di arricchire l’offerta culturale dei palinsesti televisivi all’interno della problematica, ma proprio per questo stimolante, convivenza tra mercato e servizio pubblico. Quello che preoccupa è il teatro che vuole convertirsi allo schermo portandosi dietro i soldi destinati allo spettacolo dal vivo. Investire risorse pubbliche negli eventi online significa comunicare ufficialmente alla cittadinanza che lo stato, le regioni e le principali istituzioni considerano lo spettacolo dal vivo un orpello del passato e che il futuro sarà fatto di consumi culturali domestici. Uno scenario politico e sociale che a noi pare agghiacciante.

Sia chiaro, trovare modi per spingere le professionalità esistenti nel cinema e nella televisione a considerare la creatività del mondo teatrale una risorsa cui attingere è cosa più che giusta. Così come non abbiamo niente in contrario – potremmo farlo noi stessi se si creassero le condizioni – che artisti cresciuti sulla scena vogliano spostarsi a fare televisione. È sempre accaduto ed è sulle professionalità venute dal teatro che è nato e cresciuto il linguaggio televisivo ai suoi albori, anche se prima della pandemia le cose si erano ribaltate e succedeva piuttosto il contrario, cioè che fosse il teatro ad essere diventato una passerella di prestigio per star televisive. Ma qui siamo al marketing, e abbiamo seri dubbi che, incassi al botteghino a parte, questo abbia fatto crescere il teatro.

E qui siamo alla funzione della cultura che, anche se fosse una parola vuota, qualche senso dovremmo almeno inventarglielo, dal momento che esiste un ministero che se ne occupa. La cultura non dovrebbe servire a far girare l’economia, semmai il contrario, a pensarci bene, se la si concepisse in una accezione larga e profonda del termine. Quella della cultura come incubatrice di PIL è una prospettiva iperliberista che si sperava tramontata, viste le nefaste conseguenze sociali e politiche che ha prodotto. Sia chiaro, non siamo tra quelli che pensano che il teatro debba essere lasciato in pace a farsi i fatti propri in enclaves protette e finanziate, e che nessuno disturbi i manovratori, i vestali della fiaccola, e che l’arte non debba rendere conto a nessuno. Piuttosto i conti da fare non dovrebbero essere meramente numerici, ma più articolati, complessi e lungimiranti, e dovrebbero riguardare la capacità di penetrazione e di scambio delle idee nel tessuto sociale. L’offerta culturale ha un valore e un’utilità se è frutto di un processo organico e selettivo.

Inondare senza alcun filtro il web di letture e riprese più o meno amatoriali di spettacoli potrebbe rivelarsi la peggiore pubblicità che si possa fare al teatro e il miglior modo per persuadere chi già non ci andava a non prendere neppure in considerazione l’eventualità per il futuro. Poi certo, durante l’ultima grande guerra scarseggiava il caffè e si usava la cicoria, e ci sarà sempre qualcuno che rimpiangerà anche questo. Non è necessaria una raffinata e saporita madeleine, anche a un pessimo surrogato possono legarsi i bei ricordi di giovinezza, come i racconti di guerra dei nonni, la povertà e la solidarietà, i rifugi e i bombardamenti: ah la pandemia del duemilaventi, tutti in pigiama sul divano, la pizza fatta in casa, le interminabili riunioni su zoom, l’incubo del teatro in streaming…

Siamo ben coscienti che di questa faccenda si è ormai parlato e scritto fino alla nausea, e sono poi forse discorsi che interessano noi e pochi altri, spaccando il capello in quattro, otto, sedici e anche trentadue, e non c’è molto da aggiungere, semmai ci sarebbe da levare. Perché a fare i sofisticati rischiamo di farci ammaliare dalla raffinatezza dei nostri stessi ragionamenti, ma alla fine un albero lo tagli con l’accetta, e stare lì col bisturi può risultare un passatempo lezioso, dati i tempi, che sono e saranno quelli della ricostruzione, non della decorazione e dell’intarsio. Allora forse qui conviene dirci una sola cosa semplice semplice, e stare lì a battere e insistere su quella. Conviene mettere a fuoco una volta per tutte questa cosa, che non è mai stata veramente chiara se siamo ancora a discuterne: il teatro non è un oggetto ma è una relazione; non è un’arte da guardare, ma l’unica in cui lo spettatore è a sua volta guardato.

L’unica in cui, attraverso lo sguardo del performer e degli altri spettatori, io mi guardo guardare. E’ questo che ne fa una forma espressiva costitutivamente politica. Ritenere sufficiente la visione domestica di uno spettacolo teatrale è affermare che tutto ciò non ha valore e che ha valore solo l’opera che si presenta, un’autentica bestemmia, ed è triste che proprio dall’ambito ministeriale provengano spinte di questo tipo. Il teatro non è, o non dovrebbe limitarsi ad essere, quello che gli artisti fanno in scena, ma il fulcro di un evento, un rito, una festa in cui i componenti di una comunità condividono del tempo, si guardano, si salutano, si abbracciano, si scambiano notizie sulla propria vita e opinioni su ciò che hanno visto o sentito, consolidando legami sociali locali. Questo, e non altro, rende il teatro insostituibile.

Ma attenzione: che una cosa non possa essere sostituita, non è garanzia che non sarà abbandonata e dimenticata. E qui entra la responsabilità di noi addetti ai lavori. Dai momenti di crisi si esce con una rivoluzione o con una restaurazione, a ognuno decidere in quale direzione spingere. Noi pensiamo si debba approfittare dell’occasione che viene dall’impossibilità temporanea di presentare spettacoli dal vivo per produrre nuovi lavori, finalmente non in fretta e male, come invece tendeva ad avvenire in tempi normali, e in condizione di scarsità di risorse, ma con calma e approfondimento. Ma soprattutto dovremmo approfittare dello stallo forzato per ragionare non solo sui modelli estetici e performativi, ma anche e forse soprattutto su quelli organizzativi, distributivi ed economici. Il sospetto invece è che chi avrebbe i mezzi, il potere, la posizione e voce in capitolo per ripensare e riorganizzare il sistema, per lo più non ne abbia gli stimoli, e ancora meno la convenienza.

Se crediamo nel valore di quello che facciamo, il problema che dovremmo porci, una volta che le sale riapriranno, ci piacerebbe non fosse quello di tornare dove ci eravamo interrotti, ma di portare a teatro anche chi non ci era mai andato prima, possibilmente offrendogli spettacoli di straordinaria qualità, senza bisogno di azioni di public engagement, che già solo a pensarle sono un’ammissione di inadeguatezza. E ancora prima, di intercettare la voglia che avremo di uscire dalle case per tornare ad essere gli animali sociali che siamo.

Il Presidente della Repubblica, nel corso del suo messaggio di fine anno, ha nominato i teatri. Gioia della categoria. Addirittura prima dei ristoranti. Tripudio. Non ha neanche nominato le discoteche e gli impianti sciistici. Ben gli sta. Eppure, perché abbiamo il sentore che gran parte della gente non veda l’ora di finirla colle misure anticovid per andare ad affollare locali e discoteche o anche solo il bar sotto casa, per non parlare dello shopping e dei centri commerciali? E molti, molti meno siano invece lì ad aspettare con ansia la riapertura dei teatri? Allora forse il problema non è lo streaming di oggi, ma il fatto che già ieri il teatro è stato proposto e vissuto come luogo statico di fruizione culturale e non come piacevole luogo di incontro e socialità. Possiamo raccontarcela come ci piace noi teatranti – che però la presenza, e che ogni spettatore si fa la sua personale regia, e vuoi mettere la multicodicità dell’evento e la stratificazione dei linguaggi – ma finché continueremo a pensare il teatro unicamente come prodotto spettacolo, non faremo che creare le premesse per la sua definitiva migrazione online. Anche perché di fruire spettacoli, diciamocelo, ne abbiamo piene le scatole, abbiamo fatto tutti indigestione di prodotti culturali e di pizza in questi mesi, magari in streaming e a domicilio, ma comunque cultura e pizza, ognuno secondo i propri gusti e preferenze. E di conseguenza non è, va detto, quella roba che chiamavamo teatro ad essere una di quelle che più mancano, né tra i luoghi in cui per primi ci riverseremo una volta finita con l’isolamento, fatta eccezione certo per la stessa comunità dei teatranti, così nostalgica di ritrovarsi.

Concludiamo con quella che può sembrare una provocazione e in parte lo è: forse stiamo commettendo un grave errore a chiedere alla politica e alle autorità sanitarie che ci riaprano presto, a raccontarci e raccontare che il teatro non è pericoloso, che era un luogo di distanza prima ancora che fosse inventato il distanziamento, state sereni, non ci si rivolge parola, ognuno seduto composto senza fiatare, senza sgocciolamenti, congiunto ai suoi congiunti, con il volto direzionato verso il palco, tanti sguardi paralleli che non si incontrano nemmeno all’infinito. Poi si va via e zitti, ognuno a casa propria, insomma tranquilli, il teatro non è un genere d’assembramento.

Allora ecco, se la gente, un giorno che speriamo non lontano, si riverserà a fare aperitivi e in discoteca, alla ricerca di contatto e dialogo e sudore, e avrà dimenticato i teatri, sarà stata anche un po’ colpa nostra, che invece magari dovremmo urlare forte: attenzione, pericolo! E avremmo anche dovuto, e speriamo non sia troppo tardi, costruire e comunicare un teatro come spaziotempo felice di corpi e coscienze che si incontrano, si scambiano e dialogano. E alle volte gli capita persino di contagiarsi, certo in casi particolarmente fortunati, ma almeno sapere che è a quello che dovremmo tendere, a un teatro che agisca per contagio, come il covid e la peste, per concludere parafrasando quel vecchio mattoide di Antonin (Artaud, per i non addetti, che esistono, e sono la stragrande maggioranza, non dimentichiamolo).

 

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