Una notte al Museo Russo. Una lettera a Paolo Nori

di Salvatore Ditaranto

Caro Paolo Nori,

mi è successo un fatto straordinario proprio mentre leggevo il tuo ultimo libro “Una notte al Museo Russo” (Laterza). Non era la prima volta, la stessa cosa mi è capitata con “Sanguina ancora” (Mondadori) e dopo con “Vi avverto che vivo per l’ultima volta” (Mondadori). Leggendo questi libri ho avuto la strana sensazione di essere cieco. Ma come è possibile?

La verità è questa: i tuoi libri mi hanno fatto ricordare di un mio viaggio a Pietroburgo, circa quindici anni fa. Allora non leggevo letteratura russa (che sciocco che ero o che coglione! direbbe Raffaello Baldini) e a parte “Disastri” di Charms conoscevo solo cognomi di autori e titoli di romanzi. Non sapevo niente di tour letterari e quindi ho visitato l’Hermitage, il Palazzo d’Estate e la camera d’ambra, la Casa dei Libri nel palazzo della Singer (dove si mangiavano blinis con panna acida), le tombe degli zar nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo dentro la fortezza omonima (il luogo più antico di Pietroburgo, ci dissero!). Ricordo poi la Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato (che nome!), la Cattedrale di Sant’Isacco (che cupola!), la Cattedrale di Kazan’ (che cupola!) e altre chiese (quante e che cupole!).

Ho visto (da lontano eh!) anche la Grande Casa (la sede dell’ex KGB dove aveva lavorato Putin) e la Casa dei Soviet. Fra le tante cose ricordo, come se ci fossi andato ieri, il Kunstkamera dove c’erano pochi altri stranieri (perché noi, in generale, già non frequentiamo i musei etnografici di casa nostra, figurati se andiamo a visitare quelli degli altri). Il Kunstkamera non si dimentica facilmente perché lì si possono vedere contenitori in vetro con dentro bambini idrocefali, animali tricefali e altre stranezze tutte in formalina. La guida aveva spiegato che Pietro il Grande lo aveva fondato con intenti illuministici: eliminare la superstizione e diffondere la ragione e la scienza (sarà per questo che Pietro il Grande è definito il Grande?).

Io non ti sto scrivendo per raccontarti quello che ricordo ma per condividere il mio fatto strano. Di quel viaggio ho pochissime foto, non c’erano gli smartphone e quelle che ho sono sfocate (tremavo più per il freddo che per la vodka e figurati che in un ristorante fighetto dissero di non averne e, secondo me, il cameriere aveva pensato “diciamogli che non abbiamo la vodka, così penseranno che non sia vero che qui beviamo solo la vodka!”). Quando ho letto i tuoi libri mi sono sentito un cieco perché, pur avendo gli occhi, dovevo affidarmi ad uno scrittore per ripensare e cercare di ri-vedere quello che avevo visto anni fa. E nella mia strana cecità, anche fotografica e aggravata dal tempo trascorso, quando chiudevo gli occhi per davvero cominciavo a ricordare sempre di più. E ogni frase che leggevo era come un lampo che squarcia, illuminandolo, il grigio del cielo.

Insieme a tuoi libri, come Pancetta (Feltrinelli), poi ho ripreso i Racconti di Pietroburgo di Gogol’ (tradotti da te per Marcos y Marcos), le Notti Bianche (tradotto da Vittoria de Gavardo e con prefazione di A. M. Ripellino ed. Einaudi) e le Memorie del Sottosuolo (tradotto da Alfredo Polledro sempre Einaudi) di Dostoevsky. E proprio come un cieco non solo mi sono messo a inseguire i personaggi, ma mi è sembrato di indossare gli occhi dei traduttori. Benedetti traduttori! Nei tuoi libri fortunatamente sono sempre nominati con nome e cognome (ora che sono meno sciocco, anche io sto molto attento ai traduttori dei libri che leggo e ho addirittura le mie preferenze). Senza traduttori, noi che vorremmo leggere le altre letterature, saremmo tutti come dei ciechi con gli occhi. Potremmo leggere, è vero, ma solo i traduttori, e gli scrittori, ti possono portare in giro come si deve. E ora, infatti, più leggo e più ricordo e certe volte non so più se sia più vera la Pietroburgo letteraria o quella che ho vissuto quando ero lì oppure entrambe: è tutta una perenne lotta tra l’immaginazione e la realtà.  Credo, comunque, che a quelli come me ci ha descritti bene Gogol’: la memoria comincia a tradirci spesso, e tutto quello che c’è a Pietroburgo, tutte le strade e le case, si è fuso e mischiato nella nostra testa in un modo che è difficilissimo, da lì, tirare qualcosa di ordinato.

Ora devo dirti che di quei pochi giorni, di una quindicina di anni fa, oltre al cielo alto che si vede dai ponti di granito sulla Neva, era semi ghiacciata e con la spaccaneve rumorosa che fendeva il tutto, mi sono ricordato addirittura delle persone che ho incontrato. Era Pasqua e della veglia notturna ricordo gli uomini che pregavano con gli occhi chiusi e i loro visi erano del colore delle fiammelle di quelle magre candele che le signore, con il foulard in testa, piantavano nella sabbia davanti alle icone muovendo le labbra in silenzio. Non ti dico del tassista muto con cui parlavo muovendo le dita che bucavano la mappa in cirillico e che faceva sempre sì con la testa anche se giustamente non poteva capire cosa dicessi. E poi la giovane guida con le gambe lunghe, i capelli d’ambra, che amava l’italiano e che mi ha spiegato cosa sono le kommunalka e perché molti avevano un brutto ricordo di Gorbaciov e un buon giudizio di Putin.

Ricordo anche i tre musicisti anzianotti della banda, davanti al palazzo d’estate, che appena hanno sentito le nostre parole italiane hanno smesso di suonare una melodia francese e ci hanno accolto suonando “oh sole mio” (una canzone che ho scoperto ha un forte legame con Odessa). Mi sono ricordato anche il cameriere del ristorante azero, vestito da caucasico, così fiero dei vini, ebbene sì!, georgiani. E poi le signore delle bancarelle che piegavano ben bene i dollari guadagnati vendendo gagliardetti con Lenin e ricordo anche di essermi perso in una specie di centro commerciale, pieno di parrucche, che si affacciava sulla Prospettiva Nievski che io attraversavo ogni volta cantando la canzone di Battiato (che pazzo! avranno detto quelli che mi ascoltavano).

Devo confessarti che quando sono stato a Pietroburgo non solo non leggevo letteratura russa ma non sapevo nulla nemmeno di arte russa (avevo solo assistito ad una lezione di un gesuita sulla Trinità di Andrej Rublëv, un’icona che è un romanzo dipinto) e quindi sono stato doppiamente contento di leggere “Un notte al Museo Russo”. Ho provato ad immaginare la sensazione di vedere il Quadrato Nero di Malevič e mi sono sentito un cieco, e anche se vedevo nero, io vedevo!  E mentre leggevo sono pentito di non aver visto il dipinto La coda di Sundukov.

Su Internet ho reperito la foto (anche se non è lo stesso) e guardandolo mi sono chiesto: cosa ci fanno tutte queste persone in fila? Aspettano il turno per entrare in un museo o devono ritirare la pensione come fanno in certi paesi delle provincie del sud Italia? È una fila per risolvere questioni burocratiche? O sono le file come quelle di Milano dove certe volte si fanno cose per certi ristoranti che sono sempre stati là ma poi non appena uno sui social scrive che si mangia bene, bhè si mettono tutti in fila. Io comunque guardando l’opera di Sundukov ho pensato anche alle file per votare, in Russia, che abbiamo visto qualche giorno fa in tv. Poi ho pensato a me, visto che con l’arte si possono fare queste cose da egocentrici di immedesimarsi nelle opere, e mi sono domandato: io per cosa mi metterei in coda? Non ho dubbi, sicuramente per andare a comprare in quella libreria con la scritta MIRU MIR (PACE AL MONDO) dove ora, dopo che hanno rotto un vetro, c’è solo la scritta MIR (PACE). Se la guerra finisse presto sarebbe bello fare quel tour letterario che non avevo fatto all’epoca quando non leggevo letteratura russa (che sciocco che ero o che coglione! direbbe Raffaello Baldini).

p.s. Visto che ti ho scritto ne approfitto per farti una domanda da ignorante che sono. Sono mesi in cui si parla molto del fatto che la Russia si stia avvicinando alla Cina, all’Iran, alla Corea del Nord e forse all’India e altre nazioni. A livello geopolitico sembra proprio così e io mi chiedevo, dopo aver letto alcuni tuoi libri e quegli altri pochi di scrittori russi, mi è sembrato di capire che una delle cose che più lega la Russia all’Europe è e sarà sempre la letteratura. Sarà per la storia delle frasi francesi nei romanzi russi o dell’amore per Dante della Achmatova o di quante volte nominano l’Italia nei racconti. Non so, ma mi sembra che una lunga coda di libri unisca certe letterature e certi autori e nessuna scelta geopolitica potrà cancellare questo filo invisibile e questo legame tra lettori e scrittori e non lo potrò fare né chi governa ora né chi verrà dopo. Sono sciocco o sono come direbbe Raffaello Baldini?

 

Commenti
Un commento a “Una notte al Museo Russo. Una lettera a Paolo Nori”
  1. Stefano ha detto:

    Non potendo provvedere da me, vi chiedo di cancellare il precedente commento, che non è stato elegante e mi scuso per questo. Ma la cultura è l’antitesi del luogo comune espresso nel vostro articolo.

Aggiungi un commento