Washington, la capitale in cui è pericoloso partorire

di Carola Mamberto e Lorenza Pieri

Attraversiamo la città nel pomeriggio, è una giornata fredda e limpida, percorrendo il ponte sull’Anacostia river che ci porta nei quartieri di sud-est, ci lasciamo alle spalle la Casa Bianca, l’obelisco e la cupola lucida del Campidoglio che si staglia tra rapide nuvole rosate. Il traffico è intenso. Dall’altro lato del ponte c’è un’altra città, una città estremamente più povera, più pericolosa. I negozi si fanno più radi, i palazzi più fatiscenti, per le strade, solo afroamericani e quasi a ogni incrocio, c’è una macchina della polizia con i lampeggianti accesi.

Andiamo a incontrare Nandi, una giovane madre di quella zona di Washington, uno dei posti più rischiosi al mondo in cui partorire.

Sono mesi che approfondiamo il tema della salute materna, ormai anche al centro delle campagne dei candidati democratici alle prossime presidenziali: le statistiche parlano degli Stati Uniti come del Paese sviluppato con le percentuali più alte di mortalità materna e neonatale, con numeri sempre in crescita dall’inizio del millennio (secondo l’Unicef 19 madri morte ogni 100.000 nascite, contro le 2 in Italia[1] e 6 neonati morti ogni 1000 nascite contro i 3 in Italia[2]). Fra tutte le metropoli americane, Washington ha i numeri più allarmanti (39 morti materne ogni 100.000 nascite e 7,6 neonati morti ogni 1000 nascite) che si sommano a una evidente disparità razziale: il 75% delle madri e dei bambini morti per complicazioni sanitarie sono di colore.

Nandi ci dà appuntamento a Martha’s Table, una struttura di volontari dove sua figlia più grande, Madison, che ha 7 anni, fa un doposcuola. Siamo a Barry Farm, un quartiere dove lo scorso anno sono stati commessi più di venti omicidi. A parlarci di Nandi è stata Patricia Quinn, direttrice dell’Associazione di Primo Soccorso del District of Columbia (DCPCA) che ha attivato il Women’s Health Improvement Project a cui la ragazza si è prima rivolta per chiedere aiuto e con cui adesso collabora attivamente come consulente. “La storia di Nandi è una tra migliaia e non riguarda soltanto la questione della salute della donna in gravidanza” spiega Quinn, “l’iniquità vergognosa del sistema sanitario di Washington è un problema endemico, basti pensare che tra i diversi distretti, tra nord-ovest e sud-est c’è una differenza di vent’anni nell’aspettativa di vita. È chiaro che questa disparità abissale riguarda anche la qualità della vita che si ha fino quando si muore.”

È Nandi a riconoscerci e venirci incontro. È una ragazza di 28 anni alta e di naturale eleganza, tutta vestita di nero. Ha nel viso una dolcezza malinconica e nei modi una sicurezza inaspettata. La sua è una storia che potremmo definire a lieto fine, visto che lei e le sue bambine (oltre a Madison, c’è Eva Rose, di 18 mesi) sono sane e hanno al momento una sistemazione stabile, ma quello che ha dovuto affrontare – povertà, abusi, mancanza di casa, assenza di infrastrutture sanitarie, disoccupazione, pregiudizi, dipendenze – è l’eco di un grido disperato che risuona nei quartieri neri attraverso tutti gli Stati Uniti.

Ci sediamo in un angolo appartato e Nandi comincia a raccontare con voce bassa ma sicura:

“Quando sono rimasta incinta per la seconda volta stavo attraversando un periodo molto buio, di depressione, un mio collega una sera in cui avevo bevuto troppo si è approfittato di me, non lo considero uno stupro, ma non tutti la pensano così perché in effetti non ero lucida… Ho pensato di abortire ma credo in Dio e poi quando mi sono rivolta al Capitol Hill Pregnancy Center – che, non lo sapevo ma alla fine è un’organizzazione di credenti – mi hanno aiutato a desistere, ricordandomi Dio e le sue promesse… alla fine li ringrazio…”. Durante l’incontro viene fuori  anche che sua madre è sacerdotessa in una chiesa del quartiere e non avrebbe accettato l’imbarazzo di un aborto in famiglia di fronte alla sua comunità di fedeli. Nandi continua: “Ma non ero preparata a una seconda gravidanza, né mentalmente né fisicamente. Soffro di un problema addominale e provavo un dolore costante, ero sempre più depressa, continuavo a prendere peso.”

Quando le chiediamo su che tipo di assistenza abbia potuto contare ci rendiamo conto della paradossale situazione per cui in certi contesti più sei in difficoltà e più è difficile ricevere aiuto:

“Con la mia prima gravidanza era andato tutto bene, avevo un compagno, un’assicurazione, venivo seguita e visitata regolarmente. Con la seconda ero sola, senza supporto, uscivo da una relazione abusiva con il mio primo partner, ma ogni volta che cercavo aiuto mi sentivo sbattere le porte in faccia, cercavo una casa, un posto sicuro per me e le mie figlie, ma ogni volta mi trattavano come un’altra donna di colore incinta che cerca di approfittare del sistema…”.

Mentre la vita di Nandi è cambiata in peggio tra una gravidanza e l’altra, lo sono anche le infrastrutture stesse del quartiere: nel 2017, a seguito di gravi episodi di malasanità (la morte di una donna incinta obesa non monitorata, bambini nati contraendo l’Hiv da madri sieropositive per mancanza di precauzioni) il reparto di ostetricia e ginecologia dell’United Medical Center, l’ospedale pubblico del quartiere, ha chiuso. E nell’aprile 2019, nonostante l’opposizione dei cittadini e del personale, ha chiuso anche il Providence Hospital, che serviva un’altra grossa area della Washington a est del fiume Anacostia. Non che il problema non sia sotto gli occhi di tutti. Markus Batchelor, vice presidente del DC Board of Education, ha scritto in un editoriale sul Washington Post: “Come è possibile che qualcuno pensi che sia stata una buona idea chiudere l’unico reparto di ostetricia che serviva la parte più povera della città? Questa città è piena di risorse, c’è la sede dell’American college of Obstetricians and Gynecologists, ci sono le migliori scuole mediche, centri di ricerca… Se alla città importasse davvero delle famiglie che vivono a est del fiume avrebbe fatto tutto il possibile per risolvere il problema invece di mettere le madri nelle condizioni di doversi muovere per miglia, attraversare il fiume, autostrade, tunnel, il traffico su un paio di arterie principali per trovare un ospedale in cui partorire”.

È quello che è successo a Nandi, insieme a una serie di violenze ostetriche. “Ho partorito al Washington Hospital Center che è a trenta minuti di macchina da casa mia, senza traffico. Se hai un’emorragia o qualcosa di grave non c’è nessun altro ospedale nel quartiere. Quando è nata Eva Rose è stata la settimana più difficile della mia vita. Già dall’epidurale, volevano farmela fare da uno studente, io non volevo essere una cavia, ma non mi hanno ascoltata…”. Essendo l’unico ospedale con un reparto di ostetricia nel raggio di chilometri, il Washington Hospital è sempre sovraffollato.  “Quando la bambina è nata aveva dei problemi respiratori” continua Nandi “Non se n’è accorto nessuno, le infermiere mi dicevano va tutto bene, l’ostetrica aveva appena finito un turno lunghissimo e se n’è andata e poi non è più passato nessuno. Mia figlia è rimasta per due ore nella culla senza essere visitata, avrebbe potuto morire…” Quando si sono accorti che Eva Rose non respirava l’hanno intubata e portata in terapia intensiva mentre Nandi è stata dimessa in fretta il giorno dopo il parto. “Ho chiesto di poter restare in ospedale con la bambina ma mi hanno mandata via dicendo che non c’era posto neanche per le partorienti. Sono stata trattata malissimo per il solo fatto di voler stare vicino a mia figlia.” Intanto la neonata aveva bisogno di latte. I sanitari hanno spinto Nandi a ricorrere a quello artificiale e lei ha dovuto combattere per poterla allattare. “Sono andata a comprare un tiralatte e poi sono subito tornata indietro. È stata la settimana più orribile della mia vita, mia nonna doveva riaccompagnarmi due volte al giorno all’ospedale che era così lontano da casa. Io avevo ancora dei dolori addominali tremendi, non riuscivo a camminare. Nessuno rispondeva mai alle mie richieste di aiuto.” Nandi ha le lacrime agli occhi. Tutto quello che ci racconta rivela una ulteriore difficoltà, dovuta ai pregiudizi anche all’interno della sua stessa comunità, come se a una donna afroamericana far valere i suoi diritti non fosse permesso, se non con lo stigma del vittimismo. Nandi lo racconta, “le storie delle donne di Washington sono come quelle delle donne del terzo mondo. Una cosa difficile da mandar giù… ma la comunità spesso invece di aiutare ti condanna: perché sei senza un lavoro, senza una casa, senza un compagno, e magari sei rimasta incinta in queste condizioni, perché eri disperata e cercavi un po’ d’amore o sei caduta in una dipendenza. Ma se tieni il bambino sei una pessima madre, se abortisci sei una cattiva persona… Persino all’interno della mia famiglia se esternavo il mio dolore nessuno mi prendeva sul serio, dicevano che esageravo, e che comunque le nostre bisnonne erano schiave, partorivano e poi tornavano nei campi di cotone a lavorare…”. Eppure Nandi, sorretta dalla sua forza e dalla lucida consapevolezza delle ingiustizie subite, ha potuto mettere la sua esperienza a frutto per altre donne in difficoltà attraverso il lavoro con DCPCA: “Con loro è stata la prima volta che mi sono sentita ascoltata, supportata e forte, in grado di raggiungere degli obiettivi.” Con il suo team di altre donne che hanno avuto percorsi simili, Nandi gestisce una linea virtuale diretta di supporto alle madri, che include indicazioni sulle strutture sanitarie più adeguate e un progetto per sensibilizzare medici e sanitari sul trattamento delle donne di colore. “Cerco di battermi anche per il diritto delle donne di restare a casa per più di due settimane dopo il parto” aggiunge Nandi, “è assurdo che si sentano costrette a tornare subito al lavoro, il corpo della mamma ha bisogno di riposo, il bambino ha bisogno di lei… Ho sentito così tante donne che non credono più neanche che la loro voce sia importante. Non hanno tempo di lottare. In tante sono arrese. Quello che cerco di dire loro è quello che avrei voluto sentirmi dire io: sono qui per aiutarti, sono qui per incoraggiarti a realizzarti, siccome sei una madre single non significa che non riuscirai mai a ottenere niente. Sei forte, hai dato la vita. Sei una grande donna, ci sarà un giorno in cui riuscirai anche ad essere felice”.

Per tutto il viaggio di ritorno non riusciamo a parlare di niente, il racconto delle ingiustizie appesantisce il passaggio dalla parte “giusta” della città, e tra le luci di Capitol Hill, le ultime parole di Nandi risuonano in testa, più come una speranza che una profezia.

 

 

 

 

[1] Dati Unicef aggiornati al 2017

[2] Dati World Bank aggiornati al 2018

 

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