Il 5 gennaio scorso ho partecipato a una serata di proiezione fotografica nel comune di Saint-Nicolas (Valle d’Aosta) che frequento da molti anni ed è ormai un pezzo importante della mia vita. Nella palestra della piccola scuola abbiamo visto sfilare aquile, volpi, gipeti, pernici, galli forcelli, avvoltoi e lupi, colti in quota vicino a lariceti imbiancati o sui prati alti ricoperti di neve. Il fotografo, Davide Glarey, ha raccontato le immagini con grande bravura e un’esplicita morale di fondo: “Nessuno scatto vale il benessere degli animali”.
Una bella serata. Ho imparato molte cose e ne sono uscito con un amore ancor più grande verso la montagna, un desiderio ancor più forte di proteggerla e rispettarla; ma una cosa su tutto mi ha colpito. A un certo punto è apparsa la foto di una lepre variabile, piuttosto comune nell’arco alpino: in estate il mantello è bruno mentre d’inverno vira interamente al bianco (a parte due vezzose macchie scure in cima alle orecchie) per mimetizzarsi e difendersi dai predatori. Il dettaglio interessante è che la muta avviene comunque a ogni cambio di stagione, anche se non nevica; di conseguenza, per evitare di fungere da ideale bersaglio nell’erba nuda, la lepre deve salire più in alto. “Ma non può salire troppo perché deve anche trovare cibo”, ha aggiunto Glarey; “e poi a un certo punto la montagna finisce”.
A un certo punto la montagna finisce. Nella sua semplicità, la frase descrive perfettamente la cultura del limite che dovremmo praticare e che di fatto è sempre stata connaturata alle società di montagna. Il progetto di sfruttamento in crescita perenne si schianta contro un dato di fatto evidente fin dalla pianura: anche le vette più alte terminano: i beni comuni naturali non sono infiniti, anzi l’esatto opposto. Qui si apprezza visivamente l’assurdità di tanti principi messi a fondamento della nostra società: dalla pretesa che la Terra sia materia inerte da plasmare per fini di mercato all’obsolescenza programmata degli strumenti, alla concorrenza come presunta etica universale e giustificazione di ogni atto.
In Assalto alle Alpi (Einaudi 2023) Marco Albino Ferrari spiega:
Ogni anno i giorni-neve si verificheranno a quote sempre più alte. Molti comprensori dovranno abbandonare l’idea della pista di rientro in paese. Bisognerà portare gli sciatori sulle piste più in quota e poi, a fine giornata, riportarli giù al parcheggio. E così nuove infrastrutture di cemento armato destinate a diventare il monumento di una rincorsa fallita. Il cemento rimane per secoli. Continuo a chiedermi: perché investire risorse pubbliche per impianti che tra dieci anni saranno inservibili? E la risposta è sempre la stessa: perché si è sempre fatto così […].
E perché, aggiungo, simili opere attraggono da sempre interessi politici e collusioni con la criminalità organizzata. Basti pensare che sulle Alpi vi sono oltre 12.000 impianti di risalita meccanici, di cui molti in disuso e che andrebbero bonificati (questa sì sarebbe opera buona): Mountain Wilderness ne ha compilato un inventario. L’impatto antropico di tale invasione è gravissimo e si fonda su decenni di cultura del consumo illimitato, per fortuna qui e là bilanciati da interventi di difesa del territorio.
E con ciò torniamo alla lepre. Non si tratta di commuoversi sterilmente: l’equilibrio impossibile che questo animale deve cercare fra nevi carenti e disponibilità di cibo è spia di un dramma più vasto, che riguarda l’intero ecosistema alpino, il quale a sua volta va inserito nel quadro del riscaldamento globale. Tutto è connesso, tutto si tiene, e di conseguenza tutto si spezza.
Per cambiare il nostro rapporto con la montagna occorre dunque infondere maggiore concretezza all’idea di turismo responsabile, che spesso rimane un po’ troppo vaga e offre il fianco a pesanti colpi di greenwashing. Occorre valutare realmente, con schietto materialismo, i danni che infliggiamo al territorio attraverso abitudini sedimentate nei decenni — perché si è sempre fatto così. E sostituirvi un comportamento cauto, umile, prudente: l’esatto contrario del modello propagandato e sostenuto finora, in cui la montagna è innanzitutto sci da discesa — con tutte le devastazioni che ciò comporta — o un parco giochi dove spassarsela, a patto che siano assicurati gli agi della città; a patto che si possa consumare allo stesso modo, senza che la quota influenzi sguardo o abitudini come invece potrebbe fare. Usare la montagna e usarla senza rischi, lasciandola estetizzata sullo sfondo, ignorando volutamente i conflitti e i problemi che la attraversano — ignorando chi vi abita e come.
Ma, aggiunge Ferrari, andare in alta montagna “è un’altra cosa: vuol dire prendersi la responsabilità di una scelta, decidere il percorso o affidarsi a una guida, prepararsi, studiare preventivamente una cartina; e poi partire in salita, con gli scarponi, o con gli sci e le pelli, o con le ciaspole, o con le scarpette da roccia, sapendo bene di entrare in un luogo che ti chiederà molto e ti darà altrettanto”.
Il prossimo appuntamento, simbolico per molti versi — unisce una città ferita dalla speculazione, Milano, a un luogo ferito dal turismo irresponsabile, Cortina — sono appunto le Olimpiadi invernali del 2026, “i Giochi invernali più insostenibili di sempre” come chiosa il Laboratorio OffTopic. Un dettaglio ha bucato la coltre di indifferenza che spesso avvolge il tema: la famosa pista da bob, emblema del cinismo, dello spregio verso il territorio e della palese incompetenza: 81,6 milioni di euro (denaro pubblico) per erigere un’opera dannosa e senza futuro, come peraltro ha sostenuto lo stesso Cio.
E siccome tutto si tiene, il tema riguarda anche chi non vive in quota e nemmeno ama andarci: non solo per ragioni ambientali ma anche perché queste pratiche rispettose sono estendibili ovunque, si applicano alla pianura come alle coste, invitano a un rivolgimento radicale delle nostre abitudini.
Il 10 febbraio in piazza Lodi a Milano partirà un corteo di protesta: perché a un certo punto la montagna finisce.
Giorgio Fontana è uno scrittore; vive a Milano.

sono figlio della guida Giuseppe Oberto, nei suoi anni ha fatto 27 volte la parete est del monte Rosa da Macugnaga ora bisogna stargli alla larga per pericoli caduta sassi e seracchi ,sono 40anni che la montagna muore ma tutti fanno finta di nulla,la cosa importante e costruire impianti mega per poi abbandonarli!!!!!e distruggere quello che è la natura, vedi le olimpiadi passate diTorino,alberghi a 5 stelle abbandonati,pista di bob usati 15 giorni poi lasciati a marcire insieme
a trampolini olimpionici.La montagna è una cosa diversa è natura pace e senza cellulare!!!!!!!!!ecco cosa è l’ interesse del giorno d’oggi buona giornata