Cronache da Nordest #7. L’abbandono, di Valentina Durante
Inoltre esanime giace il corpo di un tuo amico (ahimè l’ignori),
che col suo cadavere insepolto contamina tutta la flotta,
mentre tu chiedi responsi e indugi sulla mia soglia.
Riportalo prima alla sua dimora e componilo nel sepolcro.
Conduci nere vittime: e siano queste la prima espiazione[1].
Virgilio, Eneide, VI, 149-153
Le ossessioni sono i demoni di un mondo senza fede[2].
Emil Cioran, L’inconveniente di essere nati
Ciascuna vede l’altra fare proprio ciò ch’essa stessa fa;
ciascuna fa da sé ciò che esige dall’altra ; e quindi fa ciò che fa,
soltanto in quanto anche l’altra fa lo stesso;
l’operare unilaterale sarebbe vano, giacché ciò che deve accadere
può venire attuato solo per opera di entrambe[3].
W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito
Si dice che ciascuno muore tre volte: quando il cuore si ferma, quando il corpo viene sepolto e quando il nostro nome viene pronunciato per l’ultima volta.
Per i Greci e i Latini la prima morte era nell’ordine naturale degli eventi e, cosa importante, non era una nozione astratta, ma sempre riferita a qualcuno: la morte è, per chi resta, sempre personificata, è il morto; morire rappresenta per chiunque il limite dell’estensione possibile del proprio agire; per l’eroe, la verifica ultima del proprio valore, del proprio posto nel mondo e nella storia. Achille tenta inizialmente una sortita ironica, carnevalesca, travestendosi da donna per sfuggire al destino, ma l’ingegno multiforme di Ulisse lo cerca, lo scova, lo smaschera. Così ogni cosa torna al suo posto e quando sarà tempo di vendicare Patroclo non ci sarà più dubbio nel cuore del Pelide. Combattere, vincere, morire.
La terza morte racconta di quanto abbiamo costruito in vita, dà un’idea della profondità e della fertilità dei legami coi nostri discendenti, di sangue o spirito. A ben vedere, è legata a Kleos, gloria o fama che dir si voglia, a ciò che gli altri sentono dire di noi e che contribuiscono a perpetuare. Fino a che anche l’ultima eco si assopisce e piano si spegne. È il tipo di morte che la poesia sovra tutto cerca di sconfiggere, eternando nel racconto il nome e le storie ad esso legate. Uno fra tanti: è grazie al monumentum verbale da lui stesso eretto che Orazio può dire non omnis moriar, non morirò del tutto (Odi, III, 30, 1-6). E lo stesso vale per i personaggi di cui canta.
Con la seconda morte la questione si complica un poco, e si fa più amara: perché laddove non si dia sepoltura del corpo, viene a mancare un tassello della storia, quello che ne dà, sotto un certo rispetto, compimento: senza sepoltura l’ordine non viene ristabilito e l’anima del defunto non può trovare pace né, dunque, può esserci equilibrio nel mondo dei vivi. L’episodio di Elpenore nell’Odissea (XI) e di Palinuro nell’Eneide (VI) sono di sufficiente e potente chiarezza.
L’abbandono, ultimo romanzo di Valentina Durante, è un libro che sta a metà tra la letteratura di finzione e quella mitografica o, detto altrimenti, tra l’invenzione e la ripetizione; e l’anima ritmica del testo si muove con precisa alternanza tra strofa e ritornello, fino a perfetto compimento. Soprattutto, racconta una storia che sta in un prezioso equilibrio di tensioni tra i tre motivi che abbiamo elencato sopra, ai quali viene ad aggiungersi un elemento decisivo, quello del riconoscimento.
Anna, copywriter, dopo la fine della relazione col marito, torna a casa del padre, da anni vedovo e recentemente rimasto solo anche della compagnia della sorella, ora in casa di riposo e che all’epoca della morte della cognata si era trasferita e ne aveva ricoperto il posto nella gestione della casa, dei bambini Anna e Stefano, di suo fratello. L’arco temporale principale copre una manciata di ore, dal tramonto alla notte, fitte di dialoghi serrati tra Anna e il padre e di riflessioni puntigliose della stessa Anna che è la narratrice in prima persona; a far deflagrare il racconto ci sono numerose analessi, vere divagazioni rammemoranti che giusta la loro natura di reperti e indizi danno al lettore i mattoncini, necessari ma non sufficienti, per ricostruire una possibile versione della storia familiare di Anna; simili più ai quadri di una seduta analitica che ai capitoli di un memoriale. Il ritorno a casa, già impegnativo per la cura di cui il padre, ipocondriaco e diabetico, ha bisogno, è anche uno scontro tra due diverse forme di ossessione: la necessità della donna di indossare sempre dei guanti bianchi, da un lato, e dall’altro il bisogno del padre di compulsare i verbali di morti non riconosciuti né reclamati nel sito del Labanof.
Quando prima si accennava alla doppia identità del romanzo, si alludeva anche alla possibilità di vedere in atto due diverse modalità narrative, due opposte forme del movimento: da un lato – parlavamo di mitografia – la stasi e la ripetizione, che vengono nel romanzo veicolate dal decentramento operato attraverso i verbali e attraverso il ricorso alle azioni ossessivo-compulsive e sacrificali dei personaggi (la figlia, il padre, la zia); dall’altro lato – parlavamo di invenzione – l’incedere e il procedere, che assumono nel racconto la forma della tensione tra i personaggi (le azioni di controllo, quelle di cura, le fughe), del racconto per anacronie e della metanarrazione (i racconti che scrive la figlia per il padre).
L’abbandono emerge dall’azione reciproca di queste varie forze che spingono e trattengono, lacerano e suturano, coprono e svelano, in un clima che è generalmente di ribollente ma muta inquietudine, tipica delle zone di penombra delle case con gli scuri accostati, le tende di panno tirate per tenere fuori la canicola estiva, mentre dentro si soffre per il caldo e la noia, e gli umori si mescolano agli umori.
È in un luogo simile – che oltre ad essere fisico è anche simbolico – che si muovono i personaggi del romanzo, protagonisti di una tragedia spuria la quale, oltre a non veder sanguinare mai definitivamente, nell’assenza di ostentazione che le appartiene manca anche di suscitare ogni possibile catarsi.
Il potere che scegliamo di accordare alle persone che amiamo è direttamente proporzionale alla loro capacità di farci sentire splendidi e subito dopo indegni, e tutto sempre stretto nelle loro mani. Le mani di mio fratello, al tempo, sapevano contenere un mondo intero.
Se di purificazione si può parlare, sarà allora entro i limiti della capacità di affrancarsi dalle scorie relazionali, di rendersi liberi, di non assoggettarsi; e in questo senso l’orizzonte ultimo entro il quale si possa attuare una vera indipendenza non può che essere intersoggettivo. Ecco dove trova misura e agio il processo del riconoscimento, cioè quella attività che, hegelianamente, fa sì che io sia me stesso nell’altro o, detto altrimenti, che ciascun soggetto della coppia in relazione ritrovi se stesso nell’offerta-che-si-nega dell’altro: l’identità è relazione.
I cadaveri insepolti, il freddo soma verbalizzato che giace come credito non riscosso sul tavolo dell’obitorio e attende di essere smaltito, così come la macchia sotto l’unghia che rimane spia inaudita di thanatos, gridano con la voce d’oltretomba descritta da Omero, fatta di strida e lamenti, che per andare oltre, per superare la fase della solitudine ossessiva e compulsiva, ma anche quella del controllo paracarcerario, ma anche quella della crudeltà narcisistica, ci deve essere riconoscimento. Del padre verso la figlia, della zia verso la nipote, dei due fratelli l’uno verso l’altro; i quali attori, invece, sono raffigurazioni di godimento malcerto e insoddisfatto, che tracima ora nella dimensione ossessiva della vista che si fa dittatura scopica, ora nel silenzio perpetuato che si fa negazione carnefice, ora nella curiosità del corpo e per il corpo che si fa azione incestuosa, e perciò straziante.
Lo sguardo analitico di Valentina Durante getta una luce che, se non è indulgente, tantomeno cede alla prurigine o al moralismo; non siamo di fronte al tentativo di mostrare le storture della famiglia contemporanea rispetto a un presunto ideale che è, caso mai, di pertinenza della narrazione pubblicitaria o di ogni propaganda di regime; c’è invece e per fortuna la cautela di chi riconosce in ogni ambiente umano – e a maggior ragione là dove i confini sono ristretti, le coabitazioni lunghe e forzate – un potenziale esplosivo dovuto alla presenza di ineliminabili tensioni, consustanziali all’umano. Così si definisce senza fatica anche l’identità de L’abbandono, un romanzo psicologico in cui la nosografia esistenziale tipica di tanti romanzi contemporanei lascia lo spazio narrativo a una dimensione più performativa, in cui ad emergere sono gli attori, non il loro cantore. Che è necessariamente un fingitore (non predicabile di mendacità) perché partecipe del sistema osservato.
Quel giorno ho imparato una cosa. Ho imparato che una parola può plasmarne un’altra, spesso contraria, e che questa seconda può prendere il sopravvento sulla prima facendo esistere un’altra realtà, del tutto diversa. La parola antica si ritroverà agonizzante, mentre la parola nuova s’imporrà vitale.
Nella tessitura del romanzo, la natura di ricostruzioni non veritative dei ricordi è myse en abyme della stessa istanza narrativa che li esprime; Anna, inventando il riconoscimento di morti a lei ignoti, mette a tacere le grida disperate che agitano le stanze di casa. Da questo punto di vista, allora, metanarrativamente L’abbandono è anche la dichiarazione di potenza dell’attività di scrittura, che sembra potersi riconfigurare come esperienza di cura, gratuita e salvifica.
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Intervista a Valentina Durante
L’abbandono esce per la Nave di Teseo dopo quattro anni da Enne, pubblicato da Voland. Un libro che ti aveva permesso di sperimentare uno diverso genere narrativo rispetto all’esordio, quello epistolare, e che avrebbe meritato più attenzione proprio per l’equilibrio che avevi raggiunto tra le parti in gioco. In questo, torni ad una narrazione più classica. Ci racconti qualcosa di più di questi quattro anni, per genesi e lavoro e riscrittura o altro che tu voglia condividere?
Ho firmato il contratto con La nave di Teseo nel maggio del 2021, sei mesi dopo l’uscita di Enne. Teoricamente, avrei potuto lasciar riposare il romanzo in attesa dell’editing, invece ho riaperto il cantiere per altre due riscritture. Non è questione di ossessività, e neppure di perfezionismo. L’aspirazione al perfetto nel senso di “fatto” (“facere”) “fino in fondo” (“per-”) presuppone una incompletezza alla quale si debba porre rimedio, mentre qui si è trattato del desiderio di cogliere le opportunità che il testo alla rilettura mi offriva. Hai presente quel che scrive Eliot sui classici? Non solo influenzano le opere dei contemporanei sotto forma di tradizione imprescindibile, ma sono le opere dei contemporanei stessi a esercitare un’influenza su di loro, a far sì che tutto l’ordine pregresso debba “essere modificato, magari di pochissimo”. Sospetto accada similmente per il corpus di uno stesso autore; in tal senso, noi diventiamo classici rispetto a noi stessi (nel presente), e posteri rispetto a noi stessi (nel passato), perché la produzione di un nuovo testo ci costringe ogni volta a ripensare, magari di pochissimo, tutto quanto abbiamo scritto in precedenza. Pensa alle molte riedizioni volute da Pontiggia; pensa ad Arbasino… Diciamo allora che ho continuato a riscrivere L’abbandono perché nel frattempo ho scritto altro: un quarto romanzo, poi una bozza avanzata del quinto… E Immaginare le storie, l’atlante visuale compilato insieme a Giulio Mozzi.
Ho letto numerosi interventi riguardanti il tuo romanzo. In molti di questi si fa riferimento al tuo testo come a una rappresentazione della famiglia disfunzionale. Ti ci ritrovi? La mia impressione è che tu sia, come sempre, capace di cogliere la struttura profonda di ciò di cui parli, e cioè proprio come le cose funzionino in una delle possibilità verosimili, e senza porti in posizione giudicante. Nel caso specifico, a mio avviso tu ritrai una forma precisa di famiglia veneta, qualcosa di riconoscibile e tipico, e che va al di là delle azioni specifiche che fanno la trama del tuo testo.
Al momento di promuovere L’abbandono si è deciso di calcare sulla storia di un amore tossico all’interno di una famiglia disfunzionale perché era la narrazione che più aveva chance di attirare un pubblico. Non mi stupisce che le restituzioni abbiano ricevuto un’imbeccata in tal senso. In realtà, la domanda su cui il romanzo poggia è più radicale: perché non sono possibili relazioni umane completamente disgiunte da un certo grado di violenza? L’abbandono parla di guerra più di quanto non parli di famiglia, o meglio parla di famiglia perché la famiglia è l’espressione fondativa del nostro istinto sociale, quello in cui meglio si esprime la tensione fra il desiderio di cura, unione e compagnia – il volere il bene dell’altro – e l’istinto alla distruzione, al possesso e all’incarceramento – il volere l’altro tout court, per disporne come faresti di un possedimento. La Bibbia apre con un fratricidio, non con l’invasione di qualche terra da parte dell’esercito di Israele. Considero le storie famigliari le meno ombelicali in assoluto perché le ritengo essenziali, pertinenti l’essenza delle relazioni umane. Ne La proibizione, queste relazioni erano indagate con strumenti allegorici e l’irruzione di un detonatore fantastico rendeva la narrazione più astratta ed emblematica e i personaggi quasi dei “tipi”. Con L’abbandono mi allontano da una messa in scena vistosamente programmatica per approdare a un realismo più sensibile, sfruttando il contesto famigliare che meglio conosco: piccolo borghese, di quella classe media divenuta ormai sfranta e svanente, nel contesto territoriale veneto; un contesto che diventerà poi centrale nel quarto romanzo. Rendendo il particolare sempre più particolare mi sembra di riuscire meglio nello sforzo di presentare domande anziché risposte, di offrire evidenze reali anziché linee interpretative.
Ho avuto la fortuna di seguirti nella tua produzione letteraria fin dall’inizio, percependo così le costanti e le evoluzioni non già di stile – secondo me tu nasci matura come autrice – quanto di dimensioni e stratificazioni dello sguardo sulle cose. Complice forse la collaborazione con la Bottega, mi pare sia più sviluppata la tentazione di costruire quadri, subendo – e restituendolo nel testo – l’influsso dell’arte pittorica. Credo che grazie a questo sia ancora più efficace la tua scelta di raccontare ciò che turba, ciò che insieme è inquietante e osceno, cioè il rimosso del familiare e il fuori scena.
Mi appagano poco i romanzi costruiti tradizionalmente, con un arco narrativo che da un punto “A” (rottura dell’equilibrio) arriva a un punto “B” (creazione di un nuovo ordine o scioglimento), mentre mi attira il concetto di romanzo come oggetto spurio e spazio da esplorare; di qui, la tendenza a lavorare per scene o quadri tenuti insieme dal montaggio piuttosto che da una trama forte. Non che la trama non ci sia, ma somiglia più a un avvitamento, un carotaggio progressivo della materia narrata oltre che dell’interiorità ed esteriorità dei personaggi (e intendo esteriorità come “soma”: fisicità in azione e non semplicemente descritta). Questo inabissarsi fa sì che le domande iniziali (riusciranno sorella e fratello a trovare una forma di coesistenza che non li devasti?) divengano ancora più complesse, stratificate, e che la risposta non somigli in nulla a una soluzione definitiva, e a ben vedere neppure a un compromesso, ma a una forza dinamica che periclita nel continuo smottamento causato dal dubbio e dalla possibilità.
Quando ti leggo, non soltanto nei romanzi ma anche nei post (troppo rari) o nella newsletter che hai ripreso a spedire con periodicità (possiamo usare questo spazio per invitare, chi lo volesse, a iscriversi qui), ho la sensazione costante che tu appartenga alla linea autoriale di lungo corso, che va da Dante e arriva a Zanzotto, per cui la lingua è una sorta di oltraggio che l’uomo compie nel desiderio/hybris di dire il reale nella sua ultima radice, e che tuttavia sia impossibile non provare a farlo, non cercare quella oltranza che, pur non realizzando quella tensione, riesce tuttavia a compiere qualcosa nel discorso, farsi creazione autosufficiente, inserirsi quindi più nella praxis (il fine dell’azione è intrinseco) che nella poiesis (il fine è esterno, nella produzione di un oggetto).
La scrittura è sempre una forma di hybris perché sconfina dall’atto di invenzione (da “invenire, “trovare”: qualcosa che implicitamente già esiste) per accarezzare il sogno demiurgico dell’uomo che crea per il puro fatto che sta creando. Il magic moment in cui la scrittura talvolta sembra “farsi da sé”, o in cui rileggendoci troviamo nel testo qualcosa che non avevamo pianificato di dire (o immaginato di volere / poter dire) è la prova che proprio nel fallimento del codice lingua come traduttore fedele del reale, proprio in quell’impotenza e scollamento rispetto alle ambizioni, si rivela l’opportunità per la vera creazione artistica. La famosa e molto citata frase beckettiana (“[…] riproverò. Fallirò meglio”) procura di tenersi ben stretto il fallimento: l’evento germinale dell’opera, la scintilla illusoriamente divina al di là dell’intenzione umanissima.
La tua narrativa mi piace per vari motivi, inelencabili completamente qui, per ovvie ragioni dimensionali. Di due però faccio menzione: l’uno, è che non trovo alcun intento consolatorio nei tuoi testi; l’altro, è che simile lucida purezza si serve di una scrittura che è molto materiale, solida, corporea e che parla di cose materiali, solide, corporee. L’insieme di questi due atti di forza causa qualcosa di profondamente straniante nel lettore, che riconoscendosi simile ai personaggi perché simile è la biologia e le sue declinazioni pulsionali, sperimenta una inconsueta esposizione allo sguardo del narratore, come fosse una cavia sul tavolo dello sperimentatore. È un’interpretazione plausibile?
Lo è e ti sono grata per averlo rilevato. Al momento mi impongo alcuni punti fermi, per quanto in uno scenario in divenire costante: 1) no a una scrittura percepibile immediatamente come “letteraria” e a una prosa che richieda la decifrazione della pagina; 2) sì alla massima comprensibilità intesa come massima precisione; ne consegue che il sinonimo non può esistere e che la cosa detta si ritrovi messa in luce nella sua evidenza, non nella valutazione morale impostale da chi narra. 3) cura per l’aspetto ritmico come incantatorio veicolo di senso facendo però attenzione che non si trasformi in vezzo o maniera, quella scorciatoia in cui l’autore sembra citare (parodiare?) sé stesso. 4) infine, e sopra tutto: coscienza dei propri mezzi e dei propri limiti, quella sana autocritica che ti tiene al riparo dal – da me temutissimo – velleitarismo.
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[1] Trad. di Mario Ramous
[2][2] Trad. di Luigia Zilli
[3] Trad. it. di Enrico De Negri
Alberto Trentin è nato a Treviso. Ha pubblicato varie raccolte di poesia. L’ultima si intitola Gli attimi attigui (Digressioni, Udine 2022). Scrive per Minima&moralia e Finnegans. Dirige la scuola di scrittura ri-creativa Alba Pratalia con Paolo Malaguti. il suo blog Epicentri – Conversazioni sulla Letteratura è al seguente indirizzo: www.albertotrentin.it