Dall’inizio: risposte sulla poesia. Silvia Secco
Una nuova puntata della rubrica a cura di Anna Toscano. Dieci domande a poetesse e a poeti per cercare di conoscere i loro primi avvicinamenti alla poesia, per conoscere i loro albori nella poesia, quali siano stati i primi versi e i primi autori che li hanno colpiti, in quale occasione e per quali vie, e quali i primi che hanno scritto. Le altre puntate sono qui. foto copertina © Anna Toscano
Qual è la poesia che hai incontrato, e quando, che ti ha fatto pensare, per la prima volta, che fosse qualcosa di fondamentale?
Anna, mi concedo questo tempo (rimandato tanto a lungo) di risposta alle tue domande, e non riesco a non pensare ad alcuni dei tuoi versi da “Doso la polvere”: trovo passi e trovo pensieri:// perché io penso con i piedi. Credo sia qualcosa che ci accomuna. Bisogna andare a ritroso, ritornare ai luoghi, e qui tornerò spesso agli anni per me cruciali del liceo artistico (A. Martini, Schio, Vicenza, 1993 – 1997). In realtà a farmi pensare per la prima volta alla poesia come a qualcosa di fondamentale, è stata una parola: Rosa. Il mio insegnante di lettere (una incredibile, immeritata fortuna: il poeta e studioso Enio Sartori) la scrisse alla lavagna il primo giorno di scuola. Scriveva questa Rosa e parlava del ventaglio evocativo a dei ragazzini bravini a disegnare, che avevano scelto una scuola un po’ speciale simile a loro, e che mai fino a quel momento avrebbero immaginato altro dal fiore, altro dalla cosa. Un vero salto sulla sedia per me: il primo di una lunghissima, benedetta serie. La parola poteva accogliere e aprire infinitamente mondi di suono, senso e significato: la cosa era la cosa ed era altro nella sua potenza. Una vera rivelazione, una rivoluzione stupefacente e meravigliosa. Immediatamente dopo, nel varco ormai aperto, ho incontrato Andrea Zanzotto e questo passo, in particolare, da Dietro il paesaggio (Quanto a lungo): vi ho lasciate lassù perché salvaste/ dalle ustioni della luce/ il mio tetto incerto/ i comignoli disorientati/ le terrazze ove cammina impazzita la grandine:/ Ma ne dirò e ripeterò.
Qual è il primo autore o autrice che ti è rimasto/a in mente come poeta?
Andrea Zanzotto certamente ha rappresentato per me il primo incontro con la poesia e si è trattato, come ho già avuto modo di scrivere in un piccolo omaggio curato per il blog di Versante ripido (“Il logorante continuo confronto con un inizio”. Una selezione a cura di Silvia Secco) di un immediato, sconvolgente e straordinario innamoramento.
C’è stata una persona o un evento nella tua infanzia, o giovinezza, che ti ha avvicinato alla poesia? Chi era? Come è accaduto?
Enio Sartori (autore – fra gli altri – dello splendido saggio critico Tra bosco e non bosco, ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il galateo in bosco di Andrea Zanzotto, Quodlibet 2011) è stato il mio insegnante di lettere lungo tutto il corso di studi al liceo. Si è trattato di un incontro fondamentale che, come gli ho detto una volta, mi ha allargato il campo di visione, lo ha allagato. A quindici, sedici anni avevo modo di studiare a scuola la poesia dei poeti vivi, con le loro parole-luce così piantate nel mondo reale e a me contemporaneo, a me riconoscibile, somigliante. Zanzotto per primo, poi Erba, De Signoribus, lo stesso Sartori.
La lingua della poesia mi ha abbracciata sempre come fa ora: come un cielo naturale, che immediatamente io sento parente. Non avverto la necessità di spiegazioni quando leggo (spesso a voce alta) la parola poetica. Resto con le braccia aperte e mi lascio prendere, la sento e basta come un incantamento: è sempre stato così.
Quali sono i primi libri di poesia che hai cercato in una biblioteca o in una libreria?
L’edizione, appena uscita, del 1993 Oscar Mondadori delle Poesie (1938 – 1986) di Andrea Zanzotto a cura di Stefano Agosti è stato il primo libro di poesia che ho acquistato. Copio qui un passaggio dall’articolo di cui scrivevo prima, perché risponde nel modo migliore alla domanda. Avevo quindici anni e ricordo tutto esattamente. Al mattino, a lezione, avevo imparato che i poeti erano vivi, che uno di loro viveva a un’ora di distanza dalla mia casa e dalla mia storia, dall’altra parte del corpo massiccio montuoso, maestà di corpo e mostro al quale entrambi, in qualche modo, guardavamo: luogo e non luogo. (Il massiccio del Grappa).
Le parole di Andrea Zanzotto, lette allora dalla copia del libro di Enio Sartori, mi avevano colpita come un pugno in pieno stomaco, tanto che poi possedere un intero volume di parole-pugno, di parole-mondo, mi era parso necessario come respirare, procurarsi il cibo. Così, dopo la scuola, corsi a comprarlo. Mi ricordo tutto esattamente: “Andrea Zanzotto, per favore, le poesie”. Il libro è talmente segnato, sottolineato, logorato, che occupa un volume doppio nella mia libreria. Mi ha accompagnata sempre, da Vicenza a Bologna (dove vivo ormai da venticinque anni), e innumerevoli volte è stato con me nei viaggi dei treni e degli autobus, fra le città. Conosco a memoria molti passaggi: se cerco qualcosa, so esattamente dove aprire. Ho moltissimo amore per i libri, così come per le cose (che non sono mai soltanto cose). A volte penso al loro destino per il quale dureranno tanto a lungo dopo di noi, chissà dove e chissà come, e ne ho malinconia.
Il primo verso, o la prima poesia, che hai scritto e che hai riconosciuto come tale: quando è stato e in quale circostanza?
La prima cosa mia di suono di cui ho ricordo, in realtà, l’ho cantata prima di scriverla. A nove anni e mezzo sono diventata zia (ho sette nipoti di sangue, diversi altri di cuore). Anna, la figlia maggiore di mia sorella, è stata allora per me uno spavento prodigioso. C’era questa diversa sorellina minore non mia, ma che spesso avevo a casa con i miei genitori. A me spettava addormentarla il pomeriggio. Ero brava, molto premurosa: ci sdraiavamo sul letto e io le accarezzavo la fronte, lei chiudeva gli occhi. Per lei avevo inventato questa ninnananna: Fai la nanna dolce Anna/ dormi, dormi, non ti svegliare/ piccolo caro dolce amore./ Noi non ti sveglieremo mai/ e tu non ti sveglierai./ Sei un fiore fra i prati/ fai sogni d’oro, sogni argentati,/ sogni stupendi, dormi tranquilla/ in un buco scuro sei una scintilla./ L’ho scritta nel mio diario di allora (1988): chissà se lei la ricorda. Poi, molti anni dopo, nel periodo della visione spalancata di cui dicevo sopra (la data del mio quaderno riporta il 1995) è arrivata la prima Poesia che posso nominare tale, ed è arrivata in linguamadre. In questa poesia racconto dell’imbrunire in inverno e di mia mamma Bruna Lena che torna dopo avere preso la legna per la stufa: di lei nel mio guardarne il moto. (Brunalena, Lenabruna/ Nella foschia che si leva / che ti schiuma, ti affievolisce / la figura. / Quasi quasi ti spaventa / questa umidità che si rapprende / nell’imbrunire di mollica.// Vieni avanti, buona Lena? / Oramai tu spunti appena / dal mantello di nebbia. // Frammento di donnina / annebbiata virgoletta. / Avanti, vieni? / Che io ti possa vedere, Brunalena! / Che io ti possa vedere, Lena-Luna.)
(In L’equilibrio della foglia in caduta, CFR, 2014)
Brunalena
Brunalena, Lenabruna
Nela bruma che se alsa
che te sbiuma, te svampisse
la figura.
Quasi quasi el te spaura
sto morbiasso che se ingruma
nel brunire de molena.
Viento vanti, bona Lena?
Daromai te spunti pena
dal tabaro de burana.
Sciantinèa de femeneta
inibiada virgoletta.
Vanti, viento?
Ca te veda Brunalena.
Ca te veda, Lena-Luna.
Quando poi i versi sono arrivati copiosi, quali sono stati i tuoi pensieri?
Una volta il poeta Luigi Paraboschi, senza conoscere la storia della mia formazione artistica, ha scritto che nel mio fare poesia si fa evidente una specie di sguardo pittorico e che uno dei tratti caratteristici sembra essere questo lasciare libera la mano. Gliene sono grata, e mi riconosco. Ho sempre considerato la poesia un accadimento: qualcosa che scaturisce in maniera e misura assolutamente libere, in un tempo e in modalità misteriosi e non programmabili. Ho accolto, fin dall’inizio, esattamente come accade ora. Resto cava, in ascolto, e lascio che arrivi. Credo che la scrittura, la mano che fissa il canto, sia soltanto il termine di questo accadere. Tutto ha luogo molto prima per me, nello sguardo, nella percezione delle cose del mondo. Nella nota di apertura a I morti di tutte le specie (Seri Editore, 2021) scrivo: Qualche tempo fa qualcuno mi avvertiva che l’insidia interna alla mia scrittura fosse proprio nel darsi – anche sulla carta – così: troppo vicina ad una forma semplificata di oralità trascritta. Il fatto è che però le cose del mondo (per lo meno al grado attuale del mio stare qui, e considerato lo “scrivere” non disgiunto da uno scriverevivere) sono tutte un canto che mi arriva: è questo il modo in cui io percepisco il mondo, è questo il modo in cui poi lo traduco.
Quando hai avuto tra le mani le tue prime poesie pubblicate, cosa è accaduto?
Purtroppo, Anna, in questo rispondere spesso mi ripeto: ho nei confronti delle cose un sentimento profondo. Da Eugenio De Signoribus ho mandato a memoria alcuni versi che dicono dell’accesso al cuore delle cose. Cose come un libro, ad esempio, un quadro, una fotografia, hanno per me un valore in alcun modo stimabile. Si tratta del flusso del mondo, e dell’arte che lo ferma (utopicamente, umanamente) in un punto concreto, duraturo nel tempo, eppure mai terminale. Al cospetto di un libro o di un’opera d’arte, infatti, la fissità oggettiva che etichetta e chiude viene immediatamente meno, e questo accade per via dello sguardo e della percezione del guardante: un soggetto con un proprio singolare accedere interpretativo, che riapre margini e significati, iperbolicamente. Il pacco con le copie di L’Equilibrio della foglia in caduta, la mia prima raccolta edita, è arrivato a casa per posta in ritardo: il giorno prima della presentazione al Teatro Navile di Bologna, il 20 marzo 2014. L’ho guardato chiuso per almeno dieci minuti. Credo si tratti per tutti gli autori di una emozione difficile da tradurre in parole. La Scena 4 di I morti di tutte le specie si apre con alcuni versi che parlano dell’acquagranda (e che, ora lo saprai, sono dedicati a te e a Gianni), nei quali dico che i libri sono come figli. La Foglia è stato il mio primo figlio di parole e di carta, e ne ho due sole copie: purtroppo non è più reperibile in commercio.
La poesia per te è più di una fede o quasi una fede?
È il linguaggio del mondo. La lingua con la quale il mondo mi parla, l’unica lingua con la quale io sappia restituire qualcosa a questo mondo. Non so esimermi dal farlo. Non sono capace di allontanarla o ignorarla. Mi manca immensamente se non la trovo attorno a me e per questo la ricerco nelle parole-luce degli autori che amo o di quelli che incontro.
La poesia inizia?
Credo si tratti di una prosecuzione per me. Internamente, forse, trova origine nella faglia, nello sbrego, in qualche squarcio, nella ferita che lascio aperta. Il mondo è il magma che lascio entrare: il dolore o la gioia, qualcosa che vedo e che vivo. Un sciantiso. Ma si tratta di un frammento, un minimo nel canto continuo: una parte del corso che io (proprio io in questo tempo e chissà per quale motivo) sono chiamata a segnare.
La poesia finisce?
Se trova termine (e formalmente lo deve trovare, almeno sulla carta: esiste un momento, che riconosco, nel quale il punto di chiusa in ultimo verso mette il segno di fine), la poesia per me rimane potenzialmente sempre una materia mobile, una sostanza liquida. Cerco di portarla alle persone attraverso la voce, a volte anche attraverso il canto e il suono. In questo tentativo, spesso accade che la scrittura si trasformi in qualcos’altro, e che la parola torni ad una sostanza di moto più che di stato fissato una volta per tutte. Non credo esista alcun legislatore in poesia, così come nell’arte in genere, e che la riscrittura (il nuovo canto), sia comunque possibile e possa essere accolta come facoltà. D’altronde anche la sola rilettura apre nuovamente e continuamente il ventaglio: la trasformazione, la trasfigurazione, l’altro dal conosciuto, l’altro dal dato rappresentano quello in cui credo.
Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Un’ampia parte del suo lavoro è dedicato allo studio di autrici donne, da cui nascono articoli, libri, incontri, spettacoli, corsi, conferenze, curatele, tra cui Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza e Con amore e con amicizia, Lisetta Carmi, Electa 2023 e le antologie Chiamami col mio nome. Antologia poetica di donne vol. I e vol. II. Molto l’impegno per la sua città, sia partecipando a trasmissioni radio e tv, sia attraverso la scrittura e la fotografia, ultimi: 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire, con G. Montieri, 2023 e in The Passenger Venezia, 2023. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e del direttivo scientifico di Balthazar Journal; molte collaborazioni con testate e riviste, tra le altre minima&moralia, Doppiozero, Leggendaria, Artribune, Il Sole24 Ore. La sua sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, 2018; liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti fotografici sono apparsi in guide, giornali, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali.