Pubblichiamo la versione estesa di un’intervista uscita su Tuttolibri, l’inserto culturale della Stampa, che ringraziamo.
Qualche mese fa, era maggio, ho composto un numero di telefono di Sacramento, in California. Dall’altra parte mi ha risposto William Vollmann, per un’intervista che è durata un’ora abbondante. Alla fine ero, come dire, consumato; perdonate la formula non proprio elegante, ma dovrebbe rendere l’idea. Il fatto è che è stata una conversazione emozionante, per la disponibilità di Vollmann e la profondità delle cose che ha scelto di raccontarmi. Abbiamo iniziato chiedendoci come ce la fossimo passata durante la pandemia, abbiamo parlato dei suoi libri, soprattutto delle Storie dell’arcobaleno, e poi a un certo punto, scoperte le mie origini pugliesi, si è voluto informare su come si fosse evoluta la relazione tra gli italiani e i migranti albanesi. Alla fine, quando ci stavamo salutando, si è raccomandato – nel caso avessi voluto scrivergli – «di aggiungere un numero di tracciamento sulla lettera, perché a volte capita che il governo apra ancora la mia posta». Al che gli ho chiesto:
Mio Dio, perché?
Be’, perché ero sospettato di essere Unabomber. Ho visto il mio fascicolo dell’FBI ed è lungo 700 pagine, di cui 500 censurate, quindi ho potuto leggerne solo una piccola parte. Sono diventato anche un sospettato indiretto dell’11 settembre, proprio perché ero stato già sospettato come Unabomber.
Non sapevano che non avresti avuto il tempo, pur volendo, considerando la quantità di pagine che scrivi e di documenti che consulti per farlo?
Sai, stavo parlando con un agente di polizia, che mi disse: prova a prenderla dal mio punto di vista. Lavori per l’FBI, c’è stato un nuovo crimine, un nuovo atto di terrorismo, e il capo dice: ok, è venerdì sera e non puoi andare a casa finché non trovi 100 nuovi sospetti su cui investigare. Allora cosa fai? Ritorni al tuo schedario, e dici: ecco qua, ecco uno dei sospetti. È la natura umana.
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L’intervista è uscita su Tuttolibri. Due pagine, dalle quali ho dovuto ovviamente tagliare parecchia roba per esigenze di spazio. Tipo la storia di Unabomber, e altro ancora. Questa è la versione completa. Ringrazio Leonardo Rafanelli, lui sa perché.
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Da tempo William Tanner Vollmann conduce un’indagine approfondita sugli esseri umani e sul pianeta che ci ospita. Dagli anni Ottanta, attraverso migliaia di pagine di densità e sangue, ha scritto racconti, romanzi, saggi e reportage dagli angoli più disparati del pianeta. «Mastondotica» è l’aggettivo che più s’adatta alla sua opera. In Italia, da qualche anno minimum fax sta ripubblicando una fetta importante del suo catalogo. Adesso è la volta di uno dei suoi libri migliori, Storie dell’arcobaleno, uscito per la prima volta nel 1989: un intreccio di fiction e reportage che ci porta per le strade di San Francisco incrociando dolori e speranze di prostitute o skinhead. Da qui sono partito per una transoceanica intervista telefonica; Vollmann non ha una connessione internet né un indirizzo e-mail.
Prima di tutto vorrei ringraziarti per la disponibilità.
Oh, grazie a te. Da dove mi stai chiamando?
In questo momento mi trovo a Roma.
Sai, sono passati molti anni dalla mia ultima volta in Italia. Mi piacerebbe tornare e ritrovare tutte quelle ceramiche… Ricordo certi scenari del tuo paese che ho molto amato, come gli alberi di limone in Sicilia, per esempio. Ma dimmi… come hai trascorso questo periodo di pandemia?
Me la sono cavata, grazie. E tu, come hai trascorso gli ultimi ultimi mesi?
Sono contento che il tuo anno di pandemia sia andato bene. Anche il mio è andato bene, tutto sommato. Il mio studio è a circa cinque chilometri da casa mia, qui a Sacramento. Normalmente è una passeggiata poco piacevole, per via dello smog e del traffico. Quest’anno invece è stato più bello camminare da un posto all’altro. C’erano molti più uccelli e insetti.
In Italia sta uscendo una nuova edizione delle Storie dell’arcobaleno. C’è una storia a cui sei particolarmente legato, tra le altre? Intendo anche in un modo sentimentale, perché no.
Sono sempre stato molto orgoglioso di Lo zucchero giallo e di Il vestito verde; questa mattina mi stava piacendo molto anche Arancione scintillante. Alcuni racconti invece li trovo meno riusciti, come Signore e luci rosse, perché in quella fase stavo ancora cercando di comprendere meglio il fenomeno delle prostitute di strada. Certo, quello era un reportage, ed era onesto e vero per quello che doveva essere; ma andando avanti e approfondendo l’argomento e trascorrendo tempo con le prostitute, sono riuscito ad arrivare più in profondità e credo di essere in grado di creare personaggi come questi in una versione più realistica.
A quel tempo pensavo che non potevo farlo, non volevo andare oltre le mie capacità. Quando ho scritto Imperial, che come Signore e luci rosse è un lavoro di non-fiction, ero molto interessato ai ritratti dei gruppi di migranti che attraversano il confine coi cosiddetti “Coyote”. E stavo pensando che forse un giorno avrei scritto un racconto o un romanzo su una di queste persone, ma ancora lascio perdere. Ne so abbastanza per poterne scrivere un saggio, e sono ancora interessato a incontrarli e a raccontare le loro vite, ma non ho fatto molti progressi in questo caso, come invece ti dicevo prima riguardo le prostitute. Così, quando rileggo Signore e luci rosse mi dico, ok, è stata una tappa necessaria, il meglio che potevo fare in quel momento: adeguato per un reporter, ma non abbastanza per scriverci un racconto di fiction.
Il vestito verde, per esempio, era tutta immaginazione. Il libro a cui sto lavorando adesso è a metà strada. Come posso dire: mi rendo conto di essere una persona molto molto piccola in una realtà molto molto grande. E così, invece di continuare a scavare soltanto nella mia immaginazione, come ho fatto per Il vestito verde, sto cercando di imparare di più sulla politica estera americana in Vietnam, in Iraq, e così via. Per questo mi ritrovo in una situazione simile a quella che ho vissuto con Signore e luci rosse: sto cercando di interiorizzare la realtà e spero più avanti un lavoro di completa immaginazione.
Quali sono le sensazioni che provi ripensando a questi racconti, scritti più di trent’anni fa?
Sai, prima di stamattina non li riprendevo tra le mani da tanto tempo. Lavoro molto duramente sui miei libri, e mi piace pensare che quelli pubblicati siano la migliore versione a cui potessi arrivare. Dopo che li ho visti, rivisti e infine conclusi, sento che non voglio più averci a che fare. Ma a distanza di anni mi capita di riprenderli, come ho fatto questa mattina, ed è come se mi piacessero di nuovo. In questo caso, mi viene da pensare che forse non sono più uno scrittore bravo come allora, perché la mia capacità di creare… ricorrendo a un’immaginazione molto visiva, diciamo, è cambiata. Adesso sono più interessato alla struttura narrativa.
L’effetto di queste storie è di portarci per le strade e di fianco alle persone che racconti. Che traccia hai seguito per questo libro, e qual è l’aspetto a cui hai lavorato di più per rendere queste storie universali?
In quegli anni mi capitò di ragionare sul concetto di arcobaleno. Compresi che è uno spettro uniforme, con all’interno diverse sfumature di colore che finiscono l’una nell’altra. Allora mi sono detto: facciamo come con i colori, e proviamo a ricercare una varietà all’interno di qualcosa di uniforme. Il fatto di poterlo fare, o anche soltanto di provare a farlo, è stata una grande sfida per me: perché io credo fortemente che la realtà sia coerente, uniforme. E se può sembrare che non sia così, è perché la nostra mente cosciente, per aiutarci ad andare avanti nella vita, crea delle categorie ben definite. Per esempio, se attraversiamo una foresta, riconosciamo la differenza tra un sentiero e la boscaglia, e desideriamo rimanere sul sentiero; ma in realtà quel sentiero e quella boscaglia sono parte della stessa cosa. Sono tutte parti di questo immenso e complicato universo, che non possiamo sperare di comprendere fino in fondo.
Quindi, la mia idea con le Storie dell’arcobaleno era: mettiamo insieme il reportage o una rilettura allegorica della Bibbia, differenziando al massimo per arrivare a una sensazione di unità e coerenza.
Come accade spesso nella tua opera, anche nel caso delle Storie dell’arcobaleno hai seguito le storie degli ultimi, delle persone che vivono ai margini della società. Cosa ti attrae di questo tipo di persone?
Da bambino dovevo prendermi cura di mia sorella, più piccola. Ma ho fatto un pessimo lavoro, e lei è affogata. I miei genitori non mi hanno mai veramente perdonato, e nemmeno io ho mai perdonato me stesso. Continuavo a pensare a questo terribile errore. Per questa ragione ho iniziato a desiderare di incontrare altre persone che hanno fatto errori, pensando che queste persone fossero miei fratelli e sorelle.
Man mano che crescevo, ho cominciato a capire che siamo tutti fratelli e sorelle, e qualche volta le persone che hanno molti beni materiali si isolano, perché hanno paure che i loro fratelli e le loro sorelle rubino le loro cose. Così non si mettono mai in condizione di incontrare gli altri, e in qualche modo non si guardano realmente neppure tra loro. Conoscevo una signora meravigliosa, molto, molto gentile, e anche tanto ricca; si impegnava per aiutare gli altri col suo danaro. Eppure era tremendamente infelice. Più divento vecchio, più mi rendo conto che le persone sono piuttosto simili tra loro. Ecco perché se prendiamo Dante, Omero, o anche l’epica di Gilgamesh, ci rendiamo conto che ok, sono persone molto diverse da noi, ma allo stesso tempo ci somigliano. Somigliano proprio a noi, che leggiamo con grande interesse le loro storie. E le storie delle persone che hanno sofferto di più, alla fine, sono la tua storia, la mia storia, raccontate in un modo più accattivante. Tutti soffriamo, tutti arriviamo alla fine, quindi perché non dire che noi siamo loro e loro sono noi?
Tre o quattro anni fa ero in ospedale per via di un’appendicite. Nel mio reparto c’era anche un uomo ricoverato per un cancro, con una lunga storia di dipendenza dai narcotici. Nonostante avesse dolori cronici, vendeva i medicinali per comprare droghe più forti. Era ormai in fin di vita, ma aveva sviluppato una tale tolleranza agli antidolorifici che non ne riceveva più alcun beneficio. Spesso urlava per il dolore. La moglie veniva a trovarlo ogni tanto: era lei che lo aiutava a procurarsi la droga. Gli diceva: «per favore, guarisci, d’ora in poi sarò una brava moglie, non litigheremo più»… in pochi giorni io e quest’uomo legammo molto, e ho pensato: siamo fratelli. Ha iniziato troppo tardi a fare i conti con i suoi errori, e sua moglie, anche lei sta affrontando troppo tardi i suoi errori, ma gli sta mostrando amore e impegno, e ho pensato: l’umanità è questa. Penso di aver amato quest’uomo, e che anche lui mi abbia amato a sua volta.
Dev’esserti capitato di tornare al Tenderloin, il quartiere malfamato di San Francisco di cui racconti nel libro. Quanto è cambiato?
Be’, fino a poco tempo fa, fino a prima della pandemia, in diverse zone era diventato molto gentrificato. Questa è allo stesso tempo una cosa cattiva e una cosa buona. Perché è stato bello vedere i figli della prima generazione di immigrati, molti di origine cambogiana e vietnamita, che potevano andare in giro anche di notte senza timore. Ma è abbastanza triste, invece, entrare in alcuni dei vecchi bar e trovarli presi d’assalto dai figli della cultura dot-com, che vanno lì a mescolarsi a persone più umili, impegnate ad alcolizzarsi fino alla morte, sempre più sole mentre erano circondate da giovinezza e amore.
Ma la pandemia ha riportato nelle strade la miseria e alcune delle vecchie paure, e ha dato anche una nuova ragione di vita a questa gente, ai poveri. Improvvisamente sembra che ci siano più persone come loro, sembra che si siano assembrate (ridacchia, ndr).
Penso sia una cosa che ti chiedono spesso e spero di non annoiarti: si tratta della mole del tuo lavoro. Due domande: la prima è da dove prendi tutta questa energia necessaria. E poi: in tutti questi anni hai mai avuto momenti di stanchezza, o perché no, solo voglia di staccare?
Assolutamente. In modo particolare nel mio ciclo dei Sette Sogni, dove cerco di rappresentare una realtà morta da tempo, per esempio i gesuiti franco-canadesi, gli irochesi in Canada nel corso del ‘600… questo mi ha richiesto molto lavoro, molte letture, molti viaggi per visitare quei paesaggi, e così via, prima di arrivare ad avere un certo tipo di confidenza in mondo tale da poter rappresentare tutto questo onestamente. Proprio adesso sto lavorando a un libro molto lungo, e in qualche modo è il romanzo più difficile a cui abbia mai lavorato. Si chiama A table for fortune ed è la storia di un padre e di un figlio. Il padre era un pilota in Vietnam, poi era arruolato nella CIA diventando successivamente un membro dei Cold War Patriots.
Dopo l’11 settembre, quando la CIA inizia a essere coinvolta con casi di tortura e di “consegne straordinarie” – che forse si erano verificate altre volte in precedenza – improvvisamente comincia a sentirsi molto a disagio. Aveva sempre pensato cose come Noi americani siamo molto meglio della Germania dell’Est. Ma era legato al vincolo di segretezza e non poteva parlare con nessuno. Il figlio, d’altro canto, ne resta molto amareggiato, se ne va di casa e viaggia per anni, diventando un senzatetto e cercando una sorta di America, qualunque cosa voglia dire per lui. Finché alla fine muore per la pandemia.
Scrivere e fare ricerche sulla parte del dormire coi senzatetto è stato interessante e facile per me. Sono semplicemente uscito e l’ho fatto, ho incontrato persone e ho descritto quello che è successo. Ma provare a immaginare cosa vuol dire lavorare per decenni nella CIA è molto difficile. È stato molto stancante e per un paio d’anni mi sono sentito scoraggiato. Ora sto finalmente arrivando da qualche parte, però vedi, in qualche modo è sempre così. È come quando stavo scrivendo Signore e luci rosse: potevo uscire e parlare con queste donne, e dire ok, queste sono le loro storie, comincio a capirle, ma poi come le porto al livello successivo per creare letteratura? Ecco, questa è la parte faticosa.
Sei interessato alla letteratura contemporanea, come lettore e critico? Che direzione sta prendendo, anche alla luce della sempre maggiore preponderanza dei nuovi media… dai quali mi sembra tu conservi una netta distanza?
Oh, per quest’ultima cosa cerco di fare del mio meglio. A volte mi preoccupo di essere diventato una sorta di snob. Poco tempo fa stavo leggendo l’autobiografia di Edith Wharton, nella quale lei, che scriveva durante gli anni Venti, si lamentava della decadenza della lingua inglese. Diceva: una delle cose più brutte cose che si possano dire è: a dirt road, quando invece si dovrebbe dire: earthen road. E io pensavo “suvvia Edith, non essere sciocca, supera questa cosa”. Ma più o meno allo stesso modo, anche io quando leggo il New York Times, ritrovo tantissimi casi in cui a mio modo di vedere l’inglese viene usato nella maniera sbagliata, e la cosa sembra non importare a nessuno. Lo fanno i politici, lo fanno i giornalisti: ad esempio, di dire reticent invece di reluctant. Oppure: il verbo to lag behind (rimanere indietro a qualcuno), adesso viene usato soltanto come to lag somebody.
Queste sono tutte modalità in cui la lingua sta cambiando. E so che la lingua deve cambiare, ma penso anche a come man mano ci siano sempre più persone che scrivono, e sempre meno che leggono, e il compito della scrittura di creare frasi belle e curate non viene più perseguito così come dovrebbe essere.
E poi mi dico: ma certo che la pensi così, sei un uomo vecchio adesso, e i vecchi sono così, le cose erano così belle ai miei tempi… ma mi sforzo di pensare che devo rimanere umile. La vedo così, anche se non so se è una risposta soddisfacente.
L’altra cosa che potrei dire è che sto lavorando duramente da tre o quattro anni a A Table For Fortune, e ci vogliono molte letture. Ho passato un sacco di tempo a leggere – per esempio – documenti della Stasi. Documenti top-secret, per l’accesso ai quali ci sono voluti un paio d’anni; ho letto anche storie della CIA, discorsi di presidenti, cose di questo tipo… questo è quello che sto leggendo adesso.
Qualcosa di simile a quello che hai fatto per Europe Central?
Sì, esatto. E quindi non sto leggendo letteratura contemporanea quanto dovrei. Quello che spero è che dopo tutti questi anni – dovrei finire questo libro entro il prossimo gennaio – riuscirò a scrivere di meno e a leggere di più.
Quando poco fa parlavamo della pandemia mi dicevi che siamo stati fortunati, come specie. Non pensi che comunque ci siano stati degli accenni di tribalizzazione nelle relazioni umane, in questo periodo?
Magari. Credo che le cose andranno peggiorando, prima di poter migliorare. Per dire: il cambiamento climatico sta già avendo un impatto molto forte su di noi, più di quanto non sappiamo. I marxisti hanno sempre parlato della presenza di una sovrastruttura culturale costruita in cima a una precedente struttura economica invisibile. E voglio credere che le nostre sovrastrutture geopolitiche e sociologiche siano basate in parte su sottostrutture biologiche e fisiche che non comprendiamo. Per esempio, dal momento che il cambiamento climatico incrementa la siccità in Africa, portando a più scontri per la scarsità delle risorse, e quindi a più rifugiati che si spostano nella vostra nazione – come certamente anche nella mia – gli abitanti si sentono spaventati e allarmati di fronte alla necessità di condividere risorse, con il conseguente aumento dei conflitti tra le persone.
Siamo vittime del nostro successo. Siamo in troppi sul pianeta, e questa grandiosa tecnologia che abbiamo creato ci sta mettendo adesso in grossi guai rispetto al cambiamento climatico, e altro ancora. Sai, parlavo qualche tempo fa con mio cognato, che vive in Corea: per anni avevo sentito di queste tempeste di polvere in Cina, che ha creato grossi problemi anche in Giappone. Di recente, questo fenomeno è arrivato anche in Corea, per tre o quattro giorni. E pensavo: questo è il modo in cui il mondo sta andando ovunque. Quindi penso che presto vivremo in uno stato di emergenza permanente, a meno che non diventiamo molto più intelligenti e non ci mettiamo veramente a lavorare tutti insieme.
Quali sono le tue aspettative riguardo Joe Biden?
Non mi aspettavo niente da lui, ma mi fa molto piacere che stia investendo molte risorse per combattere la disuguaglianza e il cambiamento climatico. Probabilmente non è ancora abbastanza. Prima di tutto non sembra avere ancora intenzione di intervenire sul fracking (una tecnica controversa di estrazione di gas e petrolio dal suolo al centro del dibattito negli USA, ndr), che è un grave errore; e poi… e questo è un tema che non fu facile da affrontare quando stavo lavorando a Carbon Ideologies. Avevo intervistato l’ex CEO di un’importante azienda petrolifera americana, il quale era molto contrario ai protocolli di Kyoto, e ad altri provvedimenti del genere. Mi disse: sai Bill, possiamo fare tutto quello che vogliamo, ma se non lo fanno anche i cinesi o se altri continuano a non farlo, allora non servirà a niente. Di sicuro, questa è una scusa per non agire. Noi dobbiamo comunque provarci. Dobbiamo provarci anche se potremmo non avere successo. Forse ha ragione lui, sul fatto che falliremo.
Adesso ho io una domanda per te: come descriveresti i rapporti attualmente in corso tra italiani e immigranti albanesi?
Adesso vanno meglio. Sai, sono originario della regione italiana che ha accolto le primissime ondate migratorie negli anni Novanta e inizialmente non è stato un processo facile, sia a livello di accoglienza che di integrazione, con momenti difficili, tragici. Conosco persone che sono sbarcate in Italia con questa nave straripante di persone, la Vlora. Ma devo dire che in base alla mia esperienza, rispetto ai migranti albanesi, l’integrazione è decisamente migliorata, per quanto non senza difficoltà.
Ah, questo è fantastico. È sempre bello sentire un qualche tipo di storia positiva. Una delle cose degli Stati Uniti verso cui mi sento ottimista, è che nonostante Trump la maggior parte degli americani stanno diventando meno razzisti e più aperti rispetto alla diversità. Sai, molti dei miei amici erano contrari ai matrimoni gay, per esempio. Dopo, hanno conosciuto molti uomini e donne sposate con persone dello stesso sesso e si sono detti: non c’è motivo per cui non possiamo essere amici. Mi rende molto felice quando le persone possono andare d’accordo.
Tornando un’ultima volta alla questione della pandemia, mi chiedevo: è qualcosa a cui avevi già pensato? Voglio dire, hai mai pensato che potesse verificarsi un fenomeno così sconvolgente per le nostre vite?
Sì, mi era capitato. C’è un libro molto interessante, un romanzo del 1949 che si chiama Earth Abides: racconta di un piccolo gruppo di persone che sopravvive a una pandemia che ha ucciso la quasi totalità della popolazione mondiale, e che gradualmente regrediscono a una specie di condizione tribale. Il protagonista del libro è un geologo che cerca di preservare la cultura del suo tempo, ma la maggior parte di quella conoscenza perde rapidamente valore. Tutto quello che può fare è insegnare a costruire archi e frecce. Così, in qualche modo non è assurdo pensare che ci sia stata una nuova pandemia, e credo che questa volta gli esseri umani siano stati molto fortunati, se pensiamo alla percentuale assoluta di vittime. Pensiamo a quello che è successo al diavolo della Tasmania, sai, questi curiosi animaletti neri che sono stati colpiti da una malattia che ne sta uccidendo la maggior parte. Perché non dovrebbe accadere anche a noi?
Già, è decisamente inquietante. Come scrittore hai esplorato una miriade di generi; dovessi indicarne qualcuno, quali sono i tratti continui nella tua opera?
Ci stavo pensando proprio mentre rileggevo Storie dell’arcobaleno. Le ombre della seconda guerra mondiale e dell’olocausto hanno lasciato un segno su di me. Alle elementari, il maestro ci mostrò un breve filmato sulla liberazione di Dachau. Ne fui così turbato che ne parlai a mio padre. Lui mi disse «Ascolta, Bill: la mia famiglia è in parte tedesca, e sono sicuro che abbiamo dei parenti che sono stati nazisti e che hanno fatto cose tremende». Non volevo avere niente a che fare con tutto questo, ma nel tempo ho sentito di doverci fare i conti, e così ho iniziato a riflettere su altri olocausti in altri luoghi. Odio pensare a queste cose, ma continuano a bussare alla mia porta e a dirmi: Bill, devi lasciarci entrare, abbiamo ancora qualcosa da dirti.
E poi c’è un’altra cosa, più divertente, che riguarda cosa sia l’amore. Più invecchio e più voglio pensare all’amore; cerco di amare gli altri il più possibile. Ci sono delle persone senzatetto che invito spesso a restare nel mio cortile qui fuori. Poco tempo fa due di loro mi hanno detto «Hei Bill, perché non passi un po’ di tempo con noi, guardiamo il tramonto». Uno dei due ha gravi problemi psichici, aveva con sé una piccola quantità di marijuana davvero scadente e voleva regalarmela. Ho pensato: è tutto quello che ha, non voglio prendergliela. Ma poi mi sono detto: forse la cosa giusta da fare è ringraziarlo, accettarla e fumarla insieme. Dopo è tornato altre volte.
L’altro uomo era un poeta. Mi ha detto: Bill, io non ho niente, ma lascia che ti legga una delle mie poesie. Lo ha fatto, ed è stato come se entrambi mi avessero donato tutto quello che avevano. Ho pensato molto a queste persone. Ho sentito amore da parte loro, e mi sono sentito così felice che una giornata brutta è diventata improvvisamente bella.
Ti capita di pensare all’eredità della tua opera, a cosa lascerai come scrittore?
A volte ci penso, e semplicemente non lo so. Sai, siamo persone del nostro tempo, e probabilmente chi scrive in modo più semplice raggiungerà le persone più a lungo rispetto alla mia scrittura, che tende a essere parecchio complessa. Ho un amico, un grande ammiratore di Joyce. È più grande di me, è sulla settantina; però penso che un libro come Ulisse diventerà sempre più inaccessibile per i lettori, via via che i decenni e i secoli passano. Prendiamo Nabokov: nel suo romanzo Ada usa un complesso gioco di parole ricorrendo al codice Morse. Ma il codice Morse ormai non si utilizza più, e mia figlia non ha idea di cosa sia: ecco qualcosa che già richiede una nota a piè di pagina per le persone che non capiscono, e sospetto che… io spero che alcune delle storie e delle immagini restino accessibili alle persone, ma forse A Table For Fortune diventerà persino più inaccessibile, sfortunatamente. Perché tutti i riferimenti all’MPLA in Angola, la Stasi, i diversi dipartimenti di intelligence negli Stati Uniti.. i lettori diranno: non mi importa di tutto questo.
La gente spesso già dice Shakespeare è troppo difficile per me, voglio una versione breve dell’opera. Così penso: così va la vita, questa è la natura umana. Certamente voglio che i miei libri durino un po’ e che piacciano, perché i miei libri sono come figli; ma so che io morirò, mia figlia morirà, e anche i miei libri. È così che funziona (ride, ndr).
Prima hai accennato a Dante, Omero…
Questi libri sono talmente belli… ma quando leggo Omero, devo farlo in traduzione inglese. È molto interessante leggere differenti traduzioni dell’Odissea. Ce ne è una molto strana, è di Lawrence d’Arabia. Lui si disse: ho costruito barche, ho ucciso delle persone, quindi di questa faccenda ne so qualcosa. Però dopo Lattimore e Fagles ne realizzano versioni piuttosto differenti. A me non rimane altro che “triangolare” tra queste traduzioni. Mi dico che non dev’essere proprio così, né in quest’altro modo… ma dev’essere qualcosa di questo tipo. Ne ricavo una grande immagine, ma allo stesso tempo sono consapevole che una parte del libro è per me irraggiungibile.
Se dovessi mai tradurre completamente qualcosa, quello che vorrei fare è realizzare un testo con tre o quattro versioni della stessa pagina. Ci sarebbe l’originale, per vedere com’è. E poi potrebbe esserci una versione transiletterata, così come suona e se ha rime, cose di questo genere. E infine un’altra versione che prova a catturare un po’ della peculiare bellezza che vedo in quella pagina. Mettendo tutte queste cose insieme, un lettore può pensare di iniziare a vedere un fantasma di questa realtà. E la speranza è che sia un fantasma bellissimo e convincente.
Cosa farai a Sacramento ora?
Adesso leggerò un altro po’ di documenti della Germania dell’Est. Una delle cose che stavo cercando di capire è cosa pensavano della CIA. Le loro idee sulla CIA sono interessanti.
Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell’agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.

Bella intervista. Che gigante, Vollmann.
Ogni volta che leggo parole che escono dalla bocca di Wollmann aspiro ad avere la sua empatia per tutti gli esseri umani e la sua voglia di passare il tempo a parlarci, chiunque essi siano. Bellissima intervista.
Grazie,
ho letto questa intervista poco fa e mi ha trasmesso sentimenti positivi, oltre ad avermi consentito di capire meglio il pensiero di questo grandissimo scrittore.
Straordinario scrittore “universale” ma complesso come lui stesso ammette con grande sincerità. Aspetto con impazienza il nuovo libro che sembra toccare temi internazionali molto interessanti. L’articolo è molto bello, ma sono anni oramai che nelle introduzioni agli articoli viene ripetuta la storia della morte della sorella, credo che attraverso ciò si voglia cercare un po’ di “spiegare” da dove provenga questa sua complessità,di umanizzare uno splendido romanziere, scrittore, saggista che però proprio per ciò che ho detto prima non riesce ad essere apprezzato dal pubblico italiano. Vollmann è amato dai critici, dai suoi colleghi, ma non riesce a raggiungere facilmente i lettori italiani