Figli del secolo breve. Intervista a Daniele Timpano ed Elvira Frosini su Ottantanove

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di Ludovico Cantisani

Elvira Frosini e Daniele Timpano sono due drammaturghi, performer e registi teatrali romani. Tra i loro spettacoli, spesso caratterizzati da una satira storico-sociale filologicamente accuratissima, da un minimalismo scenico e da una forte attualità politica, si ricordano Dux in scatola, Ecce robot!, Sì l’ammore no, Risorgimento Pop, Digerseltz, Aldo morto, Zombitudine, Acqua di Colonia e Gli Sposi. Il loro ultimo spettacolo, Ottantanove, il cui testo ha vinto la Menzione Speciale Franco Quadri all’edizione 2019 del Premio Riccione, è da pochi mesi in tournée in giro per l’Italia: frutto anche della collaborazione con l’Istituto di Cultura Italiana di Parigi, prodotto dal Teatro Metastasio di Prato, lo spettacolo è una riflessione sulla Rivoluzione Francese e sui due secoli che vanno dal 1789 al 1989, fino ad arrivare alla crisi della democrazia che avvolge il nostro presente. Pluricandidati ai premi UBU, nel 2021 hanno vinto un premio UBU speciale per il progetto di teatro in video IN DIFFERITA, con cui hanno cercato di tenere viva l’attenzione sul teatro contemporaneo italiano nei due mesi di lockdown tra marzo e maggio 2020. Ottantanove tornerà in scena il 22 gennaio al Teatro dell’Argine di Bologna, il 5 febbraio al Teatro delle Briciole di Parma ed il 10 e 11 febbraio al Teatro degli Impavidi di Sarzana.

Dopo il premiato Acqua di Colonia, sul colonialismo italiano e la sua mancata elaborazione, e l’adattamento de Gli Sposi di David Lescot sui coniugi Ceaușescu, quali sono stati i primi stimoli che vi hanno portato alla creazione di uno spettacolo come Ottantanove?

Elvira: È stato semplice e consequenziale. Nel 2017 eravamo a Parigi a mettere in scena il nostro Zibaldino Africano (la prima parte di Acqua di Colonia), all’Istituto di Cultura Italiana. Già da qualche tempo avevamo in mente di parlare della Rivoluzione francese come l’origine dei sistemi democratici…

Daniele: Un’origine mitica, archetipica se vogliamo, che ci avrebbe permesso di parlare della “crisi della democrazia” che già nel 2017 si avvertiva da tempo, anzi si può dire che è all’interno di questa stessa crisi che abbiamo consumato le nostre vite sinora…

Elvira: Ne abbiamo iniziato a parlare in quell’occasione con il direttore dell’Istituto, Fabio Gambaro, e da lì sono seguiti un paio d’anni di letture, di scrittura, di studi, di lavoro per arrivare ad una stesura più o meno definitiva del testo alla fine del 2019.

Daniele: Nell’estate del 2018 e nel gennaio del 2019 avevamo fatto due residenze di scrittura all’Istituto Italiano di Cultura. Una primissima stesura del testo, più breve e scritta per due sole persone, me ed Elvira, è stata presentata al pubblico parigino in chiusura di questa seconda fase di scrittura. Una terza residenza l’abbiamo fatta al Festival delle Cento Scale di Potenza. A giugno 2019 abbiamo chiuso una prima versione del testo completo, per tre attori, che abbiamo mandato al premio Riccione, dove ha raccolto un ottimo consenso da parte della maggior parte dei giurati. Ora era il momento di pensare finalmente alla produzione dello spettacolo vero e proprio.

Elvira: Pensavamo di debuttare nell’autunno 2020 ma il Coronavirus ovviamente ce l’ha impedito. La prima del lavoro, come tutto il resto, è stata rimandata di parecchi mesi. Alla fine siamo riusciti a debuttare al Teatro Fabbricone dal nostro produttore, il Teatro Metastasio, soltanto a fine maggio 2021. Lo scorso novembre abbiamo portato Ottantanove finalmente anche al Romaeuropa Festival, dove avrebbe dovuto debuttare esattamente un anno prima.

Dovendo sintetizzare Ottantanove in una frase, “di cosa parla”?

Daniele: Posto che ogni sintesi è sempre un po’ ingenerosa, direi che è uno spettacolo sulla Rivoluzione Francese, sulla democrazia in crisi e la crisi della democrazia, che parla dell’Ottantanove del Settecento e, di riflesso, dell’Ottantanove del Novecento. Insomma, gli elementi base sono sempre questi: la Rivoluzione, la democrazia, i due Ottantanove. Ma molto spazio nel lavoro ha anche un certo ‘calore’ personale, direi un fervore quasi ‘autobiografico’.

Elvira: Ottantanove è uno spettacolo che guarda indietro, che implica anche la nostalgia, una nostalgia anche personale e biografica dell’infanzia, ma al tempo stesso cerca di essere molto ancorato al presente, di parlare al presente e del presente. In tutto il lavoro, parliamo di quello che viviamo adesso, della nostra condizione personale, anche. È molto addentro al presente, insomma, interroga noi stessi ma interroga anche il pubblico, o almeno ci auguriamo che sia così.

Che punto di vista avete adottato, rispetto al supposto “fallimento” delle rivoluzioni?

Daniele: Abbiamo adottato un punto di vista che è senz’altro personale, in parte anche generazionale. O meglio: speriamo sia condivisibile da quante più persone possibile, naturalmente, non è un discorso chiuso, ma ovviamente sappiamo benissimo che è innanzitutto il punto di vista – l’angolo da cui guardiamo il mondo – è il nostro, di Elvira e mio e di Marco Cavalcoli che condivide la scena con noi. Il nostro è un mondo di persone nate e formatesi a cavallo di due epoche, c’è ancora un po’ di Novecento dentro di noi, il sapore di qualcosa ormai perduto cui restiamo affezionati, ma siamo essenzialmente vissuti tra gli ultimi scampoli del Novecento e i primi decenni degli anni duemila e questa è una posizione anagrafica che non potevamo non tener presente. Ovviamente non conta solo il dato generazionale o quello anagrafico: nella tua visione della società e della storia conta anche quello che sai, quello che pensi, quello che senti del mondo e sul mondo, ma è chiaro che per noi parlare del 1989, o del Novecento in generale, ha un inevitabile sapore biografico e retrospettivo che non può essere lo stesso di chi è nato negli anni 2000. Per quelli dopo di noi quello che c’era prima del 1989, persino gli stessi anni ‘90 della nostra giovinezza, sono un ricordo già filtrato dall’immaginario, forse addirittura più lontano, perché meno ‘storicizzato’, degli anni ‘60, o perfino dell’Ottocento o Settecento. Sono gli anni indistinti e sfocati in cui probabilmente si conoscevano i loro genitori.

Elvira: Come in tutti i nostri precedenti spettacoli, in Ottantanove la storia è per noi un fatto personale, è qualcosa che ci riguarda, che prendiamo di petto, come fatto personale.

Sotto diversi punti di vista, Ottantanove sembra la logica prosecuzione del vostro repertorio recente: da Risorgimento Pop ad Aldo Morto, da Acqua di Colonia a Gli Sposi, la vostra visione della storia si concentra spesso sulle rivoluzioni fallite o equivocate, sulla mancata elaborazione del passato, su alcuni feticci che si ripetono nella storia nazionale ed europea.

Daniele: Gli Sposi, il nostro precedente spettacolo, parlava proprio del 1989, della caduta della dittatura comunista di Ceaușescu che viene affogata nel sangue con un processo sommario, all’indomani della caduta del Muro di berlino, in una dinamica ambigua in cui la Liberazione di un paese, la Romania, non si sa bene se considerarla una Rivoluzione o un mero cambio di regime.

Elvira: C’è da dire però che Gli Sposi non era un testo originale nostro, ma del drammaturgo e performer teatrale francese David Lescot, che in qualche modo ha collaborato con noi anche per Ottantanove. 

Qual è stato l’apporto di Lescot a Ottantanove?

Daniele: David ha letto via via le varie bozze del testo, poi lo abbiamo invitato all’Istituto Italiano di Cultura mentre facevamo le prove a Parigi. È stato, diciamo, un primo spettatore particolarmente attento e prodigo di consigli.

Elvira: Per noi era importante avere lo sguardo d’oltralpe di un nostro collega e coetaneo stimato, che ci piace come autore e che conosce bene gli argomenti che affrontiamo nel nostro spettacolo, come lettore, spettatore e interlocutore privilegiato sul testo di Ottantanove e sulla messinscena.

Daniele: Volevamo anche banalmente capire che impressione faceva Ottantanove ad un francese che si occupa di storia in una maniera analoga alla nostra.

Elvira: Lescot infatti si definiva scherzosamente il nostro inviato in Francia.

Daniele: All’inizio avevamo anche pensato di coinvolgerlo come attore in scena con noi, ma abbiamo capito molto presto che sarebbe stato un grandissimo problema anche solo riuscire ad incrociare i rispettivi calendari. D’altronde con la Pandemia ora sarebbe stato tutto ancora più difficile.

Elvira: Speriamo ci siano in futuro occasioni per una collaborazione anche in questo senso.

Come tipico dei vostri spettacoli, Ottantanove è composto da un collage di materiale decisamente eterogeneo, fra spezzoni originali, drammaturgie altrui che vanno dalle tragedie di Alfieri al Marat / Sade di Peter Weiss, frasi fatte da bar, rivisitazioni più o meno parodistiche di dichiarazioni politiche o dialoghi di talk show. Nel caso di Ottantanove, quali sono state le fonti primarie della vostra ricerca, da un punto di vista drammaturgico e storico? Quali materiali sono confluiti nel testo definitivo dello spettacolo? Quale progressione avete notato, nel trascorrere dei decenni, tra le varie interpretazioni della Rivoluzione Francese?

Elvira: I materiali che abbiamo studiato sono tantissimi, e nel testo ne sono “precipitati” solo alcuni. Da un punto di vista storico, abbiamo letto i principali manuali storici e storiografici ed i vari racconti e visioni che i protagonisti del periodo, e poi gli interpreti, gli esegeti e gli storici delle generazioni successive, hanno lasciato ai posteri.

Daniele: Abbiamo iniziato simbolicamente il percorso di studio per arrivare a Ottantanove con un piccolo classico della storiografia, La Storia della Rivoluzione Francese di Furet e Richet, 1965. Poi naturalmente un po’ di Thiers e Mignet, un po’ di Michelet ed un po’ di percorso attraverso Vovelle e Soboul, ma anche Mathiez, per avere un po’ una idea dell’evoluzione nel tempo delle letture storiche della Rivoluzione. Per molti versi una lettura fondamentale è stata proprio quella di Furet e Richet, con alcune pagine memorabili anche dal punto di vista letterario (la descrizione dell’Italia prima della campagna napoleonica per dirne una), fondamentale ma anche del tutto insoddisfacente.

Si tratta di una lettura critica della storiografia marxista ortodossa dei Soboul e Lefebrve che era probabilmente necessaria nel 1965 ma che, col senno di poi, era già destinata ad inglobare la “fine del secolo breve”. Sebbene sia stata scritta diversi decenni prima del 1989, già vi si intuiva il Furet autore di libri come Il passato di un’illusione e Critica della Rivoluzione francese. La fase giacobina della Rivoluzione, e quindi il periodo del Terrore stesso, vi venivano descritti come un deragliamento, una semplice degenerazione della “grande onda della Rivoluzione” destinata poi a riprendersi con il Termidoro e persino con Napoleone e dopo la Restaurazione. Una lettura del mondo per i miei gusti un po’ troppo “liberista-friendly”, per così dire, dove gli elementi di lotta sociale e di disuguaglianza di classe vengono – a nostro parere – liquidati con un po’ troppo entusiasmo.

Oltre ai saggi storici e interpretativi, quali altri materiali sono confluiti in Ottantanove?

Elvira: Tanti materiali molto disparati: film, fiction, materiali televisivi, musiche, ovviamente, sia dell’epoca sia più recenti, canzoni, illustrazioni, e opere teatrali. Qualche esempio? Le musiche di Luigi Cherubini ma anche quelle di Paisiello, Cimarosa e di Viotti; i capolavori di Mozart, ma anche quelli di Salieri e degli oggi poco conosciuti Gossec, Mehul, Joseph Bologne de Saint-Georges; i canti rivoluzionari francesi di Adrien Simon-Boy e Rouget De Lisle ma anche quelli dei giacobini italiani e quelli della Comune di Parigi del 1871; le opere liriche di Umberto Giordano o Mascagni dedicate alla Rivoluzione ma anche il Dantons Tod di Gottfried Von Einem; i manga di Ryoko Ikeda (Versailles no Bara ed Eroica) come quelli di Shin’ichi Sakamoto (Innocent, sulla storia del boia di Parigi); tanta letteratura, dai romanzi ottocenteschi di Dickens e Balzac a Wu Ming ma anche libri incredibili come Le notti di Parigi di Restìf de la Bretonne; gli sceneggiati italiani degli anni ‘60 e ‘70 come capolavori della storia del cinema come il Napoleon di Abel Gance; l’opera musicale Ca ira di Roger Waters come lo spettacolo concerto sulla Comune di Parigi del nostro David Lescot col jazzista Emmanuel Bex. Abbiamo letto diversi testi del teatro rivoluzionario settecentesco, qualcuno tradotto appositamente per noi da una studiosa che insegna all’università di Siena, Barbara Innocenti, ma abbiamo studiato anche opere teatrali dell’Ottocento e Novecento sulla Rivoluzione, fino al Marat / Sade di Weiss, passando per Hugo e Vittorio Alfieri, tre autori molto presenti nello spettacolo. Certe opere di Alfieri – le Commedie per esempio – testimoniano come la Rivoluzione abbia coinvolto anche gli italiani e in qualche modo li abbia scossi: il percorso generale di solito parte da una prima adesione entusiastica ai valori dell’Illuminismo e della Rivoluzione e arriva alla delusione, come è il caso di Ugo Foscolo.

Daniele: sicuramente i materiali alla base di Ottantanove sono molto variegati, e sicuramente per ogni scelta che c’è nello spettacolo ci molti più testi, suggestioni e spunti rimasti fuori dallo spettacolo. Ad esempio, nel testo finale di Ottantanove di Alfieri è rimasto solo un montaggio/riscrittura dal Misogallo, ma prima di scegliere quello abbiamo letto diverse tragedie di Alfieri, le sue satire, le sue commedie, la sua biografia; e lo stesso abbiamo fatto per Vincenzo Monti, di cui personalmente avrei voluto inserire qualcosa, magari degli estratti dalla Bassvilliana, e che è invece completamente assente dalla stesura finale di Ottantanove.

Quale lettura dava Monti della Rivoluzione?

Daniele: La Bassvilliana è una sorta di poema pseudo-neo-dantesco, in cui un angelo porta l’anima del rivoluzionario Nicolas-Jean Hugou, detto Bassville, ucciso in un attentato a Roma nel gennaio del 1793, a vedere tutte le conseguenze nefande della Rivoluzione che si avvereranno di lì a poco, a partire dall’esecuzione del Re: è un testo che incarna appieno la reazione degli altri Stati europei contro la Rivoluzione francese. Se l’avessimo inserito, avrebbe portato nel lavoro tutto un discorso che nello spettacolo non c’è ma che sarebbe molto interessante, quello del ‘trasformismo’ degli intellettuali o , più seriamente,  quello del cambiamento del ruolo dell’intellettuale tra Settecento a Ottocento. Rispetto al passato, il XIX secolo corrisponde a un vero e proprio cambio di paradigma, perché l’intellettuale non avrà più necessariamente il nobile o la corte che lo protegge e lo sostiene, ma si trova nella necessità di vendere i suoi testi ai giornali, agli editori. Monti si trova proprio in mezzo a queste due epoche, passando continuamente da un protettore all’altro. Prima della Rivoluzione Vincenzo Monti scrive cose elogiative indirizzate al papa e ai suoi protettori altolocati: a pochissimi anni dalla Rivoluzione, si trova a scrivere testi ed opere esaltatorie della Rivoluzione, poi riscrive delle nuove opere contro la Rivoluzione, poi scrive cose a favore di Napoleone, poi scrive cose contro Napoleone ed insomma, nel corso di quindici-venti anni, scrive – come tanti – tutto e il contrario di tutto…

Elvira: … c’è anche una lettera divertentissima in cui si giustifica di aver scritto La Basvilliana dicendo sostanzialmente il proverbiale “c’ho famiglia”.

Daniele: Da un lato Monti ti sembra un trasformista viscido e privo di personalità, a volte è persino imbarazzante (è il caso del suo poemetto in onore della nascita del figlio di Napoleone, Le api panacridi in Alvisopoli che è disgustosissimo), dall’altro è la figura concreta di un intellettuale costretto di volta in volta ad appoggiarsi a un potere diverso per ricevere sostentamento economico ed assolvere il suo ruolo pubblico.

Oltre al Marat / Sade di Weiss, quali materiali risalenti invece al secolo scorso hanno fatto parte dell’architettura preparatoria ed eventualmente del testo di Ottantanove?

Elvira: Del Novecento uno dei testi più importanti a cui ci siamo riferiti è I Giacobini, un’opera di Federico Zardi che è entrata con forza nel testo dello spettacolo e di cui parliamo a lungo. Si connette al tema dei “repertori” come scelta politica: quello che entra nei cosiddetti repertori, nel canone del teatro di una determinata epoca, è sempre una scelta fondamentalmente “dall’alto”, non c’è mai una selezione naturale. Sulla Rivoluzione Zardi ha scritto una vera e propria trilogia, parzialmente ancora inedita, che ripercorre la storia della rivoluzione dal 1789 fino alla caduta di Napoleone e la Restaurazione. Senz’altro un autore di cui ci piacerebbe tornare ad occuparci.

Per quanto riguarda il Novecento ci siamo andati poi a leggere anche i discorsi di Reagan e della Thatcher, subito prima o subito dopo l’Ottantanove inteso come 1989.

Daniele: Per arrivare al nostro Ottantanove ci è stato necessario passare attraverso tantissimo materiale di tantissimi tipi diversi. Può sembrare dall’esterno confuso, ma il nostro è un percorso mosso da una grande curiosità a 360 gradi, e anche da un certo metodo se vogliamo. Abbiamo voluto indagare attraverso l’immaginario culturale sorto attorno a un periodo storico che bene o male attraversa due secoli: la Rivoluzione Francese, e quello che ha portato. Ci tenevamo ad avere una totale consapevolezza delle cose di cui avremmo poi parlato sulla scena, sperando di trasmettere al pubblico non solo la consapevolezza che non abbiamo scelto a caso i nostri temi, che c’è stata una ricerca autentica dietro, ma soprattutto che la nostra è una autentica curiosità ed un autentico entusiasmo. Inutile dire che ci piacerebbe questo entusiasmo e questa curiosità fossero contagiosi.

Fra i materiali di studio e le possibili “influenze” di Ottantanove, ha avuto un qualche peso la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno ed Horkheimer, data l’attinenza tematica? 

Daniele: Strano che tu ce lo chieda. Ad ogni modo la risposta, probabilmente, è un sì. Dialettica dell’Illuminismo ce lo siamo riletti con piacere. Personalmente non sono un grande philosophy-addicted, ed anche di Theodor Adorno non ho letto tutto, ma sicuramente nella mia testolina è stata un’influenza importante. Sia in modo diretto, grazie alle letture adolescenziali della Dialettica o dei Minima Moralia, che a suo tempo mi avevano colpito profondamente, così come i suoi scritti a proposito del cinema e della musica, sia in maniera indiretta, perché uno dei miei migliori amici, Marco Maurizi, è un grande studioso di Adorno che sta dedicando una parte del suo lavoro alla lotta contro la miopia e malafede delle critiche postmoderne alla Scuola di Francoforte, e questo mi ha fatto inevitabilmente “ereditare”, attraverso la lettura dei suoi saggi ed articoli ed in infinite conversazioni, alcuni concetti fondamentalmente francofortesi. Adorno e anche Marcuse hanno peraltro influenzato più direttamente altre opere che ho amato e mi hanno segnato: tutto il Gaber degli anni Settanta si rifaceva un po’ anche a loro, a volte equivocando forse alcune cose ma con una grandissima forza espressiva. Sicuramente l’ambiguità del concetto di Illuminismo secondo Adorno e Horkheimer è qualcosa che io ed Elvira ci siamo portati dietro anche in Ottantanove: l’Illuminismo come pilastro di difesa contro la barbarie, che può diventare esso stesso barbarie è qualcosa peraltro di presente pure in Peter Weiss.

In quale momento del processo creativo avete iniziato a valutare la possibilità di prevedere in scena un terzo attore oltre a voi stessi, dopo più di dieci anni che la vostra Compagnia ha fatto spettacoli a due se non veri e propri monologhi come Aldo Morto? E come siete arrivati a scegliere Marco Cavalcoli?

Elvira: A un terzo attore abbiamo pensato sin dall’inizio come possibilità di piccola, ma sostanziale, innovazione drammaturgica. Il testo di Ottantanove lo abbiamo scritto già con questa possibilità in mente, anche se la scansione in battute “a tre” è subentrata in un secondo momento. Ci interessava aprire la nostra coppia scenica a una terza presenza, di istinto. Abbiamo pensato a Marco Cavalcoli perché ci conosciamo e stimiamo reciprocamente da anni, perché lo abbiamo visto più volte in scena in spettacoli diversissimi tra loro e ci è sempre piaciuto. Molte discussioni e scambi di idee con Marco all’inizio riguardavano proprio il come collaborare attorialmente all’interno di una coppia già collaudata.

Daniele: La decisione di fare Ottantanove a tre è stata per altri versi anche strategica, quasi presa a tavolino. Dovevamo aprire, era una nostra sensazione che avevamo già da un po’. Per esigenza interna e per comunicare in maniera esplicita all’esterno uno scarto ed una maturità ormai acquisiti. Siamo passati da spettacoli indipendenti separati miei e di Elvira, spesso interamente solisti, ad alcuni anni di pettacoli in due, in cui cercavamo di trovare un linguaggio comune. Anche a livello di strategia comunicativa come Compagnia, volevamo trasmettere l’immagine agli spettatori di una coppia “di vita e di lotta”. Tutto questo lavoro di fusione e di comunicazione è durato qualche anno. Dopo Acqua di Colonia e Gli Sposi, ci sembrava che i tempi fossero maturi per un cambiamento di questo tipo, per un allargamento a tre.

Elvira: Siamo passati da Eschilo a Sofocle, insomma: dai due ai tre attori in scena!

Come avete interagito con Cavalcoli durante le letture e le prove? In che misura ha collaborato attivamente al testo e alla sua messinscena?

Daniele: È intervenuto molto su quello che succede in scena, e, indirettamente, è intervenuto anche sul testo. Fra la stesura del copione di Ottantanove consegnata al Riccione e la stesura definitiva che va ora in scena, c’è stata un’ulteriore stesura in cui tenevamo conto delle riflessioni e degli scambi avvenuti nei primi giorni di lavoro con Marco. Abbiamo così aggiunto una scena che prima non c’era, ne abbiamo tolta una che prima c’era, per considerazioni ritmiche e spaziali abbiamo in parte riformulato la scansione delle battute, sfoltendo o spostando tantissime piccole cose.

Elvira: Nel nostro modo di pensare e di lavorare, la presenza di una terza persona in uno spettacolo implica che quella persona c’è “davvero”, e non come mero esecutore: devi interagire con lui, lo ascolti, lo pensi, e la sua presenza in scena con te modifica quello che fai. Questo valeva già anche per il light-designer Omar Scala, o per il collaboratore al sonoro Lorenzo Danesin, o per le scelte di scene e costumi di Marta Montevecchi, che hanno contribuito con noi al senso ed alla forma del lavoro, ed è a maggior ragione vale per un terzo attore che condivide paritariamente la scena con noi per un’ora e mezza.

A Cavalcoli sono affidate proprio le prime battute dello spettacolo, quando dalla platea inizia a rivolgersi a voi due già in scena iniziando una sorta di comizio dal pubblico: “Ma che cosa è successo? Ma che sta succedendo? Io vedo molti giovani qui stasera. Il ventenne di oggi ha vissuto tutta la vita nel ventunesimo secolo. Noi siamo figli invece del secolo ventesimo…”

Daniele: Se non ricordo male, il monologo iniziale era un’ipotesi di testo che avrei dovuto fare io, anzi ricordo bene che lo avevo scritto per me, ma quando abbiamo cominciato a provare con marco, abbiamo deciso di drammatizzare l’entrata in scena del terzo attore dalla platea: ci è parsa una scelta molto naturale, proprio per dare l’immagine della Compagnia che accoglie il terzo attore “dall’esterno”.

Elvira: Era anche un modo per rendere la platea a sua volta protagonista, dal momento che prima che Marco inizi a parlare io e Daniele “interloquiamo” con gli spettatori, restando in silenzio a guardarli per alcuni minuti, in una scena sostanzialmente vuota e desolata, con queste tre bandiere immense – sbiadite, stinte, spente – che non fanno che accentuare il senso di desolazione e di macerie con cui abbiamo scelto di aprire lo spettacolo.

Ancor più che nei vostri precedenti spettacoli, sin da questa prima scena in Ottantanove c’è una forte dialettica tra una dimensione teatrale, con dialoghi e in un certo senso “personaggi”, e una dimensione che verrebbe da definire anti-teatrale, con allocuzioni al pubblico e lo squarcio della benemerita quarta parete.

Daniele: Vivo o meglio viviamo con una certa soddisfazione, quasi orgoglio, Ottantanove, perché ci sembra che è indubbiamente coerente con il nostro percorso, con la direzione che abbiamo preso come Compagnia, ma che abbia anche un apprezzabile segno discontinuità. Ci pare, almeno in questo momento, che al momento sia il nostro lavoro più “radicale” da alcuni punti di vista. Innanzitutto perché riesce a fare materia teatrale di diversi materiali testuali che potrebbero essere sentiti dagli spettatori anti-teatrali. Tutti i nostri spettacoli sono pieni di parole, ma questo lo è ancora più degli altri; e un testo che è composto spesso di spiegazioni, descrizioni, discorsi, ci sono moltissimi passaggi che hanno una forma che – alla lettura – possono risultare troppo didascalici o didattici. Si va dalle spiegazioni sulla concezione del teatro nel Settecento secondo Rousseau o Diderot al racconto documentario di com’era lo sceneggiato perduto di Federico Zardi sui giacobini del 1962 alla descrizione della Convenzione rivoluzionaria del 1793 con le parole pompose e barocche di Victor Hugo. Ci sono tanti materiali testuali che non sono propriamente “azione”, in questo lavoro, ma “parole” ed a volte vera e propria “spiegazione”; ma anche alcuni materiali originariamente teatrali risultano comunque, al gusto di oggi, molto letterari e libreschi, come i testi di Vittorio Alfieri con il loro linguaggio strano, arcaico e modernissimo, per i più abbastanza poco comprensibile. Siamo molto soddisfatti di essere riusciti a rendere un fatto teatrale qualcosa che di per sé poteva rischiare di non esserlo. Qualcuno sicuramente si sarà anche annoiato a vedere Ottantanove, non vogliamo mettere in dubbio né si può piacere a tutti, ma la sensazione generale che abbiamo ricevuto dal pubblico, rispetto allo spettacolo, è quella di essere riusciti a rendere corporali e fisiche, insomma teatrali, delle cose che sembravano faticose o impossibili da mettere in carne, in corpo, in uno spazio.

Una delle frasi più forti di Ottantanove è “Qual è il momento in cui siamo diventati archeologia?”. In generale, in tutto il testo sembra molto forte un sentimento non di disfattismo ma di consapevole sconfitta, una sorta di La mia generazione ha perso aggiornato e riportato a teatro. 

Daniele: Per associazione di idee mi ricordo che a suo tempo mi colpirono alcune riflessioni del co-protagonista de Il pendolo di Foucault di Umberto Eco, Belbo, che in un passaggio del romanzo parla del suo senso di disagio nel sentirsi esponente di una “generazione di mezzo”, uno che ha vissuto in un punto della storia in cui “non è successo niente”. Quelli prima di lui erano partigiani, quelli dopo di lui hanno fatto il Sessantotto e lui invece si sentiva di non aver fatto niente, niente di epocale, nato troppo tardi e troppo presto, parte di una generazione di passaggio che si è persa tutto. Credo che questa sia una sensazione ciclica: io me la sento addosso identica. Sono nato nel 1974, ero solo un bambino negli anni Settanta, che un po’ mi affascinano e un po’ mi repellono. Sono nato troppo tardi per la Lotta armata come per fare un film con Elio Petri. Ma a voler essere cinici e spietati con me stesso, “non c’ero” neanche dopo e non ci sono neanche adesso, ad esempio nelle lotte sul genere e sull’orientamento sessuale… 

Elvira: Io per esempio in queste lotte mi sento anche coinvolta, non mi ci chiamo fuori, ma certo le vedo e le vivo con un altro sguardo rispetto a chi fa parte, magari, di una generazione più giovane e più coinvolta.

Una delle ultime battute dello spettacolo dice: “Siamo noi. Piccoli. Forse sbiaditi. Come siamo sbiaditi oggi. Anche se siamo molto belli, e tutto il mondo, il nostro, è sempre più bello. Ma comunque sbiaditi e piccoli. Schiacciati. Un po’ fermi. Che guardiamo”. Che guardiamo: si dice sempre che il teatro è un’esperienza comunitaria, ma questa comunità c’è ancora?

Elvira: In Ottantanove c’è sicuramente una spasmodica ricerca di un “noi”, che non troviamo, ma che cerchiamo, e che preferiamo in ogni caso a una certa idea di individualismo, di singolarità. Sia in scena fra noi tre, ma anche nella ricerca di comunicazione e di scambio con la platea, continuiamo la ricerca di questo noi, anche se sappiamo che è difficile da trovare, o da recuperare.

Daniele: Secondo me questo discorso sul “noi”, di un noi che siamo noi ma che è anche un po’ la platea di fronte a noi, e quindi idealmente i cittadini, era molto presente già nella parte finale di Aldo Morto, o anche in Zombitudine, in maniera più nichilista.

Elvira: In Ottantanove c’è un senso di disperazione, ma anche di vitalità, una voglia disperata di rilancio e di prospettive. Sappiamo che è difficile immaginarle, ma almeno c’è la voglia di cercarle. C’è del fuoco, speriamo, sotto la cenere.

Daniele: Alla fine ci sembra che queste nuove prospettive non si trovino, ma già solo trascorrere un’ora e mezzo cercando un rilancio è un atto di speranza.

Elvira: Questa sull’assenza e sulla ricerca di prospettive è una riflessione che mettiamo in comune col pubblico. Cerchiamo di capire se è possibile trovare nuove strade.

 

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