“Goodbye Hotel”: intervista a Michael Bible

Se Donnie Darko e Flow si unissero e insieme diventassero un libro, verrebbe fuori Goodbye Hotel, il nuovo romanzo di Michael Bible pubblicato da Adelphi (traduzione di Martina Testa). Sarà per una storia d’amore particolare, per la provincia americana dove i ragazzi sognano l’impossibile, per gli animali, due tartarughe soprattutto, Lazarus e Little Lazarus, le cui vite, lunghissime, aiutano il lettore a misurare il tempo che passa, e il peso di alcuni ricordi. Chiedo a Bible come mai, nell’edizione italiana, non abbiano mantenuto il titolo originale, Little Lazarus, e lui mi confessa che in realtà Goodbye Hotel era il titolo che lui aveva immaginato fin dall’inizio, e che quando Roberto Colajanni (direttore editoriale di Adelphi) gliel’ha proposto, ne è stato felice. Ambientato un po’ a New York (dove si trova il Goodbye Hotel, una sorta di rifugio per chi ormai si sente fuori dal mondo), un po’ a Harmony (come L’ultima cosa bella sulla faccia della terra, il suo libro precedente), Goodbye Hotel è un romanzo ipercontemporaneo, commovente, in cui non esistono certezze, ma solo piani temporali che si litigano un po’ di spazio, ricordi che cambiano forma, in cui si passa dalla prima alla terza persona, da un personaggio all’altro, fino ad arrivare ad animali come Lazarus, che attraversa lentamente una città elettrica, e in fondo sembra chiedersi: “Che differenza c’era fra un secolo e un giorno quando tutto era destinato a finire?”.

Giacomo Leopardi ha scritto che quelli che vivono nelle grandi città hanno una mentalità più aperta di quelli che vivono in provincia. Tu che ne pensi?

In generale è così, ma non sempre. Tu puoi andare nelle grandi città e trovare persone che hanno delle menti chiuse, ottuse, e viceversa. Nel sud noi abbiamo un modo di dire, Bless your heart (Che Dio ti benedica!), che rappresenta la massima finzione, un modo cortese di approcciarsi, di mostrarsi, mentre dietro ti arrivano le pugnalate. Quindi, bisogna fare attenzione a certi cliché.

Il tuo stile è limpido, fatto di similitudini inaspettate e periodi brevi, soprattutto quando vengono raccontati i ricordi, quanto c’è qualcosa di premeditato? Quanto conta per te l’aspetto musicale della scrittura?  

Non so se sia una cosa conscia o meno, però sì, ho imparato dal mio maestro. I periodi, le frasi brevi appartengono a una grande tradizione americana, ed è lì che sono andato a cercare la mia voce. Quando ho cominciato a scrivere, poi, ero molto orientato verso la poesia, verso la ricerca della concisione. Adoro la brevità di una frase. Il linguaggio è musica. È composto da tensione e rilascio. La caduta leggera e la risalita più grande, diceva Leonard Cohen. Lo stile è tutto per me. Il modo in cui parliamo tradisce qualcosa della nostra vita interiore, della nostra anima.

E quali sono i tuoi maestri, i tuoi modelli?

Be’, direi Denis Jonson, William Faulkner, Carson McCullers e Samuel Beckett, che per me è il più grande scrittore di sempre.

Tu vivi a New York, e solo a New York una tartaruga come Lazarus può camminare liberamente senza che nessuno ci veda niente di strano. Qual è il tuo rapporto con New York?

Oh, io amo New York, è un posto selvaggio, sì, ma allo stesso tempo, non so bene come, riesce a calmarmi, ho sempre sognato di viverci. Mi piacciono le persone, amo sembrare invisibile e osservare le loro vite, e New York è il posto migliore del mondo per farlo.

Simenon, pensando ai suoi personaggi, diceva che non esistono colpevoli ma soltanto vittime. Tutti i tuoi personaggi sembrano aver perso qualcosa.

Assolutamente, è proprio così, amo Simenon, e sono d’accordo con lui. Siamo tutti vittime delle nostre circostanze, del nostro passato, per aver ricevuto troppo amore o per non averne ricevuto abbastanza. La perdita è una condizione umana permanente. Credo che prima ci ritroviamo a portare dei fardelli, più siamo propensi a tendere la mano agli altri e ad alleggerire le loro vite.

Il nome Lazarus significa “colui che è assistito da Dio”, ci avevi pensato? Essere assistiti da dio significa avere un buon rapporto con il tempo, riuscire ad avere un buon rapporto con gli altri?

Sì, ci ho pensato molto, è una questione enorme, questa. C’è una frase famosa di Sartre, “l’inferno sono gli altri”, con cui non sono affatto d’accordo. Simone Weil dice che Dio è essenza, silenzio, e tu come riempi la tua vita? Con i tuoi rapporti, con le tue relazioni, è questo mutuo scambio umano che rende la tua vita vivibile, ecco.

A un certo punto, nel capitolo in cui prende la parola Eleanor, si legge: “La cosa difficile dell’essere giovani è sapere che cos’è che non si sa”. Qual è la cosa difficile dell’essere adulti?

È sapere tanto, saperlo troppo bene, dimenticare quella specie di silenzio, di ignoranza, di innocenza, che è sacra. Anzi no, forse innocenza non è la parola giusta. Direi più speranza, una speranza senza ottimismo, però, perché l’ottimismo ha un obiettivo, l’ottimismo ci dice che poi arriveremo a qualcosa. Invece io penso a una sorta di speranza che non sa, che è simile all’ignoranza.

Come mai c’è sempre qualcosa che va a fuoco nei tuoi libri?

È vero, non saprei, forse perché mi piace molto quella zona, quel momento in cui le persone non sanno bene cosa fare, in cui non si sa che cosa sta per accadere. Sai, io andavo in una piccola scuola del Tennessee, un’ottima scuola in cui si imparava a scrivere, ma anche come diventare geologi, o scienziati forestali. Quindi venivano allevati questi due aspetti dell’umano. Ci hanno insegnato come controllare il fuoco, come tenere a bada un incendio, come padroneggiarlo. E nei miei libri le fiamme, i possibili incendi non rappresentano delle metafore per raccontare le relazioni, ma devono essere prese per quello che sono, come delle cose che bruciano. Certo, in generale bruciare la sterpaglia ha a che vedere con l’onestà. Mia moglie, che è la persona più vicina a me, quando mi dice qualcosa, mi aiuta a capire come agisco, come sono da fuori, mi porta poi ad evitare alcuni errori che potrei commettere. È qui, in questa continua ricerca della verità, che è possibile evitare che scoppi un incendio.

Com’è la tua giornata tipo?

Sarò molto onesto con te, cerco sempre di fare il meno possibile. In America c’è questa idea secondo cui più fai, meglio è, e sui social posti diecimila parole, dici che hai scritto, hai pubblicato un sacco di cose, e questo è assurdo. La contemplazione, per me, è la vera attività che poi ti permette di scrivere. Le parole ti rimangono dentro per mesi, a volte per anni, poi le idee, con il tempo, vengono riempite dal mondo esterno. Parlo del momento in cui le persone si trovano di fronte al fuoco, che cercano di capire cosa fare, e il fuoco che divampa, in fondo, è la scrittura. Scrivere non è semplicemente battere le dita sulla tastiera. La scrittura è qualcosa che richiede molto tempo, che richiede sedimentazione. Una volta che ho fatto questo lavoro interiore, allora scrivere non mi costa nulla, sono velocissimo.

 

Commenti
Un commento a ““Goodbye Hotel”: intervista a Michael Bible”
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