Il marketing umano. Intervista a Carlo Sestini, influencer

di Paolo Landi*

Il “marketing umano” è l’ultima frontiera del marketing. Da quando le novantasei tesi rivelatrici del Cluetrain Manifesto attirarono l’attenzione sulla fine del “business as usual”, con l’arrivo di Internet, molti passi sono stati compiuti. “I mercati sono conversazioni” diceva una delle tesi del Cluetrain. E: “se volete che i vostri clienti parlino con voi, raccontategli qualcosa, possibilmente qualcosa di interessante”. Con i social network la rivoluzione si è compiuta. Grazie alla potenza di Facebook, Instagram, Twitter, Tik Tok i mercati sono diventati più “intelligenti”, e figure nuove di “lavoratori” sono comparse sugli orizzonti social: gli influencer. Uno di loro, Carlo Sestini, 26 anni, (363k follower su Instagram), in procinto di diventare “imprenditore digitale” con il lancio di una sua linea di occhiali da sole, ha accettato di parlare con noi del “marketing umano”.

Dagli Usa è arrivata fin qua questa definizione di “marketing umano”: che significa di preciso?

Non sono un esperto di marketing, mi ritengo piuttosto uno strumento del marketing, ma penso che questa definizione suggestiva significhi che per sviluppare una buona strategia di marketing basarsi su dati matematici e statistiche non basta più. Quando io nutro il mio Instagram con le mie immagini tengo sempre presenti otto emozioni umane: sorpresa, felicità, speranza, paura, infelicità, delusione, dispiacere, odio. E gli otto sentimenti umani basici: ottimismo, pessimismo, amore, gioia, disprezzo, incertezza, aggressività, violenza. Se voglio vendere qualunque cosa, dalla mia immagine a un vestito che indosso, devo sapere che per colpire nel segno devo rivolgermi alla psicologia di chi guarda. E chi guarda è sempre preda di queste emozioni e di questi sentimenti. Il marketing umano credo significhi questo: un approccio personale alla vendita, invece che tecnico, come era quando non esistevano i social. Ovviamente con l’obiettivo di girare tutto in positivo e sconfiggere o arginare il più possibile l’aggressività e l’odio che, come ben sappiamo, proliferano nella Rete.

C’è una relazione stretta tra le immagini che pubblichi su Instagram e le interazioni di chi ti segue, oppure chi ti segue è una folla anonima?

Ovviamente non conosco tutti gli oltre 350.000 follower che mi seguono. Ma con molti di loro ho un dialogo. Leggo i loro commenti e, spesso, rispondo. Del resto se non fai così Instagram ti punisce: bisogna assecondare questo social, se snobbi i suoi meccanismi credendo di essere tu il più forte ti sbagli. Instagram ti premia se gli dimostri di accettare il suo gioco, che è seguire per essere seguito, parlare, condividere immagini e pensieri.

Tu lavori per Tom Ford, per Dior, per Bulgari, per Gucci. Cosa ti chiedono questi brand? Cosa vogliono da te?

Per loro io sono una sorta di “ambassador”, qualcuno che porta alta la bandiera del loro marchio. Indossando i loro capi io trasferisco nel mio mondo le peculiarità di questi brand, li “riscaldo”. Vestiti che a volte sembrano irraggiungibili diventano più vicini e le conversazioni che si attivano li rendono accessibili, anche a chi non se li può permettere ma, magari, comincia col parlarne e finisce poi per acquistare una cravatta, un accessorio, un profumo di quel brand.

Com’è la tua giornata-tipo, come si svolge il lavoro di uno “strumento di marketing umano”?

La mia giornata la definirei un flusso. È come se lavorassi sempre, dando l’impressione di non lavorare mai. Ma il mio lavoro è stressante e, ti assicuro, faticoso. Perché non sono un modello che, alle 5 del pomeriggio, finisce di lavorare a va a casa. Io sono sempre in “overtime”, io lavoro ogni momento della mia giornata e, a volte, anche della notte perché mi si chiede di essere me stesso, non di interpretare un personaggio. È questo il marketing che funziona: conto io come individuo e conta il fatto che io mi rivolgo a ragazzi come me. Una volta il marketing era una torta con tante fette: una rappresentava il sesso, una l’età, una la provenienza geografica, una la capacità di spesa. Ora questa torta si è sbriciolata: posso comprarmi un pantalone di Prada e indossarlo con una camicia da 9 euro di H&M, tutto è trasversale. Quelle statistiche, quelle proiezioni di dati non contano più nulla. I marchi sanno che noi influencer siamo i veicoli adatti a questa nuova filosofia di vendita perché siamo persone vere che parlano con persone vere. I brand hanno smesso di considerare i loro clienti dei segmenti. Siamo uomini e donne, sempre, quando siamo su Instagram e quando compriamo online o in un negozio.

Ma, in questo modo, se lavori sempre senza lavorare mai, è come se il lavoro si smaterializzasse, come se diventasse astratto.

Non lo so. Forse sì. Certamente è un modo nuovo di lavorare. Io sono padrone di me stesso e del mio tempo, mi pagano per essere me stesso. Un modello deve conformarsi all’immagine che il brand esige, c’è un parrucchiere, un truccatore e uno stylist che lo adeguano agli standard richiesti dal brand,  un attore deve interpretare un ruolo. Un influencer invece è pagato per essere se stesso. Questa, se vuoi, è una piccola rivoluzione.

Sì, che elimina l’alienazione e ridefinisce i confini del profitto, che non è più frutto della fatica di chi fornisce la sua forza lavoro.

Questo non lo so, so però che anche io duro fatica, inoltre il mio lavoro è esposto al fallimento molto più di altri lavori. Proprio perché è così particolare è appeso a fili sottili che potrebbero improvvisamente rompersi: i brand possono infatuarsi di qualcun altro, io stesso potrei stancarmi o avere problemi che mi impediscono di continuare a farlo. Insomma sono un imprenditore a tutti gli effetti ma non posseggo nessuna impresa. L’impresa sono io, io sono il padrone e l’operaio.

Ma se tutto avviene sui social, dove si può già anche comprare, dalle città spariranno i negozi?

No, assolutamente. Però dovranno cambiare. Non saranno più luoghi dove si va solo per comprare, almeno non necessariamente. Dovranno diventare spazi più umani, attrezzarsi con aree relax, venire incontro ai bisogni di chi sta magari tutto il giorno fuori e ha bisogno di un luogo di sosta a un certo punto della sua giornata. I negozi del futuro saranno destination per appuntamenti, già Starbucks è stato un pioniere, consentendo alle persone di stare sedute a un tavolo a lavorare con il loro pc. Penso stia definitivamente tramontando l’era del commesso che ti guarda male se esci senza la shopping bag.

Cambia anche il linguaggio? La parola “cliente” ha un senso?

Mi verrebbe da dire di no. Se siamo persone umane, uomini e donne, e perfino le imprese sono considerate in qualche modo persone con il loro impegno sociale, la sensibilità verso l’arte oppure verso l’ecosostenibilità, è evidente che cambieranno anche i rapporti di relazione. Io per esempio parlo sempre alla testa dei miei follower, non mi interessa il loro portafoglio. Così faranno le imprese: cercheranno di avere un dialogo interessante, la capacità di spesa di chi le ascolta sarà un elemento secondario perché, tra tutti, ci sarà chi potrà comprarsi un cappotto da cinquemila euro e chi una cintura da centoventi o un profumo da sessanta. La cosa bella dei social è che hanno dato a tutti la possibilità di parlare, prima non c’era alcun dialogo tra le imprese e i consumatori. Ma oggi i consumatori conoscono i brand, si informano se il prodotto che stanno per acquistare è pulito, non vogliono saperne di lavoro minorile o altre forme di sfruttamento, vogliono prodotti che non inquinino…e se le aziende sgarrano sono finite perché i social non fanno sconti a nessuno, il passa-parola può essere impietoso.

Ma, con tutta questa umanità, che posto avrà la tecnologia? A me sembra prevalere.

Certamente la tecnologia sarà il nostro futuro ma proprio perché diventeremo sempre più digitali avremo sempre più bisogno di emozioni. La freddezza degli schermi con i quali interagiamo ogni minuto della nostra giornata dovrà essere compensata da emozioni vere. Poi c’è stata la pandemia che ci ha rinchiusi e allontanati gli uni dagli altri, tutti al pc e sui nostri smartphone. Appena finirà avremo un incredibile bisogno di esperienze fisiche.

Tutti siamo persone, le aziende sono “persone”, gli influencer guadagnano per essere se stessi, nessuno sembra sfruttare nessuno, tutti sono animati dalle migliori intenzioni: ma è la vita vera o quella fasulla che vediamo su Instagram?

Non sono d’accordo che le vite che vediamo su Instagram siano false. Su Instagram tutti cerchiamo di mostrarci migliori di come siamo ma, nel farlo, ci autoeduchiamoad esserlo veramente. Almeno io la penso così. Su Instagram tutti sono alla ricerca della bellezza, cercano di fare foto belle, di farsi selfie sorridenti. È come Ikea che, con prezzi bassi e un gusto non pacchiano, ha piano piano migliorato l’arredamento delle nostre case. Instagram è come Ikea: piano piano ci abitua ad essere migliori.

Ma non ti fa paura questo potere, qualora sia reale?

Certo che è un potere reale. Instagram e Facebook sono potentissimi, controllano quasi tutta la superficie del pianeta. Ma io sto parlando di marketing e di vendita di prodotti e non sono spaventato. Non voglio toccare la questione politica di cui so poco ma che intuisco essere problematica.

Una provocazione: perché stai lanciando una tua collezione di occhiali da sole? Non ti bastava essere tu l’impresa di te stesso, vuoi fondare una impresa vera, con un prodotto vero da vendere. Perché?

Te l’ho spiegato prima, avremo presto bisogno di una grande fisicità. Ma se guardo ai più grandi marketplace hanno tutti delle extension fisiche: Net-à-porter ha fondato un magazine di moda, cartaceo. Yoox apriva dei pop up store fisici. E anche noi, dopo ore passate a chattare, abbiamo bisogno di incontrarci live. Siamo umani, non ancora robot.

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*Paolo Landi si occupa di comunicazione e ha scritto alcuni libri sull’educazione dei minori all’uso consapevole dei media. Recentemente ha pubblicato “Instagram al tramonto” (La Nave di Teseo)

Commenti
8 Commenti a “Il marketing umano. Intervista a Carlo Sestini, influencer”
  1. Bernardo ha detto:

    Al di là della retorica e del tanto decantato human-centred-whatever: “Quando io nutro il mio Instagram…” si tratta di marketing antropomorfo, personale e vivo; mi ha ricordato il Tamagotchi, ma sono ormai vecchio.
    Un bell’articolo, ben scritto e con una testimonianza di una persona vera.
    Pensavo che il momento degli influencer fosse finito, persino finalmente, ma di questo tipo di soggetti, finalmente persone, il mercato avrà sempre bisogno: bravo Carlo.

  2. Egle ha detto:

    Fa sempre un piacere leggere questo tipo di interviste.
    Davvero molto interessante.

  3. Fabio Albanese ha detto:

    “Mi pagano per essere me stesso”, la più difficile delle sfide di Instagram. Perché il trucco se c’è si vede e il pubblico in sala se ne va senza salutare. Questa intelligente e colta intervista mi ha svelato che il segreto di Carlo, narratore di successo, è quello di essere un artista di talento, sorprendente e creativo, invitato alla corte dei brand per meriti innati prima che di marketing. Un gioco della verità in cui influencer, marche e consumatori, si parlano. Guardandosi negli occhi.

  4. Foobaoff ha detto:

    L’influencer è “vero” ma il motivo per cui risponde ai commenti è assecondare le logiche dell’algoritmo di Instagram… 🤔

  5. Elisabetta ha detto:

    Conosco Carlo fin da piccolo e devo dire che in questa sua intervista, ho ritrovato tutta quella sua purezza, che fortunatamente lo ha lasciato libero nella sua maturità, di continuare a vedere ciò che lo circondava, con estrema innocenza e bellezza..e questi sono i risultati…Bravo Carlo🥰

  6. claudio ha detto:

    lo shopping e lo stile son sport nazionali, spreco di tempo star dietro a tutta questa narrazione. dal suolo italiano insegnamo a mezzo mondo a produrre e consumare moda.
    l’influencer è destinato ad esser nicchia autoreferenziale.

  7. Paola ha detto:

    Intervista interessante che affronta un argomento molto discusso nelle aziende. Affidare la voce di un brand agli “influencer” sembra essere un percorso obbligato per parlare ai propri consumatori ma come scrive bene l’autore , per parlare con i propri consumatori bisogna raccontare qualcosa di interessante . Questa è la vera sfida.

  8. Silvia ha detto:

    Intervista interessante che suscita molte domande. Sono davvero me stesso se mi pagano per farlo? Davvero alle aziende non interessa la capacità si spesa dei follower? Divento una persona migliore mostrando agli altri il mio lato migliore?

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