Il racconto e la complessità del presente. Intervista agli autori della seconda quartina di Tetra
Quattro racconti di quattro grandi autori ogni quattro mesi, Tetra Edizioni riunisce le voci dei migliori scrittori contemporanei, con l’intento di restituire ai lettori un mosaico della scena odierna attraverso la forma del racconto, unendo grandi maestri a giovani penne. Andrea Donaera, autore presente nella prima quartina, intervista i protagonisti della seconda: Romana Petri, con Uno per due Eduardo Savarese con La camera di Ondino, Maddalena Fingerle con Una proposta stronza e Daniele Petruccioli con Sotto la città.
Come state? Potete dircelo attraverso un racconto di sei parole?
R.P.: Davvero, adesso non saprei cosa dire.
E.S:: Con Ondino mi sento in alto.
M.F.: Sdraiata, il computer in bilico.
D.P.: Uscì di casa tremebondo e sorridente.
C’è quel frettolosissimo aforisma di Bukowski – qualcosa del tipo: «La poesia dice troppo in poco, la prosa dice poco e ci mette troppo». Ammettendo per un attimo la legittimità di una posizione teorica di questo tipo, secondo voi il racconto dove si colloca?
R.P.: Ammettiamo la legittimità. Per me è solo una questione di scrittura. Quando è priva di retorica o di parole e verbi orrendi, che sia di 5 pagine o di 1000 leggo sempre con grande piacere.
E.S.: Il racconto dice moltissimo perché procede per folgorazioni “poetiche”: in qualche modo, attua una forma di conoscenza platonica, non mediata da strutture narrativo-argomentative totalmente esplicitate, realizzando, piuttosto, un accesso al senso che è immediata, per certi versi epifanica e mistica.
M.F.: In realtà faccio estrema fatica a pensare in queste categorie, ma giochiamo: il racconto dice poco, ma almeno ci mette poco.
D.P.: In un luogo dove non si cerca di dire niente ma di raccontarlo bene.
Poi c’è un’altra questione, annosa, e se possibile ancora più soggetta a banalizzazioni: quella della cosiddetta “ispirazione”. Eppure, leggendo i vostri racconti, il pensiero che attraversa in modo trasversale la persona che legge riguarda proprio l’eterogeneità degli elementi che sembrano avervi ispirato. Fingerle raccoglie materiale dalla sua vita accademica per farne prosa di ricerca; Savarese si spinge fino agli estremi di mitologie a noi lontane per dirci qualcosa del nostro tempo; Petruccioli si immerge in un essere umano fino a creare una speleologia emotiva; Petri fa suoi quesiti ombrosi che fuori da un’architettura letteraria offrirebbero soltanto ombre e che qui invece illuminano. Ci dite un po’ cosa è successo, in voi, quando vi siete detti: «Ecco, il mio racconto parlerà di questo?».
R.P.: Quando mi chiedono un racconto, apro il PC e mi metto a scrivere. Non lo so quello che scriverò, mi bastano le prime tre righe, e se con loro consuono vado avanti. La storia la decidono sempre i personaggi. Non avevo in mente nessun triangolo amoroso, del passato o del presente. Mi è apparsa questa bellissima donna ormai anziana e allora l’ho descritta al meglio della sua vita e in quell’inevitabile peggio che è la vecchiaia. Sono una fan di Diario della guerra al maiale di Bioy Casares: il meglio è sempre la gioventù.
E.S.: Mai come in questo caso, l’ispirazione è stata forte e chiara. Il mio racconto doveva parlare di bellezza dispersa e recuperata, di corpi santi, di desiderio di genitorialità, e dell’angoscia che l’arte e la scrittura debbano pagare il dazio di diventare strumenti, anch’esse, di potere. A me non era chiaro tutto questo. Ma scrivendo si chiariva felicemente. Questo racconto mi ha dato la sensazione di aprire molte finestre e mettermi in metto all’aria che riempiva la mia stanza.
M.F.: Inizialmente avevo pochi elementi: una citazione di Marino e il fastidio per la vuota, avvilente esposizione di temi come gravidanza e maternità. Mi sembrava troppo poco per scriverci un racconto, ancora meno per un saggio. Continuavo a dire: è una follia, non ha senso. Poi ci ho provato e mi sono divertita molto, ma non mi sono mai detta: il mio racconto parlerà di questo. Solo alla fine ho detto: ecco, il mio racconto parla di questo.
D.P.: Cerco di non pensare a storie ma a temi, relazioni che mi interessano. Scelto il tema, mi concentro sulla voce. Poi stabilisco una traccia, una mappa di situazioni – ma molto aperta, tipo partitura jazz – e comincio a scrivere lasciando tantissimo spazio all’improvvisazione. Può suonare un po’ paradossale, ma una struttura forte mi serve a sentirmi più libero di improvvisare. Allora, per provare a dare una risposta alla tua difficilissima domanda: l’ispirazione, o meglio l’improvvisazione, per me si identifica in una struttura chiara che serve a dare voce a cose oscure.
Che rapporto sentite tra questi racconti e la vostra produzione in “prosa lunga”? Chi ha letto i vostri libri coglie una continuità, percepisce il vostro passo, ma sarebbe interessante come considerate il vostro percorso dall’interno della vostra stessa scrittura, alla luce di questo nuovo episodio letterario che avete dato alle stampe.
R.P.: Non saprei cosa dire perché di racconti ne ho scritti tantissimi. Ne ho il PC pieno. Ma sono d’accordo con Flannery O’Connor. Per scrivere un romanzo ci vuole più tempo (lapalissiano) e dunque anche una concentrazione più prolungata. Quello che mi piace del racconto, è quando mi danno un numero dibattute. Lo consegno che è sempre di quel preciso numero. E giuro, non potrei aggiungerne o toglierne nemmeno una.
E.S.: Per me questo racconto rappresenta la forma “compressa” di un romanzo che uscirà. Come se ne avessi sintetizzato temi e attitudini in una forma, appunto, di sintesi. Questo dialogo interno tra le forme che pratichiamo è davvero una cosa potente e interessante. A me era capitato in passato di scrivere forme di saggio/racconto in continuità col romanzo precedente. Per esempio, “Il tempo di morire” rispetto a “Le cose di prima”. Qui è accaduto che, finito il romanzo, non è arrivato il saggio/racconto ma il racconto puro, come rimeditazione folgorante.
M.F.: Gli elementi che accomunano i due testi sono il gioco linguistico e intertestuale da una parte e la leggerezza dall’altra. Ma a parte questo il racconto parla del processo di scrittura come un percorso lento e graduale, che rispetti i tempi naturali senza bruciare le tappe – mi sembra si inserisca bene nella metariflessione sul (mio) percorso di scrittura.
D.P.: La forma racconto è un po’ la cellula di tutto quello che scrivo. Scrivo per episodi, per crisi, luoghi, momenti, tanto che spesso sacrifico la linearità temporale della storia per avvicinare situazioni topiche. Quindi, anche se questo è venuto dopo, in realtà è un prima. O piuttosto un dentro.
Quando sono stato coinvolto da Roberto Venturini nell’avventura di Tetra ho percepito sin da subito un prezioso sentore di libertà: questo progetto editoriale sembra voler sprigionare, in qualche modo, il meglio di autrici e autori coinvolti – e non racchiuderli in una maniera circoscritta di fare libri, come invece capita spesso in certe collane che prevedono indicazioni tematiche e/o stilistiche stringenti. Voi che ci dite a tal proposito?
R.P.: Non sono mai stata costretta a fare nulla. Non potrei accettarlo perché riesco a scrivere solo di quel che mi arriva e mi va. Accetto sempre di scrivere purché libera. E Tetra mi sembra davvero molto, molto libera. E coraggiosa.
E.S.: Gratitudine eterna a Venturini e Tetra. Mi sono sentito libero, ho praticato libertà compiute e perfette, ho provato gioia. Una grande gioia.
M.F.: La libertà l’ho sentita soprattutto sui tempi: non c’è stato mezzo secondo in cui io abbia percepito ansia in questo senso. Roberto Venturini è stato presente, ma mai pressante e questo mi ha permesso di lavorare con molta serenità stando dentro al testo e dimenticandomi del resto.
D.P.: Che hai ragione. Nemmeno per un attimo mi è sembrato un libro su commissione. E d’altra parte non ho nulla contro i libri su commissione. Penso aiutino ad ampliare orizzonti, accettare limiti. Sotto sotto la libertà non so se mi sembra un valore proprio assoluto. È imprescindibile, certo. Ma secondo me si nutre anche di costrizioni, o meglio di contraintes.
Vorreste rifare questo passaggio nel mondo del racconto? Per me non è stato facilissimo passare dal romanzo (o dalla poesia) al racconto breve, e infatti non so se mi cimenterò di nuovo, nel breve tempo, in scritture di questo tipo. Per voi invece la dimensione del racconto, dopo l’esperienza di Tetra, ha assunto maggiore centralità nell’ideazione delle vostre scritture presenti e future?
R.P.: Certo che lo rifarei, ne ho scritti tantissimi in vita mia. Il racconto mi è congeniale quanto il romanzo. Di romanzi ne ho pubblicati di più, ma non vuol dire. Poesie non ne ho mai scritte. Passare dal romanzo al racconto, invece, mi è davvero naturale.
E.S.: Non so. Di certo l’esperienza realizzata rende più probabile che non la ripetizione di questa forma, così difficile, preziosa. Spero di riuscire a tornarci con quel senso di libertà e di gioia che ho richiamato sopra.
M.F.: Prima di Lingua madre (Italo Svevo) scrivevo solo racconti e in realtà credo di non avere mai davvero smesso. Una proposta stronza può essere considerato un racconto, ma credo che sia più un finto saggio romanzato. Credo che con Tetra sia aumentata la mia voglia di leggere (più che di scrivere) racconti e prosa breve, tanto che quando ho finito i primi quattro ho sentito un senso di vuoto.
D.P.: Al momento sto lavorando su cose dal respiro lungo. Ma mi piacerebbe tantissimo ricominciare a scrivere racconti. Mi sembrano una palestra imprescindibile.
Siete scrittrici e scrittori che, in un modo o nell’altro, partecipano come protagonisti nella letteratura italiana contemporanea. Secondo voi, dunque, come sta questa benedetta letteratura italiana contemporanea? Bene, male, asintomatica? Confidiamo nelle vostre conclamate capacità di raccontisti per una risposta almeno un po’ sintetica.
R.P.: Credo del meticciato in tutto. Quando un autore mi piace, poi scopro che è anche un grande lettore di letteratura straniera. La contaminazione (io faccio anche traduzioni dal francese e dal portoghese) è ciò che ci aiuta molto nell’uso della lingua. La penso come i grandi sportivi: il talento è indispensabile ma non basta, ci vuole l’allenamento.
E.S.: Secondo me, sta bene. Deve faticare tanto – come sempre l’erba buona – a non farsi soffocare dalla gramigna.
M.F.: Non credo di avere le competenze per giudicare la letteratura italiana contemporanea né di stabilirne il suo stato di salute. Posso dire che la leggo, che sono curiosa e che noto alcune tendenze, ma sono osservazioni molto soggettive. Una negativa è che ho l’impressione che invece che libri “lavorati” e finiti vengano spesso pubblicate prime bozze o appunti, non privi di intuizioni o idee che si potrebbero sviluppare per scrivere romanzi o racconti. Una positiva, invece, è che mi sembra ci sia una ricerca di linguaggio, ma forse si leggono le cose che piacciono e questo deforma un po’ anche la percezione.
D.P.: Credo ci voglia un po’ di distanza, di respiro. Riesco a malapena a imbastire un giudizio sugli scrittori che leggevo negli anni Ottanta e Novanta. Questi degli anni Dieci e Venti ho bisogno di leggerli e rileggerli di più. Però ti posso dire che mi piace moltissimo leggere i giovani scrittori di adesso. Mi sembra un ottimo segno.
Andrea Donaera (Maglie, 1989) vive a Bologna. È laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università del Salento, dove è segretario del Centro di ricerca “PENS: Poesia Contemporanea e Nuove Scritture”.Dal 2016 dirige la collana di poesia Billie della casa editrice ‘Round Midnight. È il direttore artistico del festival letterario “Poié” di Gallipoli, e del Festival della poesia dialettale “Oju lampante”. Dal 2017 collabora con il magazine di approfondimento culturale “Midnight”, curando la rubrica Urban dedicata alla giovane poesia italiana.
Ha pubblicato alcune raccolte di poesia. Tra le ultime: “Il latte versato” (Sigismundus, Ascoli Piceno, 2012, postfazione di Elio Pecora); “Certe cose, certe volte” (Marco Saya, Milano, 2013, introduzione di Nicola Vacca); “Occhi rossi” (‘Round Midnight, Campobasso, 2015, prefazione di Davide Rondoni). Ha inoltre pubblicato il saggio “Su una tovaglia lisa. Nell’Inventario privato di Elio Pagliarani” (L’Erudita, Roma, 2017). Suoi testi e interventi sono stati ospitati su diversi blog e riviste, come La Lettura del “Corriere della Sera”, “Nazione Indiana”, “Crapula Club”, “Inutile”, “Atelier”, “Argo”, “Critica impura”, “Vibrisse”, “Interno poesia”, “Poetarum Silva”, “Poesia 2.0”.
Nel 2018 ha vinto il Gran Premio Assoluto della Giuria del premio internazione di poesia “Ossi di seppia”.