Intervista a Emanuela Anechoum, l’autrice di “Tangerinn”

La prima recensione che ho scritto per minima&moralia, veniva dal cuore, ed è stata quella di Tangerinn di Emanuela Anechoum. È stata istintiva, sincera, e proprio per questo mi ha portato a conoscere meglio questa scrittrice esordiente, così sensibile, brillante; una di quelle persone buone che hanno tanto da dire ma che vogliono sapere anche tanto di quello che hai da dire tu.

Ci siamo incontrare una sera di maggio in una vineria. Era impegnata in diversi incontri e presentazioni per il suo libro ma è riuscita a trovare un momento per me, e davanti a qualche calice di rosè abbiamo parlato di scrittura, di razzismo, di identità e di cosa significa essere sé stessi oggi in Italia.

Quando hai iniziato a scrivere Tangerinn?

Le parti ambientate in Marocco ho iniziato a scriverle nel 2018, ma in realtà le avevo scritte in forma di racconto tempo prima. Però erano racconti scritti dal punto di vista di Omar; erano dei racconti di formazione e io ero convinta sarei riuscita a descrivere bene l’esperienza di un giovane ragazzo musulmano negli anni 70 a Casablanca, cosa che poi, mi sono resa conto, fosse molto difficile.

Nel 2020 dopo l’uccisione di George Floyd e il movimento Black Lives Matter, si è aperto il discorso sulle tematiche del razzismo, e ho pensato di cambiare il punto di vista della mia storia, e utilizzare una voce filtrata che potesse parlare dell’immigrazione in Italia e in Europa. Ho quindi cominciato a scrivere Tangerinn tra il 2020 e il 2021 e l’ho terminato nel 2023.

Nel processo di scrittura, qual è stata la parte più fluida e quella più difficile da realizzare?

La parte più fluida è stata quella ambientata a Londra. È stato molto divertente scrivere di Liz, perché Liz in parte sono anche io. Non ho preso una singola persona per crearla, ho usato me stessa, le mie amiche, e la bolla editoriale che frequentavo a Londra che si autoproclama spesso come woke, ma poi se si va a vedere nel dettaglio, non lo è; anche a Londra l’editoria è tutta bianca e classista. Bisogna avere una base economica solida per poter intraprendere questa carriera. Io ho fatto uno stage non pagato e sono stata supportata dai miei genitori. Se non avessi avuto il loro aiuto, non avrei mai potuto farlo. Sono stata privilegiata da questo punto di vista, ma volevo parlare di questa esperienza dalla prospettiva di Mina, che privilegiata non è.

La parte più difficile da realizzare è stata la parte marocchina. Mi sono fatta aiutare tantissimo da mio padre, lo intervistavo, gli chiedevo un sacco di dettagli, è stato un processo molto lungo ed ero piena di dubbi, avevo paura di farlo nel modo sbagliato e filtrato da dei bias, quindi cercavo di esternarli. Come accade nella conversazione di Mina con Aisha sul velo.

Ti ricordi il tuo primo approccio con la scrittura?

Una delle prime cose che ho scritto è stata una fanfiction di Harry Potter. Avevo quattordici anni, non mi era piaciuto il finale del quarto film allora pensai “io lo cambio”. Volevo che Harry e Hermione stessero insieme. Poi ne ho scritte tantissime di fanfiction.

Si parla molto di identità. In quanto donne di colore nate in Italia, capire chi siamo e comportarci di conseguenza mentre il mondo esterno prova a sentenziare su questo, può essere un percorso intenso e travagliato. Come si muove Mina in questo percorso, e come ti muovi tu?

In modi molto diversi. Io ho avuto un sacco di difficoltà perché cercavo di intellettualizzare una cosa che era emotiva, non cerebrale. Quindi ho avuto delle fasi di incertezza in cui facevo ricerche assurde su Google come “ma gli arabi sono bianchi?” Sono entrata in dei rabbit hole terrificanti, perché ci sono tutti degli studi su questa cosa, ma non rispondono alla domanda. La percezione che ho sempre avuto io, è che ero diversa dai miei compagni di scuola di Reggio Calabria. Anche se di fatto, non ero del tutto diversa da loro. Avevo il cognome diverso, il padre musulmano, non avevo la comunione, però avevo tutti i privilegi di una persona bianca. Sono nata in una famiglia borghese, i miei genitori mi hanno sempre fatto avere tutto quello di cui avevo bisogno. Non mi sono mai sentita legittimata nel dire “sono parte di una minoranza”, perché ho tanti privilegi della maggioranza. Ma non mi sentivo comunque uguale agli altri, e non sentivo neanche di poter rivendicare la cosa. Ero un po’ incastrata tra questi due mondi, finchè non ci ho fatto pace.

Mina è persa, non sa chi è, non tanto a un livello di identificazione razziale ma proprio a un livello psicologico. Non solo è mista, ma ha dei genitori che non l’hanno guidata nel mondo, non è stata aiutata a trovarsi. La sua è una ricerca emotiva, che parte con “chi sono?” e finisce con “chi ama una come me?”. Perciò in lei ho voluto costruire qualcosa di molto più profondo e complesso.

È sempre strano pensare a come cresciamo noi, figli di famiglie miste. Mia mamma è romana, mio papà è congolese, ed è sempre stato orgoglioso di esserlo. Nonostante questo, non ci parlava quasi mai in francese da piccoli, perciò io e mio fratello non lo conosciamo bene come dovremmo. Quest’anno sono andata in Congo per la prima volta e tutti i miei parenti rimanevano sorpresi nello scoprire che mio papà non ci parlasse sempre in francese.

Mio padre dice che inizialmente aveva provato a parlare in francese in casa. Soltanto che poi i miei genitori si erano spaventati, perché avevo cominciato a mischiare le due lingue, e quindi erano tutti preoccupati perché pensavano che alla fine avrei fatto troppa confusione e non ne avrei imparata bene nessuna. La lingua però ti fa metà dell’identità. Insieme alla religione. Se avessi saputo bene la lingua, mi sarei sentita molto più in pari.

Ci sono state delle letture che ti hanno ispirato durante la realizzazione di Tangerinn?

Ho letto Sally Rooney, Deborah Levy, Rachel Cusk e Olivia Leing per le parti londinesi. Poi Vito Teti per scrivere del sud, e Tahar Ben Jelloun, Leïla Slimani e Lawrence Osborne per il Marocco. Poi mi hanno ispirato anche delle serie tv, come Shameless e Girls.

Il tuo libro mi ha travolto. Mi ha fatto sentire vista, e capita, l’ho divorato. Chi ti fa sentire così nella tua vita?

Oddio, mi metto a piangere! Allora, devo dire che i lettori mi fanno sentire così.

Invece quando non ci sentiamo capiti, ci nascondiamo. Io ho trascorso tutta l’adolescenza a cercare di mimetizzarmi. Mentre lo fai neanche te ne accorgi, ma è una costante.

Certo. Con i vestiti, con i gusti musicali, nel modo in cui ti comporti, con la gente che frequenti.

Immagino un sacco di persone lo facciano, perché sei convinto che se cerchi di essere come gli altri, verrai accettato, ma non funziona. Non ti vedranno mai come “uno di loro”, sarai sempre quello diverso in quanto non bianco. Io cambio città da quando sono nata, e in adolescenza cambiai proprio il mio accento, il mio modo di parlare, per far sì che assomigliasse a quello dei miei compagni di classe. Mi bullizzavano sui vestiti, allora provavo a mettermi le scarpe che indossavano loro ma mi bullizzavano comunque. Non vinci mai.

Esatto. E se ti mimetizzi troppo, i tuoi amici spesso – in adolescenza, ricordo – si dimenticano che tu sei diversa, e dicono delle cose terribili davanti a te come “questa borsa puzza di marocchino”.

Sì, non sai quante volte mi è capitato che delle persone, miei amici anche, dicessero “negro” davanti a me. Io mi sentivo pietrificata sul momento, non sapevo come reagire, pensavo “ma non si rendono conto che è sbagliato? Che lo stanno dicendo a me?” E quando riuscivo a dirgli “guardate che è offensivo”, mi rispondevano che no, non era così.

Lo dicevano anche davanti a me, e mi sentivo sempre come se non potessi lamentarmi. Quando anche io esprimevo il mio pensiero, mi dicevano “ma no, ma te sei calabrese, sei più bianca di me” perché c’erano calabresi più scuri di me che dicevano “io non mi offendo e sono più scuro di te!”. Io provavo a spiegare loro che non fosse una questione di gradazione, di colore, ma una questione emotiva. Ti risveglia una sensazione di pericolo, quella parola.

C’era una gran confusione. Da una parte sentivi termini che non dovevi sentire, venivi trattato diversamente, venivi isolato. Dall’altra parte c’erano i “ma che bella pelle che hai, tu sei sempre abbronzata, vorrei essere così”, o “posso toccare i tuoi capelli?” (li toccavano prima di chiederlo). Mi ricordo quando ho iniziato a dire di no, quando mi facevano questa domanda, è stato bello non lasciarsi trattare come un pupazzo, un oggetto.

Secondo te è migliorata la situazione dal 2020 in poi? C’è più consapevolezza?

Non lo so, non credo. Sicuramente crescendo, vedi dei comportamenti diversi, rispetto a quelli che vedevi da adolescente. Però non so come sia la situazione ora nelle scuole. La domanda che mi facevano sempre “sì ma di dove sei?” perché non gli bastava sapere che fossi nata a Roma, ecco quella non me la fanno quasi più. Però non penso ci sia stato un vero e proprio cambiamento. Basti pensare a come veniamo trattati al lavoro, per strada, dalle forze dell’ordine, potrei fare molti esempi, personali e non. Sono stata trattata malissimo dai militari in stazione nel 2020. E più recentemente ho subìto un episodio di razzismo dai poliziotti a Forlì. In generale poi, ogni volta che salgo su un treno e vedo come anche solo i controllori, trattano chiunque non sia bianco, mi sale una forte rabbia.

Una mia amica stava andando da Amsterdam a Londra in treno, post Brexit, la polizia di frontiera la fermò perché aveva un documento che non andava bene – lei lavorava tra l’Italia e Londra – e le dissero “hai un parente che sta morendo? Se non hai un parente in fin di vita, non ti facciamo passare”. Quello è proprio l’abuso di potere. Ti vedono inerme e ne approfittano.

Poi purtroppo abbiamo anche situazioni di disequilibrio nella comunità stessa: io so, in quanto mixed, di essere più privilegiata di una ragazza nera, ma siamo entrambe trattate diversamente e discriminate da chi sta al di fuori della comunità. Quando sono andata in Congo ho notato che la gente per strada mi fissava sempre, allora ho chiesto a mio papà come mai mi guardassero e mi ha spiegato che le persone miste lì, vengono considerate molto belle. Ci stanno squilibri e convinzioni sbagliate anche tra di noi.

Mio padre dice sempre che c’è molto razzismo tra i marocchini di Tunisi, e quelli del del sud, per esempio.

È tutto molto complesso. Tornando alla scrittura e al tuo bellissimo libro: cosa consiglieresti alle aspiranti scrittrici di oggi?

Di leggere tanto, di tenersi il lavoro che hanno. Se si vogliono scrivere tanti libri, consiglio di trovare una casa editrice, anche piccola, che dia l’opportunità di crescere e che ti segua, invece di farsi tentare da realtà più grandi che poi magari non sono quello che sembrano. Consiglio anche di negoziare le royalties, più dell’anticipo del libro.

Cosa stai leggendo al momento? Chi sono i tuoi autori preferiti?

Baba di Mohamed Malel, mi è piaciuto molto, ho pianto. I miei scrittori preferiti non te li so dire perché sono tanti, sicuramente mi ha formato Cime Tempestose, alcuni lavori di Virgina Woolf, Bianca Pitzorno. Con me in borsa ho l’ultimo libro di Sayaka Murata, devo iniziarlo domani sul treno.

 

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