Intervista a Michael Chabon

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È in edicola il nuovo numero di IL, il magazine del Sole 24 Ore. Pubblichiamo un’intervista di Francesco Pacifico a Michael Chabon uscita su IL a settembre 2013. (Immagine: Getty Images)

Intervista ai tavolini di legno e vetro di un albergo di Capri, a venti metri dalla piscina, intorno il via vai pomeridiano assonnato degli altri ospiti del festival Le Conversazioni. Chabon interverrà in serata insieme alla moglie Ayelet Waldman.

Mi sembri un maniaco della scrittura, qual è il tuo metodo di lavoro?

Varia da libro a libro. A volte, raramente, un’idea mi arriva praticamente tutta formata, la vedo tutta insieme, e sento già come i diversi elementi faranno parte della storia e devo appuntarmeli rapidamente per non scordarli. E mi dico: e questo, e quest’altro, e poi succederà anche questo. Mi è successo solo due volte. Con Wonder Boys, il mio terzo libro. E con il libro che sto scrivendo adesso… Ma è troppo presto per parlarne in dettaglio… Altre volte mi viene un aspetto, un elemento, all’inizio, di cui sono sicuro di voler parlare.

[Fa la prima di un certo numero di lunghe pause calmissime di silenzio per bere acqua]

Con Il sindacato dei poliziotti yiddish sono partito dall’idea di cercare di ambientare un romanzo in un posto immaginario in cui si potesse usare questo frasario che avevo scoperto, si chiamava Say It in Yiddish, un frasario per viaggiatori. E questo frasario era stato messo insieme molto dopo la fine della seconda guerra mondiale e molto dopo che due terzi dei lingua madre yiddish erano stati eliminati e non esistevano più luoghi in cui usare effettivamente il frasario, che è del 1958.

Dove l’hai trovato?

In libreria. Si trova. Vai su Amazon. Clicchi, due giorni e ce l’hai. Mi colpì moltissimo: e dove dovrei portarmelo, questo libro? Dove lo userei? Scrissi un saggio a proposito, speculando di possibili luoghi immaginari in cui usarlo, ma non mi bastò, pensai che volevo esplorare ancora quell’idea. E l’idea con cui cominciai a scrivere quel libro non fu bum bum bum questa e quest’altra cosa – ma una sola idea di partenza.

Era anche un argomento delicato.

Non me ne accorsi subito.

Ti criticarono, vero?

Sì, la comunità internet di parlanti yiddish. Alcuni dei membri dissero che avevo mancato di rispetto sia verso la lingua stessa – perché sembravo presumere che fosse una lingua morta mentre non lo è – sia verso l’autore, che scoprii essere uno dei più amati e stimati studiosi di yiddish e che era morto giovane, era una specie di ultima speranza dello studio dell’yiddish ed era morto e sembrava che io stessi mettendo in discussione l’idea alla base del libro, che tentassi di ridicolizzarlo o fargli il verso – e ovviamente non era la mia intenzione né credo di averlo fatto involontariamente, ma all’inizio di quel libro avevo solo quell’idea, e tutto il resto, l’ambientazione in Alaska, la forma della storia hard-boiled di detective, che avrebbe parlato dell’assassinio di un potenziale messia, sono tutte cose emerse col tempo, scrivendo. E questo è il mio processo più tipico. Partire da una cosa che mi interessa.

I tuoi romanzi ambientati nel passato sono pieni di dettagli. Gli appunti sono centrali?

Comincio prima a scrivere. A meno che non abbia l’idea già tutta formata. Di solito comincio e poi scopro di cosa parla il libro. Dove si ambienta. Chi sono i personaggi.

Allora quando fai le ricerche? Ti fermi su una frase e vai a cercare su internet?

Cerco di non farlo. È una brutta pratica. Io cerco di scrivere sulle mille parole al giorno. Per me funziona meglio se spengo internet. Mi pare molto più facile, se vuoi scrivere mille parole.

Ci vogliono venti minuti a scriverle, senza internet…

Sì infatti. O anche due, tre ore. Insomma, a volte devo dedicare… Esempio, con questo libro che sto scrivendo, ho scritto molto… parla diciamo di come gli alleati durante la seconda guerra mondiale reclutarono, o rapirono in modo benevolo, scienziati nazisti che lavoravano su tecnologie che gli alleati volevano usare o che semplicemente non volevano fossero usate dai nazisti. Gente come Wernher von Braun, ingegnere aerospaziale, scienziati nucleari tedeschi che lavoravano alla bomba atomica tedesca, questi furono trafugati in America, gli diedero nuove identità, li riabilitarono, gli diedero la cittadinanza. Gli andò molto bene, considerato tutto. Molti di loro erano membri importanti del partito nazista. Se non li riuscivano a convincere, erano pronti a eliminarli. Ho letto delle cose a riguardo, si chiamava Operazione Paperclip. Non ne so abbastanza per poterne scrivere ancora, perciò adesso devo interrompere la scrittura per fare della ricerca. Un paio di giorni, non voglio perderne di più. Voglio tenere il ritmo.

Kavalier & Clay è ambientato a metà del Novecento ed è scritto in un dettaglio pazzesco. Come fai a ottenere tutto quel materiale? La parte sul Golem…

Per lo più me lo invento.

Allora soffri di uno strano disturbo.

[Ride.] Devo spesso ricordarmi che la ricerca è una trappola. È allettante, andare su internet, wikipedia, e seguire link dopo link. Puoi illuderti che come romanziere ti serve più ricerca. Non è vero. Forse la cosa da imparare è che non ti serve conoscere i fatti. Se i fatti non si adattano alla tua libertà artistica.

Ma non penso ai fatti. Penso al tessuto della vita in un’altra epoca.

Per lo più è osservazione, se non diretta, allora libri letti, film. Quando scrivevo Kavalier & Clay guardavo tanti vecchi film, ma devi ricordarti: è un film. Se hai Barbara Stanwyck e Fred MacMurray che parlano in un certo modo in un film non significa che all’epoca si parlasse così.

Almeno però gli oggetti…

Certo. Se vedevo un telefono appeso al muro pensavo che si usassero così, altrimenti avrebbero detto: Che strano telefono! E se guardavo un film con Ginger Rodgers, lei nemmeno la guardavo, ma guardavo la sua borsetta, le sue scarpe.

E prendevi appunti?

Di solito no.

Memoria. E non fai esercizi per la memoria? È un tuo dono e basta?

Direi. Ne vorrei di più. E migliorerebbe, la mia memoria, se prendessi appunti, ma non è una mia abitudine. Sapevo che all’uscita del libro ci sarebbero state molte persone ancora vive che ricordavano di persona l’epoca e avrebbero potuto dire “non ci hai beccato”. Sapevo quindi di dover essere abbastanza bravo da illudere chi c’era stato che il mio libro fosse vero. È facile illudere uno nato nell’ottantadue. Per chi era nato nel ventidue o nel trentadue, chi se lo ricordava, dovevo azzeccare i particolari. Ma quel che conta è sviluppare un senso di quanto poco ci vuole per riuscirci. E a volte cerchi di trovare un equilibrio. Se voglio un nome di un membro del gabinetto di Franklin Roosevelt, negli anni quaranta, per qualcuno sarà un nome molto familiare. Harold Hickeys, certo che mi ricordo di Harold Hickeys, segretario di stato, e poi ci saranno quelli che hanno studiato la storia americana, e a loro il nome dirà qualcosa, ma avrai tanta gente che non ha idea, allora per loro dovrai dire chi era. Ma non vuoi insultare chi lo conosce. È una cosa delicata, e alla fine devi andare a istinto. E speri che il tuo editor capisca cosa va spiegato, e sappia dirti Basta così, non ti serve un altro paragrafo di spiegazione, oppure invece Qui vorrei saperne di più… Un editor di cui puoi fidarti, è a questo che servono.

Chi altro ti legge?

Mia moglie. E un paio di amici. E qualche esperto. Per Kavalier & Clay parlai con un po’ di gente nata a Brooklyn, compreso mio padre. Uno zio di mia moglie. Un mio caro amico più grande di me, cresciuto a Brooklyn, glielo feci leggere. Esperti di fumetti, amici miei.

Tra la gente che hai ringraziato alla fine del libro c’è anche Will Eisner. Lui lo lesse?

No. Solo dopo la pubblicazione. Non lo conoscevo abbastanza bene da chiedergli un favore così grosso. Lo avevo intervistato all’inizio della scrittura del libro, per avere i suoi ricordi. Mi aiutò molto, mi diede più di chiunque altro fra gli artisti e gli scrittori. All’epoca non avevo contatti nel mondo dei comics. Arrivai a lui tramite un amico di un amico di un amico che lo conosceva. E lo stesso con Stan Lee di Marvel Comics. Gil Kane. Grandi persone, grandi storyteller. Con Kane ci ho parlato tre ore. Ero interessato soprattutto all’infanzia. Dove comprava i vestiti, che marca di sigarette fumava. Quando erano negli uffici di Quality Comics, nel 1942, ascoltavano la radio? E Stan Lee. Gli chiesi soprattutto com’erano gli appuntamenti con le ragazze, dove le portavi. Le sue memorie sui fumetti sono tutte pubblicate. Eisner era stato un editore oltre che un artista negli anni quaranta. Lui mi parlò di com’era il business dei fumetti negli anni quaranta. Eisner fu fondamentale. Ma non mi lesse all’epoca.

E quando parlasti con questa gente avevi già iniziato a scrivere il libro?

Sì. Con Eisner fu magico. Quando ci parlavo avevo cominciato da poco. Avevo preso decisioni molto arbitrarie. Kavalier l’avevo reso immigrato dalla Cecoslovacchia. Non la tipica biografia di un fumettista. Di solito erano figli di immigrati. Non so perché. Ok, decisi che era un rifugiato. Era il 1939. Prima della guerra. Da dove poteva venire? Germania? Austria? L’invasione di Praga, marzo 1939. Ok allora è di Praga. Posso farcela con Praga. Sento che ce la posso fare. Poi comincio a scrivere e mando questo personaggio in America. Il cugino lo porta a presentare a un editore l’idea per un supereroe in costume. Mi metto nei suoi panni: non ha mai visto un fumetto. Ha solo letto Superman per un’ora. Non ha mai disegnato un supereroe. Ha studiato arte. Disegna un golem. Poteri soprannaturali, superforza, il golem è un super eroe. Vivevo a Los Angeles all’epoca. Salgo a Oakland a parlare con Will Eisner. Un’ora a una convention di fumetti. Lo riempio di domande. Che sigarette fumava, eccetera. Poi dico: ho notato che tu, Bob Kane, Jerry Siegel, Joe Schuster, siete ebrei in molti. Come te lo spieghi? Be’, mi dice, se ti piaceva disegnare e volevi camparci, a New York, nessuno dei campi ufficiali era aperto agli ebrei. Pubblicità, disegni per le aziende, arte alta, illustrazione. Il campo in cui ti assumevano se eri giovane, ebreo e senza esperienza era quello dei fumetti. Fa una pausa e mi dice: Ma sai mi sono sempre chiesto se l’idea del supereroe non avesse una base ebraica – il folklore ebraico, la mitologia. Per esempio, il golem. E io avevo appena deciso di fare il golem… E mi dice una cosa che poi diventerà l’epigrafe del romanzo: Abbiamo una storia di soluzioni impossibili a problemi insolubili.

Gli dicesti di Praga?

Non gli avevo detto niente del mio libro. Era troppo nuovo. Non sapevo ancora se l’avrei tenuto nel libro, che il protagonista veniva da Praga. Ma appena mi parlò del golem capii che ero sulla buona strada. Alla fine lo ringraziai, dissi che era stato molto generoso, bla bla, anni dopo mi disse, dopo l’uscita del libro, ci incontrammo varie volte, collaborammo pure, e mi disse una volta che quando mi ero alzato per andarmene dopo l’intervista lui aveva commentato: “Fanboy”. Mi aveva trovato solamente un giovanotto confuso.

Dopo la cosa del golem c’è la fase dettagliatissima della fuga da Praga.

A volte scrivo una parte in un grande slancio compositivo, per uno due tre giorni, mi chiudo e scrivo e penso, va bene. A volte ci torno dopo sei mesi e mi dico: non era per niente finito, che mi credevo? Altre volte so che non ce l’ho ancora in pugno e ho pazienza. La cosa davvero magica è che a volte hai una conferma interna e di colpo ti rendi conto di una cosa: Ah! è un giocatore di scacchi! Torno indietro a roba scritta due anni prima, dello stesso libro, e ci sta benissimo, è come se aspettasse questa nuova idea: avevo citato gli scacchi a pagina venticinque, e non ci avevo fatto niente, stava lì ad aspettare, è bellissimo, scopri che avevi già steso le condutture, avevi creato la possibilità di una presa elettrica.

Parliamo un po’ di Fountain City, il romanzo incompiuto mai pubblicato. Mentre parlavi di Kavalier & Clay pensavo che sembra più quello un romanzo che può fallire, rispetto a Fountain City, che parla di uno che vuole costruire lo stadio di baseball perfetto.

Capisco cosa vuoi dire.

O per lo meno sembrano improbabili allo stesso modo.

E vuoi sapere perché uno ha funzionato e l’altro no?

E come fu dopo quell’altro romanzo scrivere più di duemila pagine e fallire?

Fu durissima. Fu tremendo. Tutto. Tranne l’inizio. Anche lì, come sempre, avevo una cosa sola, a malapena: un’immagine, risalente alla mia luna di miele a Venezia. Del mio primo matrimonio. Camminavamo per i rii [in italiano]. E passai per la vetrina di una piccola libreria, e c’era un libro dal titolo What is Post-Modernism?, di Charles Jencks. Mi colpì, lo presi in mano, non so perché, e sul retro c’era una foto di Léon Krier, lussemburghese, specializzato in edifici e opere postmoderne neoclassiche, stile anni 80, e in disegni di paesaggi urbani idealizzati. Aveva disegnato Washington vista dall’alto, ma non com’è ma come secondo lui sarebbe diventata se il piano originario fosse stato eseguito. Un disegno bellissimo. È molto bravo. Era veramente evocativo. Io sono cresciuto fuori Washington, e sono cresciuto in una città un po’ utopistica progettata a tavolino. Quindi quella visione idealizzata della città vicino alla cittadina pianificata nella quale sono cresciuto mi colpì. L’utopia di quella visione era la sola cosa che avessi in mano, per cominciare. Cinque anni e mezzo dopo, era finito il mio matrimonio, il libro stava assorbendo, come i Borg di Star Trek, stava assimilando tutto, baseball, cucina francese, film giapponesi…

Cinque anni.

Cinque anni e mezzo. Tutte queste cose erano state assorbite, ma più lo scrivevo, meno sapevo cos’era. Avevo questo personaggio principale che non mi conquistava, non riuscivo a trovare il suo centro. E però ero sempre più impegnato a scriverlo.

Nel frattempo scrivevi altro?

Racconti. Ho smesso di scrivere racconti quando ho avuto figli. Occupa la stessa quantità di tempo. Il rapporto è di uno a uno. Dovevo scegliere… E insomma mi pareva impossibile abbandonare il romanzo. Economicamente, moralmente.

Qual era la tua situazione economica?

Avevo già preso l’anticipo dall’editore. Pensavo ci tenessero molto, al libro. In realtà ho scoperto poi di no. Alla fine gli ho dato un altro libro, Wonder Boys, e sono stati contenti così. Quindi avrei potuto rinunciare molto prima. Credo che rinunciai perché ero esaurito. E poi avevo conosciuto Ayelet. All’epoca era un avvocato e credo che economicamente sapevo che se fallivo completamente lei poteva mantenermi. Il che mi diede il coraggio. Poi una notte andò così, provai a scrivere un’altra cosa. Fu un’altra di quelle cose magiche: una voce mi comparve in testa, già formata, e disse quella che divenne poi la prima frase del libro – «Il primo vero scrittore che ho conosciuto si firmava con il nome di August Van Zorn». E seppi subito chi è che parlava, e cosa sarebbe successo, ed era così chiaro tutto che mi sentii sicuro di correre il rischio e provare, e mi dissi: prendiamoci sei settimane, vediamo che succede. Se è un vicolo cieco torno all’altro. Ma non ci tornai mai.

Quanto ti ci volle?

Sette mesi.

Quando lo dicesti all’editore?

Alla fine della prima stesura. Dissero Grande, vediamo un po’.

E che avevano detto dell’altro?

Non è che non gli piacesse. L’editor mi aveva dato solidi consigli. Diceva cosa funzionava e cosa no. Qui è lento qui no. Normali consigli da editor. Non mi dissero mai, neanche dopo, ah menomale che ci hai dato un altro libro. Mi dicevano ok, sei sicuro?, possiamo aspettare se vuoi. Credo che alla fine il mio editor – che poi ho cambiato – non fosse abbastanza sensibile come lettore. Avevo scritto il primo libro in un laboratorio universitario. Avevo dodici lettori, più in tutto quattro insegnanti. Avevo tantissimo feedback. Magari il grosso non era utile, ma molte cose sì, e c’erano diversi punti di vista, chi amava quello, chi non capiva quell’altro. Ti puoi fare un’idea. Concentrarti sui problemi segnalati da più persone. Se poi rimani solo, solo con l’editor, è un aiuto, ma non era abbastanza forte, lui solo.

Pensi di essere uscito dall’impasse anche trovando tua moglie come lettrice?

Sì. Lei è una gran lettrice. Ma non aveva mai letto un manoscritto, non era critica, era una lettrice vorace. Ci volle un po’ perché imparasse a superare l’esitazione, la timidezza. Disse che la prima volta che avevo cambiato una cosa in un racconto perché a lei non era piaciuta le era venuto il terrore per quanta autorità aveva. Ha superato presto la cosa.

Come funziona la vita lavorativa ora che scrivere entrambi?

Funziona molto bene. Credo che abbiamo una collaborazione buona, molto efficace. Lei ha cominciato a scrivere, prima in segreto, dopo la nascita del nostro secondo figlio. Non stava lavorando. Sarebbe dovuta tornare al lavoro dopo la maternità, ma non voleva. Si mise a scrivere in segreto.

Invidiava la tua vita?

Naturalmente. Passavo tanto tempo a casa, con i nostri figli. Dice sempre che non aveva mai avuto ambizioni letterarie, e invece un paio di anni fa io e sua madre abbiamo scoperto un suo diario di quando aveva quindici anni ed è chiaramente il diario di un giovane scrittore, e scrive che vuole diventare scrittrice – insomma aveva dimenticato di avere avuto ambizioni letterarie da ragazza. Era molto timida, esitante, aveva paura che non fosse buono quel che aveva scritto, e fin da subito si è capito che aveva una cosa che non si può insegnare – una voce sua – da subito. Da quel primo momento in cui con molta esitazione mi mostrò le prime quaranta cinquanta pagine che aveva scritto, e che sarebbero diventate il suo primo murder mistery (ne ha scritti sette prima di iniziare questa sua nuova, diciamo, fase della sua carriera)… Ora insomma, dal momento in cui uno dei due ha un’idea, da quell’istante l’altro dice “Ah, bello, l’hai sempre voluto fare, dovresti farlo…”, si condivide un’idea dal germe fino alla prima stesura. Ci commentiamo, ci diamo consigli.

Hai ritrovato la tua classe del corso di scrittura.

Esatto. E via via ci seguiamo per le varie stesure e fino all’arrivo delle bozze impaginate spedite dall’editore, io leggo le sue, lei le mie, fino al processo pauroso della pubblicazione, quando hai bisogno di qualcuno che ti tenga la mano, le recensioni, se ha venduto o no…

È importante levare quella parte di paura, di solitudine.

Arriva la moglie, tanti capelli ricci rossi, e prende un po’ San Pellegrino edizione speciale Pavarotti.

Noi conosciamo un certo numero di coppie di scrittori. Nick Laird e Zadie Smith.

WALDMAN

[con voce velocissima, molto più forte di lui]

Dave Eggers e Vendela Vida…

CHABON

Ben Marcus e…

WALDMAN

Heidi Julavitz. Safran Foer e Nicole Krauss. Ma Heidi e Ben non si leggono.

[Si mettono a parlare delle qualità umane di Ben Marcus, uno dei più interessanti scrittori sperimentali americani. Si completano le frasi a vicenda come in un fumetto.]

Tornando all’ispirazione di Fountain City, volevo chiederti della comunità in cui sei cresciuto. 

Columbia. Senza dubbio l’esperienza di crescere in un posto che non esisteva quando ci siamo trasferiti lì, che era così nuovo… Quando la mia famiglia visitò quel che sarebbe poi diventata Columbia, ne esisteva solo una piccola parte.

E com’era? Un normale sobborgo? 

Ora lo è diventata. Ma all’inizio fu concepita deliberatamente per essere una new town. Per essere integrata razzialmente, economicamente, religiosamente. Un posto dove l’idea era – l’uomo che la costruì era un costruttore che aveva lavorato tanto e con successo a Philadelphia e a Baltimora. Baltimora all’inizio degli anni sessanta era una delle più famigerate città per delle pratiche immobiliari fondate sul pregiudizio. La parole inglese è redlining [una sorta di segregazione di fatto operata da chi offre servizi decidendo per ragioni razziali a quali territori non estenderli]. Se eri una famiglia nera e volevi comprare casa, andavi all’agenzia, l’agente in certi quartieri nemmeno ti ci portava, ma solo in quelli in cui c’erano già i neri. Quest’uomo era disgustato da queste pratiche e alla fine decise di ricominciare da capo in un posto nuovo. La gente che veniva a Columbia era un gruppo che si selezionava da sé, in due sensi: se eri nero e volevi comprare casa in un posto sicuro, buono, per crescere i tuoi figli, Columbia era perfetta, perché era l’unico posto nel corridoio tra Baltimora e Washington in cui potevi farlo. Se eri bianco, potevi comprarti una bella casa nuova, a prezzi contenuti, in un posto con ottime scuole, ci potevi crescere i figli, ma era anche un posto in cui potevi fare una vita di condivisione.

Middle class progressista.

Esattamente. I miei genitori erano così. Giovani, progressisti, e l’ideale di Columbia li attraeva al di là dei vantaggi economici. Mi ricordo la nostra prima visita, guardammo vari posti poi arrivammo lì, e non c’era niente, ripeto, una minima frazione delle migliaia di case, e tutte queste piante, mappe, proiezioni, vedute, così sarà, e poi lo vidi realizzarsi.

I tuoi che facevano?

Mio padre era un dottore, e all’epoca mia madre aveva lasciato il college dopo due anni perché si era sposata ed era rimasta incinta. Poi dopo sarebbe tornata a finire gli studi per diventare poi avvocato, ma quando ci trasferimmo lì era una mamma a tempo pieno, cresceva me e il mio fratellino appena nato.

Credi che questa esperienza abbia segnato la tua scrittura? 

Sì: immaginazione, mappe, realtà, e l’interrelazione di queste tre cose. Per me c’erano queste mappe di Columbia, in cui c’era tutto, ma al momento c’era solo terra e alberi e erba, e potei vedere le cose che si facevano realtà, giorno dopo giorno. E poi c’erano le mappe nei libri che leggevo: le mappe di Narnia, della Terra di Mezzo, stampate sulla carta dell’interno del retro di copertina, alla fine dei romanzi per bambini, e poi ci sono le mappe che disegnano i bambini in testa, quando giocano, e queste cose, letteratura e Columbia e la mia immaginazione, erano tutte completamente interrelate.

Quindi quando trovasti quel libro sul postmoderno…

Esatto, pensai che avevo chiaramente trovato il mio tema, sembrava la cosa ovvia da fare. Per questo accantonare quel romanzo fu in molti sensi una decisione dolorosa.

Cosa facesti la notte che smettesti?

Non lo dissi a Ayelet. Lo tenni segreto. Provai, ma lei indovinò che avevo smesso. Ricordi?

WALDMAN

Scoppiai a piangere.

CHABON

Mi chiese come stava andando il romanzo e sapeva a che punto era il lavoro, la mia risposta fu un po’ evasiva…

WALDMAN

E io stavo studiando il bar exam da avvocato, e la bar californiana è la più dura… e decisi che, mancavano sei settimane, gli chiesi come andava, lui rispose Vuoi davvero che te lo dica? Scoppiai a piangere e dissi Non dirmi niente finché non ho finito.

CHABON

Avevo questa possibilità, sei settimane in cui non poteva occuparsi di me. Ci provo e vedo come va.

WALDMAN

Poi viene a prendermi all’esame e mi mette in mano centodieci pagine del nuovo romanzo. Dice Se pensi che sia buono continuo, se no torno a Fountain City. Lo lessi, dissi che era fantastico, continua così, è perfetto.

CHABON

E ho continuato.

Quindi non hai pianto, Ayelet.

WALDMAN

No, avevo pianto mentre preparavo l’esame. Ma avevo detto di non dirmi niente perché avevo pensato: ok, qualcuno deve avere un lavoro, per sostenere tutti e due.

CHABON

Ero nauseato, lo odiavo tanto, ero demoralizzato, e per quanto fosse dura rinunciare a tutto quel lavoro, appena smisi e passai a Wonder Boys fu un tale sollievo… fiuuuu, basta con quel libro del cazzo, questa cosa mi prende molto di più. E dopo, per ogni libro che ho scritto, Kavalier, Yiddish, c’è stato un momento in cui ho pensato, Non me ne frega niente più, sono stufo, non mi piacciono questi personaggi, non so perché ho mai pensato di scrivere questa cosa, e spesso quel momento è seguito dalla decisione di tagliare qualcosa di grosso, nel libro, e cominciare tutto da capo, o quasi, o di sbarazzarsi di grossi elementi della trama, e per quanto sia una cosa spaventosa e orribile, prima che lo fai, dopo è una gioia. Dopo che hai preso quelle ottanta pagine su cui hai impiegato un anno e mezzo e le butti, il senso di liberazione è così potente che ti rassicura che hai fatto la cosa giusta.

[Piccola coda all’intervista, la mattina dopo, sabato: lo pedino per le stradine di Capri, lo trovo che va a visitare l’arco naturale con la famiglia e con la famiglia di Jumpa Lahiri.] Mi sono scordato di chiederti della serie tv che stai sviluppando.

CHABON

È ambientata durante la Seconda guerra mondiale, è una commedia-drama-avventura…

WALDMAN

Più drama che commedia.

CHABON

…Drama-venture… Eh eh, è su un team di ciarlatani.

WALDMAN

Truffatori, artisti della fuga, maghi.

CHABON

Medium… reclutati dall’intelligence britannica per combattere i tedeschi. L’abbiamo sviluppato con HBO per un paio d’anni, ma hanno deciso di non farlo. E ora siamo a FX.

WALDMAN

Che ha Breaking Bad…

E Louie, e Justified…

WALDMAN

Osano molto. Hanno molta voglia di rischiare.

CHABON

Abbiamo ancora un po’ di lavoro da fare. Quando scrivi per HBO si tratta di episodi da sessanta minuti. Per FX si fanno quarantotto minuti.

Avete già dei copioni?

WALDMAN

Due episodi.

CHABON

Li dobbiamo accorciare, lavorarci un po’.

E li avete scritti insieme, solo voi due?

CHABON

Sì. Per ora. Anzi forse resteremo noi due. È fantastico. E anche se HBO ha rinunciato, è stato comunque molto divertente lavorarci, ci hanno dato molti consigli costruttivi, e fin qui è stato bellissimo lavorare con FX.

WALDMAN

Sono molto interessati a un approccio non tradizionale alla scrittura televisiva.

Titolo?

CHABON

Hobgoblin. Che è una specie di piccolo goblin, un demone.

Forse dovrei chiederti di Spiderman 2.

CHABON

Ah, Spiderman 2. Breve e dolcissimo. Ricevo una telefonata da Sam Raimi, che eccitazione, mi dice: Spidey needs you. Non ho potuto resistere alla chiamata.

Commenti
2 Commenti a “Intervista a Michael Chabon”
  1. davide calzolari ha detto:

    bell’ intervista

    notevole questo passaggio:

    “Kavalier & Clay è ambientato a metà del Novecento ed è scritto in un dettaglio pazzesco. Come fai a ottenere tutto quel materiale? La parte sul Golem…

    Per lo più me lo invento.”

    la risposta è geniale

  2. davide calzolari ha detto:

    non per far il pignolo,ma la famosa operazione Paperclip avvenne a 2a Guerra mondiale finita,non durante-

    lo scopo era anche non far finire gli scienziati tedeschi in mano russa,visto che anche i sovietici,bravi sulla quantità degli armamenti ma meno sulla qualità, puntavano alle tecnologie dei profili e delle piante alari avanzate, a quelle missilistiche,dell atomo,e sul motore a getto/reazione e quindi giocoforza ad accaparrarsi i tecnici e scienziati tedeschi (con modalità molto meno ducate di quelle anglosassoni)

    cmq vedere che la letteratura americana è sempre molto vivace perchè si nutre anche di storia e argomenti”esotici”,senza scadere nel genere piu bieco,o all opposto nell’ intellettualismo

    in italia,invece,il solito rousseauvismo,e infatti abbiam una narrativa parecchio sonnacchiosa…

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