Intervista a Robert Ward

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Questa intervista è uscita su Repubblica Sera.

Viene da Baltimora, nel Maryland, una di quelle città che sembra cantata da Bruce Springsteen in The River, dove nasci, cresci e farai il lavoro di tuo padre. Ma per Robert Ward, classe 1943, non è andata così, ora vive a Los Angeles, dopo essere stato a New York e aver scoperto che tutto è possibile, dopo aver attraversato gli Stati Uniti da hippy negli anni 60 e cambiato vita molte volte: insegnante, giornalista, scrittore, sceneggiatore per la televisione e per il cinema.

Ha firmato puntate di serie come Miami Vice e Hill Street Blues, e dal suo secondo romanzo Cattle Annie and Little Britches (1977) è stato tratto il film Branco selvaggio (1981) con Burt Lancaster e Diane Lane, ma c’è un personaggio in particolare che ha segnato la sua carriera: Red Baker, operaio trentanovenne di Baltimora che perde il lavoro e deve sopravvivere. È il protagonista di Io sono Red Baker, del 1985, subito premio Pen West come miglior romanzo americano dell’anno, amato da scrittori come Robert Stone, Richard Price, Michael Connelly, Christopher Hitchens, James Crumley, Laura Lippman. Una storia che ancora oggi ha molto da dire, che parla di crisi economica e che viene proposta in Italia, per la prima volta, dal piccolo e raffinato editore  senese Barney Edizioni, in una collana diretta dal traduttore Nicola Manuppelli e intitolata “I Fuorilegge”, dedicata agli autori americani meno noti (in Italia), ma non per questo meno interessanti. E infatti tra i primi estimatori di Ward c’è stato Tom Wolfe, che in qualche modo l’ha salvato da una vita che non gli piaceva, e l’ha lanciato alla ricerca del successo.

Robert Ward, benvenuto in Italia, anche se si presenta con una storia per nulla solare, e con un personaggio tutt’altro che semplice: Red Baker. Chi è?

Be’, diciamo che è un uomo con delle convinzioni, che scivola, cade sempre più giù e cerca di galleggiare. Non sa scegliere, i suoi sogni si spezzano, è un debole come le persone vere e ha per soli amici gli operai licenziati come lui, che conosce dalla high school. Quando chiudono le aziende siderurgiche perdono tutti il lavoro e tutto crolla, anche le relazioni personali, eccetto le più salde, ma tutto si fa drammatico. Chi si suicida, chi diventa alcolizzato, chi si aiuta con anfetamine o altre pillole. Tutti o quasi cercano lavoro, accettano anche i più umili, ma è difficile non cadere in depressione, resistere. È una storia dei primi anni 80, quando si sentono i morsi della crisi, con Reagan alla Casa Bianca, la sua nuova dottrina economica, la “reaganomics”, e i Giapponesi che acquistano sempre più realtà produttive e finanziarie negli Stati Uniti. Una storia difficile da raccontare, vista dal basso, dalle difficoltà di un operaio licenziato, sposato, con un’amante e un figlio per il quale farebbe qualsiasi cosa, ma che è anche una persona che non ce la fa più. È un lavoro che mi ha impegnato nove anni, tra alti e bassi: facevo ricerca, avevo molto materiale, avevo scritto circa 500 pagine, ma non funzionava, non avevo il romanzo. Poi un giorno ho trovato l’incipit, con Red Baker che si presenta, e da lì tutto è scorso via veloce.

Anche la sua vita da lì ha preso un’altra piega.

La mia vita ha preso molte pieghe. Sono nato e cresciuto anch’io a Baltimora, dove ero un pessimo studente ma leggevo molti libri, e passavo i pomeriggi a fare sport o a giocare a poker perdendo un sacco di soldi. In fondo era una città dove non potevi andare da nessuna parte, dove avresti trovato il tuo schifoso lavoro per andare avanti. Quando alla fine della high school mia madre mi chiede se voglio andare al College, io penso sarebbe un’ottima cosa, perché ho visto lo studentato delle ragazze, ma mio padre vorrebbe andassi a fare il suo lavoro, cioè quel lavoro che ogni sera maledice tornando a casa. Ma scherziamo? Sono gli anni 60, divento un hippy e vivo nelle comuni, seguo in tour i Grateful Dead e scrivo. Lì, in quella follia, nasce il mio primo romanzo, Shedding Skin (1972), che racconta quelle avventure.

Esce negli anni in cui insegnava, se non sbaglio, e in cui incontra Tom Wolfe.

Sì, insegnavo inglese alla Miami University di Hamilton, in Ohio, due anni in un inferno di neve, poi a Geneva, nello stato di New York, ma proprio non mi piaceva l’ambiente accademico. Devo dire grazie a Tom Wolfe, che ha dato un occhio alle cose che stavo scrivendo e mi ha detto: “perché non vieni a New York?” Così mi licenzio e parto, senza un soldo. Lavoro come giornalista per magazine di sport per pagarmi l’affitto. Erano gli anni del new journalism, e mi piaceva, e soprattutto mi piaceva New York, una città dove potevi fare tutto: vuoi scrivere? Provaci e se vali qualcosa farai! Le cose accadevano, se volevi farle accadere. Era il contrario di quello che avevo vissuto a Baltimora, dove se dicevi “voglio fare lo scrittore”, ti rispondevano “non esistono scrittori a Baltimora, lascia perdere”.

Invece a New York la invitano a scrivere anche per il cinema.

Già. Quando pubblico Cattle Annie mi propongono di scrivere la sceneggiatura per il film diretto da Lamont Johnson, poi esce il terzo romanzo Sandman nel 1978, e nel 1985 Red Baker. Ma quando esce sono sfinito dalla fatica fisica e psicologica che mi ha causato, sono depresso, arrivo a pensare al suicidio, intanto escono recensioni molto positive, vinco il Pen West, e all’improvviso David Milch e Jeff Lewis mi chiamano: vogliono che faccia delle sceneggiature per Hill Street Blues, una serie tv poliziesca.

Un bel cambiamento di prospettiva, per un ex hippy.

A dire il vero il problema è che io non sapevo come si scriveva per la tv, oltre a non sapere che storie inventare. Così sono tornato a Baltimora, dove ho incontrato un poliziotto che si chiamava come me, Robert Ward, siamo usciti insieme a berci una birra e a bruciapelo mi ha detto: “ho una storia per te”. Ed era vero! Così ho imparato che anche per la tv, per scrivere storie belle, bisogna avere un fondo di verità, bisogna andare a pescarle da chi le vive: poliziotti per un poliziesco, medici per una serie sui dottori e così via.

Ma per uno scrittore fare tv, poi cinema, non è un po’ vendere l’anima al diavolo?

Il mito degli scrittori che si vendono al cinema e poi non valgono più nulla per la letteratura è stato inventato a New York, un centro di potere editoriale che si è visto negli anni sottrarre forza da Hollywood, da Los Angeles, dove mi sono trasferito anch’io da 29 anni, anche se all’inizio pensavo fosse solo per un anno o due. È un modo di pensare che non mi piace: quando insegnavo, i miei colleghi consideravano solo la letteratura, era il sacro tempio, e la scrittura per altre cose, come il giornalismo, era roba da prostitute. Figuriamoci per la tv, è un gradino sotto l’essere all’inferno. Eppure molti scrittori hanno scritto per il cinema. Penso ad esempio a Faulkner, ad esempio, alla sceneggiatura per The Big Sleep (Il grande sonno, 1946). Se ovviamente sceneggiature e romanzi sono scritture diverse, non è detto che uno scrittore non possa farli entrambi e bene, con ottimi risultati.

Veniamo all’oggi. Red Baker esce in Italia in piena crisi economica, che anche negli Stati Uniti ha morso con violenza. Il dramma che racconta il romanzo non è inattuale.

Per nulla. Forse anche per questo negli anni ha continuato ad avere successo, e sono contento che ora arrivi in Italia, anche se certo non mi fa piacere la situazione di crisi. Negli Usa è tremenda, ancora oggi. Molti, specie negli stati più poveri come il Kentucky o il West Virginia, vivono in macchina, o in autobus. Il lavoro manca, e il presidente Obama sta facendo il possibile, anche se speravo fosse più incisivo. Ma è difficile, non dimentichiamoci che è il primo presidente nero della storia del mio paese, e i Repubblicani lo odiano per questo. Sono disposti ad affossarci pur di vederlo finire nel fango, sono convinti che come se ne andrà la situazione si risolverà, ma la loro ricetta è la “reaganomics”, che abbiamo già conosciuto e ne abbiamo visto gli effetti. Ma non andranno alla Casa Bianca. I Repubblicani non sono amati e sono bravissimi a tirarsi la zappa sui piedi con molte gaffe. Per capirci, Sarah Palin non sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti: questa, almeno per me, è la buona notizia che posso dare.

In questa lettura è molto vicino a Bruce Springsteen, per altro una colonna sonora ottima per il suo Red Baker. Però tra i tanti gruppi citati nel romanzo il Boss non c’è.

Quando facevo il giornalista a New York, vidi uno dei suoi primi concerti, e lo recensii molto bene dicendo che avrebbe fatto successo. Mi piace, ma non lo adoro. Spesso, specie per Red Baker, mi paragonano a Springsteen, e qualcuno ha anche detto che vorrei esserlo. Ma preferisco i Beatles, i Rolling Stones, il blues o il rock’n’roll. E poi, anche se negli anni di Red Baker molti lo ascoltavano, a Baltimora si sentiva piuttosto Elvis o Gene Vincent. È un posto perso nel tempo, una città operaia, di porto. Un posto nostalgico, ma difficile, come la storia di Red Baker, che però si chiude con un lieto fine, o almeno la cosa più vicina a un lieto fine che posso pensare.

Commenti
Un commento a “Intervista a Robert Ward”
  1. davide young ha detto:

    Bella intervista

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