Gli adolescenti nei libri di Kevin Brooks

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Questo pezzo è uscito su Repubblica Sera.

A ben vedere, un adolescente scrive un diario perché sente un mondo sordo intorno a lui. È una situazione classica, e forse per questo la letteratura per ragazzi ne è piena, ma Bunker Diary (Piemme, traduzione italiana di Paolo Antonio Livorati) è un diario spiazzante e doloroso come un pugno in faccia. Siamo lontani dall’idea che un libro per “young adult” debba essere una storia consolatoria o edulcorata, questo è il diario di un sedicenne, Linus, scappato di casa da cinque mesi, che viene rapito e rinchiuso in un bunker sotterraneo, dove presto sono imprigionate altre cinque persone: la dolce bambina Jennifer, l’agente immobiliare snob Anja, l’arrogante broker Bird, il tossico in astinenza Fred, il celebre fisico Russell Lansing.

Qualcuno li ha rinchiusi e li osserva, e Linus pensa, riflette, racconta nel suo diario quel che accade giorno dopo giorno. E le sue parole parlano a giovani e adulti, perché come ogni vero romanzo è leggibile su più livelli anche il nuovo libro di Kevin Brooks, già noto in Italia per L’estate del coniglio nero e Una canzone per Candy.

Inglese, classe 1959, mille lavori alle spalle (è stato persino chitarrista punk, ma il nome del gruppo non lo rivela: «sarebbe inutile, non avevamo inciso niente, ed eravamo uno dei mille gruppi di quarant’anni fa!») e soprattutto troppe esperienze negative che non vuole raccontare ma che gli hanno fatto capire fin da ragazzo quanto la vita sia dura e sappia essere cattiva. Ma ora, nel dirlo, sotto quel cappellino verde militare che non toglie mai, nemmeno in pubblico, come una sorta di divisa, sorride contento. Anche perché ha da poco vinto la Carnegie Medal, è stato premiato a “Un mare di libri”, e con Bunker Diary è riuscito a raccontare una storia a cui teneva molto.

Mr. Brooks, partiamo da Linus, l’autore del diario. È un adolescente particolare.

Linus è prima di tutto un ragazzo intelligente e sensibile, ha una mente complessa e ha avuto diversi problemi nella sua vita, per quanto figlio di un ricco artista. E se il padre è una figura particolare, sua madre è addirittura morta. In sostanza, gli manca l’affetto familiare. Non a caso prende il nome dal personaggio dei Peanuts, quello con la coperta sempre appresso. È un adolescente, e come ogni giovane ha una saggezza e un’apertura diversa dall’adulto, osserva cose per le quali noi “grandi” abbiamo magari perso interesse, e sul conto ama leggere cose complesse, come il libro del fisico Lansing. Ha fatto una scelta: vivere ai margini, per strada, ma all’improvviso si trova nei panni di eroe non normale, non canonico, in una situazione particolare, cercando di dare il meglio di sé per aiutare gli altri.

La prima persona che scende nel bunker, dopo di lui, è una bambina, Jennifer, e aiutandola, prendendosene cura, Linus si ritrova: se fino a quel momento non aveva mai trovato un posto suo, né in casa, né a scuola, né per strada, nel bunker con Jennifer scopre un senso di appartenenza. Cercando di darle aiuto, si emancipa, e capisce che la capacità di aiutare è ciò che ci fa esseri umani, una specie speciale.

Però Linus sembra l’unico del gruppo interessato a fare comunità, a costruire un aiuto reciproco per resistere e trovare una soluzione.

Con Bunker Diary racconto una storia dura, disperata e disperante, un mondo tremendo, a cui non avrei potuto dare soluzioni edulcorate, qualcosa di diverso da un pugno nello stomaco. E infatti ho lavorato anche su questo aspetto della microcomunità che non riesce a stare insieme, ma Linus aiuta davvero Jennifer, che tratta come la sorella che non ha mai avuto, facendo del suo meglio. Forse è la sorella che non ho mai avuto neanch’io.

Anch’io ho avuto una vita difficile, e nel libro ho raccontato il lato della vita più oscuro, ma mostrando che si può cercare la bellezza anche nella tristezza. In fondo, scrivere questo diario mi ha permesso di capire molte cose sulla mia vita, anche molto dure, terribili, ma che sono parte di me. Crescendo bisogna imparare a conviverci, saperle controllare per non soccombere. Insomma, benvenuti nel mio mondo, e scusate se deprimo!

Lei è un po’ Linus, allora. Ma forse è anche il “lui” che sta di sopra, chiude tutti nel bunker e li osserva come in un reality.

Forse, certo. Ma anche il lettore lo è. Nel diario volevo infatti confondere le identità, così a un certo punto Linus inizia a chiedersi per chi stia scrivendo: per sé, per “lui” che forse lo legge, per “voi” lettori. Come ogni cosa, anche questo si può leggere su più livelli, e nella testa di Linus c’ero anch’io a farmi delle domande, come autore. Mi chiedevo: quando scrivo per chi lo faccio? Un libro è una storia se ha un lettore, se no non esiste, quindi se non sono letto non esisto neanche io come autore? E allo stesso tempo ero Linus, che si domandava impaurito: se “voi” leggerete questo diario, io potrei essere morto?

Linus infatti inizia ad avere paura di questo “voi”, mentre scrive.

Sì, a un certo punto accetta il suo destino nel bunker, smette di cercare vie di fuga e inizia a guardarsi dentro, nel profondo, così racconta di sé, si apre, si analizza, cerca di capire come sono successe certe cose della sua vita, fin dall’infanzia, e diventa quasi poetico, libero di pensare di sé quel che vuole. Però ha anche paura, e la domanda solita “per chi scrivo?” diventa “fino a che punto posso raccontarmi?”, e poi “perché voglio che gli altri mi ascoltino?” A questo punto siamo tutti coinvolti.

“Lui”, invece, è una sorta di entità. Un potere che tutto può, non si mostra, punisce.

“Lui” è una metafora di Dio, ma non quello cattolico, piuttosto quello di Einstein. È ciò che fa sì che le cose succedano. Ha dato forma a tutto, è una forza potente, ma abbiamo bisogno di sapere chi sia? Non vorrei essere frainteso: c’è chi può vederci il Grande Fratello di 1984 di Orwell o una qualunque allegoria del potere contemporaneo, ma, per quanto sia legittimo farlo, io nei miei libri non mando messaggi, non offro risposte. Io pongo domande, o meglio cerco di costruirle.

E come pensa risponda il lettore?

Norman Mailer ricordava spesso che si scrive su più livelli, e da ciascuno di essi emerge qualcosa di ignoto all’autore stesso. Esistono infatti tanti livelli di significato, quindi tante interpretazioni possibili, che scopro man mano che incontro i lettori, che fanno del mio libro una loro storia. C’è chi mi ha chiesto se questo impadronirsi dei miei libri non sia una forma di cannibalismo.

Io non credo, ma una volta mi è successa una cosa particolare: amo i cani, e molti anni fa, quando me ne è morto uno a cui ero particolarmente affezionato, l’ho cremato e, tornato a casa con le ceneri, ho infilato un dito nell’urna poi l’ho messo in bocca. Le ho assaporate, quindi quel cane resterà con me per sempre. Forse anche il lettore fa qualcosa del genere: mette insieme due fisicità, la propria e quella dei personaggi di cui legge, e insieme costruiscono un percorso. Altre domande.

E cosa si chiedono gli adolescenti di cui scrive?

Ad essere sincero, scrivendo di adolescenti ho imparato più di me stesso che di loro. Ho dialogato e interrogato ciò che ero, ciò che sono stato e sono. In fondo, quando uno non ha figli, come me, diventa un po’ padre e figlio di se stesso, e si trova a parlare con il sé di molti anni prima, delle cose che ha combinato, degli errori che ha fatto. Non può più evitarli, non si cambia il passato, ma scriverne, almeno, permette di capire, di capirsi meglio, proprio come succede a Linus. Anche se può far male.

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