La casa mangia le parole: una conversazione con Leonardo G. Luccone

casa (1)

Da tempo il nome di Leonardo G. Luccone è ben presente nel mondo editoriale, per la sua attività di talent scout, editor, critico, traduttore, fondatore dell’agenzia letteraria Oblique. Dopo il saggio Questione di virgole – Punteggiare rapido e accorto (Laterza), di cui avevamo parlato in questa intervista, ecco il debutto al romanzo con La casa mangia le parole, uscito da qualche mese con Ponte alle Grazie. A guardarla in prospettiva, è come se con Questione di virgole Luccone abbia predisposto la cassetta per gli attrezzi, per poi cimentarsi con il romanzo. E da un lettore così sofisticato e attento non ci si poteva attendere altro se non un romanzo ambizioso e ben scritto, stratificato, con più livelli di senso al suo interno.

La storia ruota intorno a un nucleo familiare, quello dei De Stefano, tenuto insieme artificialmente: sotto le apparenze, la crosta di questa famiglia medio borghese va sfaldandosi. Ma si fa fatica a inserire La casa mangia le parole sotto l’etichetta “romanzo familiare-borghese”; il libro di Luccone contiene mondi diversi e si concede scarti sorprendenti; ecco il risultato della nostra conversazione.

Cosa c’è alla base del tuo primo romanzo, La casa mangia le parole? Un’idea nata tempo fa, una storia, un’immagine? Voglio dire: qual è il famigerato “clic” che ti ha portato alla scrittura di questo libro? Te lo chiedo anche perché in effetti è un romanzo complesso, stratificato, e mi incuriosisce risalire al primissimo nucleo.

Il primo quaderno che ho scarabocchiato è pieno di schemi – rettangoli, frecce, cerchi – e collegamenti. Ora mi paiono sgorbi e faccio fatica a capire cosa indichino. Ci sono liste di nomi. Luoghi. C’è la parola «faldone» e una pagina intitolata «elenco di parole da non usare». Sfogliando oltre – passano mesi – le pagine diventano doppie, affacciate, e compaiono onde di dialoghi, sempre senza didascalico. Un altro quaderno è intitolato «Chiedi a Moses», ci sono ritagli di articoli scientifici e parti di diario. In una cartellina verde c’è un fascio di fogli protocollo con la storia di Emanuele De Stefano, nel libro ce n’è finita solo una parte.

Riguardando questo materiale percepisco assenza di centralità. Volevo un vortice tra due poli quasi indipendenti o entità complesse che si scontrassero, come accade alle galassie. I collegamenti volevo fossero ridotti all’essenziale.

Nell’immagine iniziale c’era la formazione della Bioambiente, c’erano i De Stefano, c’era Moses ovvio, c’era Boston (dove vado quasi ogni estate) e Roma, c’erano gli italo-americani, gli sradicati, c’era senz’altro la dislessia con cui volevo fare i conti. Al 2010 risalgono altri appunti, stavolta su un quaderno di Ecologia agraria (che avevo approfondito in un corso di studi alla fine degli anni Novanta) a cui erano rimaste molte pagine libere. Si trattava di una carta troppo attraente per lasciarla immacolata. Scrivere su quel quaderno mi ha aiutato a trovare il tono apodittico di Moses Sabatini, anche se lui è molto dolce.

Mi ricordo il docente di quel corso, Fabio Caporali; insisteva sulla definizione di inquinamento di Passmore: «Pollution is simply the process of putting matter in the wrong place in quantities that are too large».

Ora mi sembra lampante che sia l’assunto che ho inseguito in tutto il libro.

Quanto è durato il tempo di scrittura?

Una decina d’anni, ma fino al 2016 non avevo intenzione di farne un romanzo da pubblicare. Mi sembrava di compilare il vocabolario di una lingua che non riuscivo ad afferrare. Non avevo ancora capito come afferrare il balbettio e i vuoti.

All’interno del romanzo sei riuscito a ricreare una notevole quantità di linguaggi. Da questo punto di vista quella che racconti è una storia autenticamente polifonica tenuta assieme dalla voce narrante, ben riconoscibile e adeguata al compito di “collante”. Hai lavorato ai diversi registri nello stesso momento, mentre la storia progrediva? Oppure hai preparato ogni singolo registro come fosse un “impasto” da conservare e usare al momento che ritenevi opportuno?

Non ne ho coscienza, non c’è preparazione. L’ho scritto come lo sentivo. La voce narrante è vicina a come mi racconto le cose in testa. I personaggi parlano e basta. Apro le virgolette e vedo che succede.

Penso che il collante sia dato dalla ragione della messa in scena. L’incapacità di reagire al rombo dell’umanità, incapacità di stare soli e in silenzio. L’essere inermi di fronte al fuori-controllo ambientale. L’impassibilità con cui si frullano via pezzi della propria esistenza. Quanto siamo incapaci di stare sulla Terra come unico corpo. Non ho mai pensato che un virus potesse fermare così il mondo, ma penso che a breve la crisi ambientale ci costringerà a comportamenti compatti, da branco umano finalmente, e quindi questa prova generale che stiamo vivendo col Covid è una buona cosa. Spero che ci apra gli occhi.

Forse uno dei toni più complicati è quello borghese della famiglia De Stefano e dei loro interlocutori, amici, colleghi: il parlato che utilizzanonei party in terrazza, ad esempio. Dico che è un tono complicato perché è una modalità d’espressione, un vero e proprio codice che in Italia abbiamo visto spesso al cinema – forse più al cinema o in televisione che in letteratura, oserei dire – con fortune alterne.

Se li prendi singolarmente nessuno di loro è così odioso. È la posa che assumono a sconcertarmi. Prendi gli attori della Grande bellezza: nel film erano di raggiante e perfetta sofisticazione. Personificati nella posa. Il film mi sembra non colga la fragilità dell’illusione e il birignao che ci stravolge i lineamenti. Lo stesso che accade con la nostalgia di ciò che non si è vissuto. È un rifugio effimero e sopravvalutato. Ormai tutto dovrebbe essere chiamato L’illusione di

No, per rispondere alla tua domanda, quel tono non è complicato, è il fasullo in cui siamo immersi, una lingua inventata come le recensioni letterarie tra amici, come la voce del conduttore scarso del telegiornale, come le istruzioni per compilare la dichiarazione dei redditi. È fuori registro, palesemente fuori registro. Da questo punto di vista il libro s’immerge nelle nostre abilità ventriloque. Non c’è cosa più sconcertante delle persone che fanno le voci e si dimenticano qual è la loro.

Ecco a questo proposito ti vorrei chiedere se la definizione di romanzo borghese per La casa mangia le parole può essere calzante; se avevi in mente di scrivere un romanzo borghese, o se invece trovi che sia solo uno degli aspetti del romanzo, o addirittura un’etichetta fuorviante.

Non ho la capacità di raccontare un’epoca a partire da una famiglia, come hanno fatto Mann, Proust, Verga, Tarkington e più recentemente Franzen e St Aubyn.

Le etichette servono a dare indicazioni di massima, e quindi sono utili. Se proprio dobbiamo farlo aggiungerei «romanzo sulla Natura», «romanzo sui radicalismi». Se dovessi scegliere una sola etichetta: «romanzo sulla crisi». Tiziano Gianotti ha parlato di Grande Romanzo degli anni di Merda, forse ha ragione lui.

Nel romanzo è presente anche un tema/motivo ecologico; racconti di questa azienda, la Bioambiente, e specialmente di uno dei dipendenti, Moses Sabatini, tra i veri protagonisti del libro (forse il personaggio più “novecentesco” del romanzo). Avevi un interesse preciso a quest’area,  già in partenza? Ci sei arrivato “casualmente”? 

Sono un ambientalista e nel romanzo esprimo abbastanza didascalicamente le mie convinzioni. Certo, rispetto a Moses Sabatini mi sento un principiante.

Moses è anche il punto d’incontro tra realtà e finzione, nel senso che ti sei ispirato a una persona reale. Qualche tempo fa un’amica mi ha detto di aver scritto un racconto ispirato alla storia di un’altra sua amica. Ha mandato il racconto a una rivista ed è piaciuto; dopo ha chiesto all’amica il “placet” per farlo uscire, ma lei prima ha chiesto di cambiare diversi punti, e qualche tempo dopo di lasciar perdere, cioè di non pubblicare affatto. Questo per chiederti com’è andata nel tuo caso specifico, e anche per sapere cosa pensi del rapporto realtà/finzione in letteratura.

La questione è delicata e me la sono posta per tempo. Gli ho mandato un centinaio di pagine che lo riguardavano quattro o cinque anni fa dicendogli che avevo scritto un suo ritratto, ma non le ha lette. Non per snobismo o maleducazione, è fatto così. Mi ha detto che si fidava di me. Quando gli ho detto che il romanzo usciva e che era importante che leggesse perché alcune cose più personali potevano dargli fastidio ha chiesto: «Questo personaggio riflette l’idea che ti sei fatto di me?». Al mio sì (ed ero sincero), mi ha detto che per lui bastava così. Abbiamo presentato il libro insieme un paio di volte, lo ha citato ampiamente in un convegno negli Stati Uniti, insomma penso che ora lo abbia letto. Il fatto che abbiamo lavorato insieme in un ambito diverso dall’editoria e più affine al suo lavoro ha facilitato tutto. Il problema è che ora è assediato dalle persone che lo hanno conosciuto attraverso il libro e che si preoccupano per lui o vogliono sapere cosa ne pensa di questo o di quello. «Li tengo a bada» mi ha detto. Da quando vive a Milano ci vediamo di meno, ma ho sempre accesso al suo giardino di via Poerio, qui a Roma.

I lettori di minima, e non solo, conoscono in larga parte il tuo lavoro nel mondo editoriale; qualcuno magari avrà preso parte anche ai tuoi corsi, o letto libri da te curati e tradotti. Qualcuno si chiederà anche com’è stato lavorare con il tuo editor, e a questo punto te lo chiedo anch’io! Ma a parte questo, quanto ha contato – se ha contato – nel processo di scrittura quella che definirei la tua militanza editoriale? O consideri la scrittura (di questo romanzo in particolare) come un processo a sé, una dimensione “altra”?

Il mio editor sul testo è anche colui che lo ha scelto. Ci siamo intesi subito. Ho posto poche e chiare condizioni su ciò che per me non era oggetto di discussione (per esempio la struttura) e sono state accolte. Per me era essenziale che la casa editrice sposasse il libro. L’ho mandato solo a due editori con cui non avevo legami di amicizia né rapporti professionali.

Il lavoro sul testo è stato molto bello e istruttivo. Vincenzo ha sensibilità e rispetto per gli autori.

La mia militanza editoriale non ha avuto influenza sulla scrittura. Ho tratto benefici dalla mia esperienza sui libri degli altri? Dall’aver fatto esordire decine di autori? Mi sembra di no, quando scrivi si azzera tutto, è la tua partita. Sai più o meno cosa succede ma è tutto nuovo. Ho avuto la fortuna di non avere la fregola della pubblicazione.

Mi sono sentito uno scrittore quando ho percepito qualcosa di solido, mi basta questo. È l’aspetto per cui vale la pena buttarsi.

Quali sono gli scrittori che hai tenuto metaforicamente accanto, sopra o di fianco mentre scrivevi? C’è qualche autore che ti è stato particolarmente d’aiuto, o te la sei sbrigata da solo?

Chi dice di sbrigarsela da solo mente. Sono tanti gli scrittori che ammiro. Alcuni più di altri mi risuonano nella testa. Ha senso fare una lista? Musil, Melville, Hofmannsthal, Cristina Campo, D’Arrigo, Munro, Énard, Faulkner, Joyce, Weil, Marías, Jonas, Laxness, Plath, Cheever, Lowry, DeLillo, Marilynne Robinson, Lerner, sono andato a caso, meglio che mi fermo.

Roma e Boston sono le due città che ospitano l’azione del romanzo. Scrivendone («l’odore del porto di Boston, la banchina con i ferry per Cape Cod»; oppure «la casa è un attico in una delle più trafficate vie del quartiere Prati. Un palazzo che sciorina i fregi del rione e il noioso decalogo architettonico degli anni Trenta») sei riuscito a trovare qualcosa che le lega, o ti piace la sensazione di “mondi lontani”?

Nella mia testa sono due parti dello stesso luogo, le topografie si compenetrano ormai. Credo che la mia attrazione per Moses Sabatini nasca dall’affetto che provo per la sua città. Nel romanzo filtro lo sguardo attraverso l’idea arbitraria di italo americanità che si è formata in me, una coalescenza di particelle diversissime; cosa mi abbia dato la forza per stringerle così vicine, lo ignoro.

Nel romanzo, paradossalmente, Boston splende, mentre Roma si consuma nella fatiscenza. È una dichiarazione di impotenza e d’amore per la mia città.

La casa mangia le parole, s’intitola il romanzo; le parole che dicono e non dicono i due De Stefano, marito e moglie, e che sono al centro del mondo di loro figlio; seppur dislessico viene ribattezzato Capitan Parola, gli piace leggere, inizia un percorso per superere le proprie difficoltà. Sbaglio se dico che la traccia più profonda del libro è proprio questa: la parola, il linguaggio?

Le parole sono lo strumento di rappresentazione e quindi sono in grado di circoscrivere i confini del mondo. È un romanzo sulle parole che non sono mai state dette, su quelle che si inceppano nella bocca, sugli urli che rimangono inurlati. Emanuele incarna la sfida col corpo, se la gioca. Lui e Moses si intendono alla perfezione, e Emanuele capisce che è dal difetto che nasce la spinta, come nella selezione naturale. Se non fosse stato per Emanuele il romanzo non sarebbe stato scritto; se non fosse stato per Moses i De Stefano non si sarebbero mai lasciati.

Quasi tutta l’azione del libro si svolge all’inizio degli anni Dieci del Duemila; esistono poi alcuni flashback, il più vistoso dei quali ci porta indietro di un secolo, al 1918-19, quando racconti di Boston invasa dalla melassa. E poi, fatto curioso, in una riga citi anche l’influenza Spagnola, “muta nel suo mistero”. Cosa ti ha portato sulle tracce dell’incidente di Boston, e perché hai deciso di usarlo nel romanzo? E poi, fuori dal libro, ma sempre da scrittore e intellettuale: come hai vissuto queste settimane drammatiche per il Paese? Ti è sembrato di assistere a qualcosa che somiglia all’irruzione della Storia nella cronaca?

In realtà la linea temporale principale è liscia. Si va da capodanno a capodanno, non ci sono sovrapposizioni. Tutto il resto invece si innesta con il dettato della memoria del narratore.

Il capitolo «Boston è ogni cosa» è centrato sull’incidente della melassa (15 gennaio 1919) perché è la grande ferita silenziata di un paese che correva verso l’onnipotenza. È la prima incrinatura del modello americano, quando il sogno era sfumato all’orizzonte. «Fiumi di melassa» per produrre rum e munizioni. L’industria aumenta i volumi, si fa ingorda. Non è bastato l’avvertimento della Spagnola (che nella sola Boston uccise quasi cinquantamila persone e cinquanta milioni nel mondo). A Boston si respirava aria di puritanesimo, ci hanno messo un attimo a pensare che la punizione venisse dall’alto. Fatto sta che l’esplosione del serbatoio di melassa li manda in tilt (e come al solito danno la colpa a chi non c’entra – gli anarchici). Can can delle accuse a parte, l’incidente determina un capillare ripensamento dell’interazione uomo-industria e nasce l’idea di distanza di sicurezza, di pianificazione territoriale. In questo gli americani sono sempre stati superiori: imparano la lezione e cercano di non sbagliare.

Due cose mi danno da pensare: la melassa è un dolcificante associato ai giorni di festa; durante il processo alla società che gestiva il serbatoio (nel libro riporto i verbali reali degli interrogatori) il capoprogetto era ossessionato dal rispetto dei ritmi di produzione. Non aveva idea di cosa fosse successo, né del perché.

Per me il serbatoio rappresenta una crisi locale che ti dà il sentore della crisi universale. Fretta e ignoranza sono i nemici. In quel caso la risposta dell’uomo fu positiva, perché alla fine, grazie a una class action, prevalse il bene della comunità. Ma c’è quel titolo del Boston Herald che mi si è incollato addosso: Many Victims Buried under Sea of Sticky Fluid Flooding Atlantic Avenue; mi ha trascinato verso lo tsunami in Asia del 2004, verso la furia anarchica, verso le Br, verso il nostro balbettare quando dobbiamo affrontare i problemi che oltrepassano il nostro guscio. È questo il nodo: usiamo metafore per parlare di quello che ci accade («l’epidemia è uno tsumani sulle nostre vite»), ma rimaniamo muti rispetto a ciò che ci succede dentro. Eppure siamo completamente rapiti dal nostro spazio interiore, per molti di noi il mondo è solo quello che sta lì dentro. Come possiamo sperare di avere una coscienza ambientale, di sentire una responsabilità per chi verrà dopo di noi.

Mi auguro che l’eccesso di introspezione di questa chiusura forzata ci faccia ridefinire il bene comune. Il problema è che stare reclusi ha esacerbato tutte le fragilità. Io sono rimasto in casa il più possibile, cercando di disconnettermi dal linguaggio della crisi e della paura perché non lascia niente di buono. Mi sono goduto la smaterializzazione, la lentezza, la frugalità di fare tutto con un terzo delle risorse. Cosa ci rimarrà di tutto questo? Ne trarremo un insegnamento per cambiare rotta?

Stiamo a vedere.

Aggiungi un commento