La città e i giorni: intervista a Filippo D’Angelo
di Carola Moscatelli
Da diversi anni, insieme al mio gruppo di lettura, leggo la dozzina dei libri candidati al premio Strega. Da Marzo a Luglio una parte consistente del tempo di veglia mio e di altre trenta persone è speso sulle pagine di libri che altri hanno scelto come esempi rappresentativi di scrittura italiana. È un esercizio che consiglio a tutti di fare perché è il modo migliore per capire come funziona la nostra industria editoriale ed è un buon allenamento per uscire dalla propria comfort zone. Negli anni mi è capitato di leggere libri belli, libri meno belli, libri proprio no, ma difficilmente sono rimasta spiazzata come con Le città e i giorni di Filippo D’Angelo.
L’ho letto per portarmi avanti con il lavoro, sperando che questa esposizione pluriennale ai raggi dello Strega mi abbia donato il superpotere di indovinare almeno chi passerà alla fase della dozzina. Ero incuriosita dalla figura del protagonista architetto e di come i racconti dei personaggi e delle architetture si potessero intrecciare. Mi sono trovata davanti a una storia molto densa e appiccicosa, come sono i libri a cui non vedi l’ora di tornare mentre svolgi le attività quotidiane della tua vita, scritta in una lingua ricercata ma non pedante e con una struttura circolare che si è manifestata solo alla fine.
Ho avuto modo di fare qualche domanda a Filippo D’Angelo e quella che segue è la nostra conversazione.
La prima cosa che mi ha colpito è stata la scelta di sincronicità che hai voluto dare al racconto. Il romanzo si svolge in un lasso di tempo preciso, ci sono dei riferimenti a quello che hai portato i due personaggi a quel punto della loro vita ma non si indugia troppo nel passato. Hai mai avuto la tentazione di scrivere solo la storia della carriera di Maurizio o quella della vita terzomondista di Emanuele?
Dall’inizio, l’idea è stata di scrivere due romanzi in uno, raccontando le vicende di due fratelli, ma senza che queste vicende s’incrociassero. A un certo punto ho anche pensato di far sì che non fossero nemmeno fratelli, di slegare del tutto le due vicende. Ma un mio amico scrittore a cui avevo parlato di questa idea mi ha consigliato di leggere Palme selvagge di Faulkner, che colpevolmente non avevo ancora letto, e di cui Kundera, nell’Arte del romanzo, scrive: “si alternano un racconto d’amore e la storia di un evaso, due soggetti che non hanno nulla in comune, non un personaggio, e neanche una qualunque percettibile affinità di motivi o di temi: una composizione che non può servire da modello a nessun altro romanziere, che può esistere una volta e basta, che è arbitraria, non raccomandabile, ingiustificabile”. In realtà penso che Kundera si sbagli quando dice che tra le due storie di Palme selvagge non c’è nessuna affinità di motivi. Comunque sia, ho fatto una scelta di umiltà e mantenuto il legame familiare tra i due protagonisti. Le uniche pagine che li vedono insieme sono le poche pagine dell’epilogo, un antefatto che risale a più di vent’anni prima, a quando erano ragazzini. Per il resto ho ridotto al minimo i riferimenti al loro passato, in particolare al loro passato comune.
Credo che oggi, nella narrativa, ci sia una tendenza forse un po’ narcisista e vittimista a rileggere il passato come trauma, spiegazione delle faglie un po’ infantili che si conservano nell’età adulta. Nel mio romanzo non è così. I due personaggi principali, se hanno delle debolezze, delle faglie, ne sono responsabili, e l’antefatto situato al tempo della loro pubertà non fa che sottolineare questa responsabilità un po’ tragica. Per quanto riguarda la tentazione di scindere il mio romanzo in due romanzi autonomi, sì, l’ho avuta, sarebbe stato anche facile farlo. Ma ho scelto di restare fedele alla mia idea originaria. Forse è stato anche un modo per evitare lo scoglio temibile del secondo romanzo: sono passato direttamente al terzo. L’inconveniente è che ho impiegato troppo tempo a scriverlo.
Maurizio è un personaggio affascinante e allo stesso tempo respingente, una via di mezzo tra un monaco Zen e Don Draper di Mad Men, contemplativo ma completamente passivo nei confronti della sua vita. Sono gli altri che decidono per lui e lui si lascia agire senza grossi patemi d’animo. L’unica persona nei confronti della quale ha costantemente dell’acrimonia è suo fratello Emanuele. Quanto è stato complicato lavorare per sottrazione, senza ricreare il cliché della famiglia disfunzionale?
Mad Men è una serie che ho molto amato, può essere che il personaggio di Don Draper abbia contribuito, senza che me ne rendessi conto, a farmi concepire quello di Maurizio, che in effetti è un personaggio un po’ fatalista, anche se meno di me, che gli ho prestato alcuni tratti, temo i più respingenti. Non amo il volontarismo, e il mio ideale, in effetti, sarebbe: niente patemi d’animo. Se Maurizio nutre una certa acrimonia nei confronti di Emanuele, è perché, in gran parte a torto, lo vede invece come una persona agita dalla volontà di cambiare lo stato delle cose. Ma complice la distanza tra loro, questa acrimonia può esprimersi solo in modo sporadico e indiretto.
A partire da questa stessa distanza tra i due protagonisti, evitare il cliché della famiglia disfunzionale è stato molto facile. Mi è venuto naturale scrivere un romanzo familiare senza anamnesi che spieghino una diagnosi, e soprattutto senza quei momenti topici che sono le grandi scene di famiglia, in cui si finge che per tutti i protagonisti i nodi vengano al pettine, cosa che in realtà non succede mai. Scrivere così, un po’ per sottrazione, è stato un sollievo, oltre che una ritrovata forma di aderenza a certe impressioni letterarie per me fondatrici: il personaggio che più mi intrigò la prima volta che, da adolescente, lessi il Gattopardo, è Giovanni, il secondogenito del principe di Salina, che non compare mai nel romanzo, ma in qualche modo ne determina l’intera vicenda.
Sono rimasta molto colpita dalla descrizione del mondo ebraico che si fa nel libro: il Seder di Pesach, Tel Aviv, Gerusalemme sono raccontate senza perdersi in spiegazioni o giudizi. Io l’ho trovato un atto di fiducia nei confronti del lettore, che può metterci le sue esperienze. Di nuovo, è stato faticoso essere così equilibrato nel racconto?
Nel romanzo il mondo ebraico è rappresentato dalla famiglia di David Zieberman, l’archistar americana che ha ideato il grattacielo al cui progetto Maurizio si trova a dover lavorare insieme ad Ariel, il figlio di David. È un mondo visto dall’esterno, filtrato dallo sguardo di Maurizio stesso. A un certo punto del romanzo, Maurizio va in Israele insieme alla famiglia Zieberman per festeggiare il compleanno della madre di Ariel. Scrivere su Israele e sui Territori palestinesi senza cadere in luoghi comuni o dire idiozie non è facile, ne è prova quello che abitualmente si legge oggi sui giornali e soprattutto sui social.
Nel romanzo ho deciso di evocare il conflitto israelo-palestinese solo tramite una finzione architettonica: una città mobile ispirata ai progetti mai realizzati di Yona Friedman, grande architetto utopista morto qualche anno fa. Nella mia finzione, la città mobile è stata a lungo utilizzata per occupare i territori palestinesi, per poi doversi fermare sotto le pressioni della comunità internazionale, fino a fissarsi in un destino museale: una tappa obbligata del turismo architettonico. Nelle mie intenzioni era anche un po’ un modo per suggerire che a volte la cultura viene sviata dal proprio fine, usata per imporsi, sopraffare.
C’è una grande assente nel libro, che è la psicanalisi. Noi non sappiamo cosa succede alla madre dei due fratelli, anche se in una pagina del diario africano di Emanuele viene abbozzata una spiegazione della loro vita di prima. Anche il padre ha con loro un rapporto molto oblativo, quasi materno. Ma questa stranezza non viene percepita da nessuno dei due e nessuno dei due ha una fase psicanalitica. Sarebbe stata una scorciatoia?
Sì, penso che farlo sarebbe stato una scorciatoia. Per farti un esempio, posso parlarti dell’antefatto raccontato nell’epilogo, che avrei potuto utilizzare per gettare una luce psicologica sui caratteri e le vicende di Emanuele e Maurizio. Scrivendolo ho invece fatto tutt’altro. Ho usato alcuni ricordi personali rimescolandoli con un aneddoto tratto dalla vita dei fratelli Rimbaud, il celebre Arthur e il meno celebre Frédéric, un aneddoto che non ha alcuna valenza psicologica, ma una grande valenza simbolica.
Secondo quanto raccontato da Isabelle Rimbaud, la loro sorella minore, Arthur, sul letto di morte, con una gamba amputata dopo un’operazione per un neoplasma, rievocò un episodio dell’infanzia in cui lui e il fratello, tornando a casa da scuola, avevano incontrato un vagabondo zoppo, lo avevano insultato e preso a sassate. Rimbaud morente, senza una gamba, rievocava quell’episodio come una maledizione. Ora, la cosa interessante è che, vent’anni dopo, suo fratello Frédéric, che lavorava come cocchiere a Charleville, la loro città natale, morì dopo un incidente di carrozza, e dopo che gli fu amputata una gamba andata in cancrena. Nel mio romanzo questa storia è trasposta per dare una possibile interpretazione, non piscologica, ma per l’appunto simbolica, del destino dei due protagonisti. La letteratura, fra le altre cose, ha anche il pregio di suggerire dei rapporti di causa-effetto che non siano né psicologici né sociologici, di eludere i determinismi abituali.
Insomma, penso che sia la psicanalisi a doversi nutrire della letteratura, più che il contrario (l’opera di Freud, del resto, nasce in parte proprio da quel nutrimento). La vita, le persone, le società, sono prevalentemente caos travestito da ordine. La letteratura ha sempre avuto la capacità di mettere un po’ di vero ordine (narrativo, simbolico) in quel caos insano, e un po’ di sano caos (morale, intellettuale) in quel finto ordine. Credo debba continuare a farlo seguendo le logiche che sono sempre state le sue, senza troppo preoccuparsi di ciò che pensano filosofi, sociologi o psicanalisti, le cui opere, per un romanziere, sono tuttalpiù ingredienti da usare nel calderone della scrittura.
Il romanzo ha una struttura circolare: entrambi i fratelli hanno una relazione con una donna francese, entrambi i fratelli hanno il loro aiutante che viene a mancare, entrambi si scontrano col potere politico che rischia di invalidare il loro lavoro. Ma è come se alla fine Emanuele arrivasse al punto di partenza di Maurizio e viceversa. È stato un percorso volontario verso l’eterno ritorno dell’uguale o no?
Le simmetrie tra i destini dei due fratelli sono un po’ l’ossatura narrativa e simbolica del romanzo. Per quanto riguarda la struttura circolare, si è imposta da sé nell’ultima fase di scrittura. La vicenda di Emanuele termina dove cominciava quella di Maurizio, e viceversa. Il romanzo inizia con Maurizio che è appena diventato genitore, mentre Emanuele è solo, e si chiude con Emanuele che si appresta a diventare genitore, mentre Maurizio si è ormai ritrovato solo. Non è stata una scelta volontaria, né formale: mi è sembrato che ciò corrispondesse a una certa verità del destino dei personaggi quale si era disegnato lungo le loro vicende.
Poi, certo, questa conclusione corrisponde alla mia visione delle cose, che s’identifica un po’ col segno 0. Non credo che, da parte mia, sia una forma di nichilismo, al contrario: è quasi una forma di fede. Innanzitutto, fede nella letteratura, che demistifica le nostre credenze, quasi tutte più o meno ipocrite, riportandoci a ciò che realmente siamo: lo stesso impasto, con dosaggi diversi, di ideali e meschinità, aspirazioni e fallimenti, desideri e frustrazioni, godimenti e patimenti. E poi fede in una vita generosa e spietata, che giustamente, prima o poi, mortifica le nostre pretese di unicità, e smentisce le differenze ingannevoli che, per narcisismo, coltiviamo, ma offrendoci non pochi momenti di grazia, se solo riusciamo a coglierli nostro malgrado.