La poesia non ha prezzo. Dialogo con Simone Gambacorta
In un ambiente culturale – o pseudo tale – in cui una congerie non ben identificata di interessi commerciali, mediatici e performativi ha marginalizzato o, quanto meno, ridotto la dialettica intellettuale, la possibilità di reale dialogo (anche acceso) tra operatori del settore e perfino quell’aura che già Walter Benjamin voleva salvaguardare nell’arte, proporre un’opera priva del prezzo di listino e contenente anche la documentazione fotografica di un momento concreto di confronto sulla poesia è un atto rivoluzionario.
La plaquette da cui trae spunto questa intervista è dedicata a Tommaso Ottonieri ed esce a cura di Simone Gambacorta (da cui nasce l’idea) e Fabrizio Sclocchini, con una introduzione dello stesso Gambacorta, alcuni versi di Ottonieri e la riproduzione di molti scatti fotografici (realizzati da Sclocchini su pellicola) dell’incontro avvenuto quest’anno a Teramo tra il poeta e gli studenti del Liceo Giannina Milli. Si inaugura, così, la collana “fuorimercato”, “libera e solitaria” come scrive il curatore, introducendo una serie di caratteristiche anacronistiche, forse velleitarie e di certo libertarie che rendono l’iniziativa rara quanto ambiziosa.
Ambiziosa perché si sottrae agli obiettivi autoriali e editoriali più comuni di oggi e, cioè, l’accesso a buoni risultati nelle vendite, al grande pubblico, alle notizie mainstream e, non ultimo, alla possibilità di dare libero sfogo all’urgenza di scrivere. In questo piccolo libro, infatti, è presente un solo, sorvegliatissimo testo poetico che basterà al lettore per la sua suggestiva completezza e che è bastato all’autore e ai curatori per farne un ‘opera autonoma e di certo non meno completa ed esaustiva di altre più corpose.
Pensi che possa esistere ancora la possibilità di atti rivoluzionari nell’ambito della cultura e dell’arte?
Le tecnologie potrebbero renderci, di qui a non molto, un po’ anfibi: cioè esseri umani saziati dai saperi, e dalle forme di erogazione e fruizione del sapere non meno che dell’informazione, dispensati dal dominio artificiale. Artificiale per come oggi, e anzi ogni giorno, stiamo abituandoci a considerare, e continuamente riconsiderare, questa parola. Faccio confessione di questa mia inquietudine, che razionalmente mitigo con un affidamento spero non troppo illuminista nel progresso, sicché mi auguro, e anche in parte credo, che possano definirsi assetti, singoli e collettivi, di non completa assuefazione e di non totale assopimento ai fiorenti succedanei che il nostro strano evo conia a più non posso. Credo che possa essere considerato più o meno rivoluzionario, e cerco così di venire al punto di domanda, ogni atto che, in definitiva, possa concorrere a evitare che l’umano lasci ammutolito se stesso dinanzi al proprio appagamento. Penso, quindi, a ogni atto che possa apportare occasioni di domanda e di disamina: diciamo anche una dissidenza critica esercitata come forma di riflessione e portata direttamente negli spazi e nelle modalità di un quotidiano che – credo – non dovrebbe arrivare a somigliarci troppo, per poter continuare a essere ancora nostro.
Cosa ti aspetti da questa collana? E cosa pensi che si aspettino gli autori coinvolti? Ci anticipi qualche altra uscita, se sono già in programma?
Dalla collana non ci aspettiamo in effetti nulla che non sia quanto di sorprendente possa portarci ad alimentarla con nuove uscite. Parlo al plurale perché “fuorimercato” è curata da me e da Fabrizio Sclocchini. L’idea di fondo sta nel desiderio di assottigliarsi – perciò il formato della plaquette – in modo da fare spazio, simbolicamente e materialmente, alla poesia. La collana è una non-collana, senza programma. L’importante per noi è che le varie uscite nascano da situazioni – per esempio un incontro, la presentazione di un libro, una tavola rotonda, anche una semplice passeggiata – vissute al di là del proposito di trarne un opuscolo. È fondamentale che a monte vi sia, o vi sia stata, un’occasione indipendente da ogni ipotesi di pubblicazione. L’eventuale pubblicazione deve essere il frutto, persino fortuito, di un episodio vissuto a contatto con la poesia. La plaquette su Tommaso Ottonieri è nata dopo una giornata trascorsa insieme, quando lo scorso ottobre è stato a Teramo, ospite del Premio “Gianni Di Venanzo”, per parlare di poesia agli studenti. Ottonieri è per me tra i massimi poeti italiani di oggi, il suo “Elegia sanremese” è un’opera altissima così come la sua più recente, “Cinema di sortilegi”. Più di vent’anni fa scoprii il suo “Contatto” e fu una folgorazione. A Teramo era con noi Fabrizio Sclocchini, che ha realizzato molte immagini fotografiche e un video integrale dell’incontro. Da quei materiali è nata la plaquette, dunque anche la collana. Iniziare con Ottonieri è stata una gioia e un privilegio: non meno del poeta e dell’intellettuale, stimo l’uomo, cui sono legato da tempo da amicizia.
La prossima plaquette riguarderà un poeta appartato e valido, ma preferirei non fare anticipazioni, non per ostentare riserbo, ma per non contraddire oltremodo lo spirito della collana: la creazione di un’aspettativa è fuori dal nostro discorso. Per me e Sclocchini la collana è una sede critica molto privata per portare avanti una ricerca sul contemporaneo. Le plaquette racchiudono accenti su di un’esperienza autoriale colta in un determinato momento: ne nasce una sorta di non-metrica extratestuale che fa memoria di un presente condiviso con un poeta. La poesia come lingua attraversata anche fisicamente. Le plaquette non possono essere acquistate, prenotate, richieste; vengono donate secondo una scelta nostra e secondo le copie disponibili, perché la tiratura è modica. Si è scelto di appartenere a un’altra eventualità, concetto – questo – che credo nella vita sia bene tenere fra quelli di più vasto e pronto impiego. Ma vorrei anche aggiungere che la scelta di porci fuori mercato vuole essere anche un ovattato tributo a Roberto Roversi. Sclocchini nel 2011 ha pubblicato con Roversi il libro “La dura epica vicenda”, uscito per la collana “Nuova Officina Adriatica” , che Fabrizio ha creato e diretto con Gianni D’Elia e che allora vedeva la luce per un istituto di credito teramano. Vi sono apparsi libri dello stesso D’Elia e di Franco Loi, sempre con Sclocchini come coautore con le sue immagini fotografiche. Così, quando è nata “fuorimercato”, ci è parso giusto farci roversianamente da parte.
Nella complessa e spesso dolorosa constatazione di come si sia evoluto nel tempo il contesto che gravita attorno alla letteratura, non solo ma anche nei termini dell’”omologazione culturale” demonizzata da Pasolini, penso spesso alla riflessione di Franco Fortini su come siano profondamente cambiati, già dalla rivoluzione industriale e, ancor di più, dalla metà del Novecento, i rapporti tra gli organi culturali e cioè giornali, emittenti nazionali, università, critici militanti, editori, distributori, librerie, biblioteche e, oggi, anche divulgatori e influencer. D’altronde, esiste ed è sempre più evidente la preponderanza del personaggio sull’autore dell’opera.
Tutto questo brusio di sottofondo (si pensi anche agli scandali molto mediatici e poco argomentati dell’ultima edizione di Più Libri Più Liberi), spesso del tutto inutile e corrosivo, cosa ha a che vedere con i libri e il raccoglimento necessario – quasi fisiologico – che lettura e scrittura richiedono, secondo te? In che modo si può pensare di volgere questi fenomeni a favore di una cultura realmente impegnata?
“L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello parla di un modo di porsi dinanzi alla morte. È la storia di una postura inevitabilmente solitaria. Credo che il portamento intellettuale di chiunque operi nella cultura dovrebbe orientarsi su un crinale simile: dovrebbe rispondere, cioè, a una postura, a un modo di porsi verso la cultura, o verso quello che più generalmente possiamo considerare come “fatto culturale”, che non ad altro dovrebbe corrispondere se non a un motivo personale di ricerca: addirittura, qualcosa di inevitabile. Vorrei aggiungere che in questo caso “ricerca” assume una molteplicità di significati possibili, perché ciascuno fa proprio quello che sente – è un verbo fondamentale, “sentire” – come inevitabilmente connesso alla propria condizione, direi anche al proprio destino. L’importante è scansare la sofisticazione e l’ansia di visibilità. È sin troppo evidente come questi due fenomeni siano oggi infestanti. C’è una lirica di Heine dove alligna il timore che anche gli usignoli possano mentire, se non “sentono”, se non portano davvero dentro sé, quello che cantano. La poesia di Heine ci consegna un’occasione di riflessione sulla differenza tra un atteggiamento culturale simulato e una condotta culturalmente fondata. Tra questi due oceani sfila oggi l’istmo sottile delle nostre speranze e di ogni discrimine. La postura verso la cultura dovrebbe essere quella di un usignolo che ci crede. Quanto alle polemiche, non saprei cosa dire, tutto ciò che ha a che vedere con atteggiamenti giudicanti mi è estraneo.
I versi di Tommaso Ottonieri, esili nell’estetica ma non esigui come corpo di lettura e come struttura contenutistica, invadono impressionisticamente lo spazio tipografico in modo disomogeneo, così come la grammatica franta e la punteggiatura adoperata in modo inusuale (che richiamano, di certo, le neoavanguardie) riprendono le traversie del respiro umano, legato sia alle ragioni etico-emozionali che alle istanze intellettive.
Le consonanze e le provocazioni allitterative compartecipano di un paesaggio siderale, inesistente se non nella compagine smerigliata del linguaggio (non solo verbale) che è, a ben vedere, il più veritiero teatro delle umane gesta. Un teatro di pura crudeltà, per dirla con Artaud.
Ci parli del dialogo tra le fotografie, i versi selezionati, la scelta del bianco e nero per tutta la plaquette? Che aspetto si vuole mostrare della poesia, e del discorso sulla poesia di oggi?
Per rispondere a questa domanda ricorro alle parole di Fabrizio Sclocchini, che dal principio degli anni Ottanta ha orientato la sua ricerca nella fotografia sul postmoderno e sulle tematiche fenomenologico-esistenziali, con mostre, libri, pubblicazioni, letture. Della nostra plaquette, Sclocchini spiega questo: “Sono immagini fotografiche caratterizzate dal rumore, dalla phoné. Ho scelto di utilizzare pellicole ad alta sensibilità, con una grana eccessiva che rende evidente il rumore della scala ‘disarmonica’ dei grigi. Il rapporto tra l’immagine e il rumore l’ho già indagato in passato, in particolare lavorando alle poesie ‘Canti brevi’ di Giuliano Scabia. Ripensando al suo lavoro con Luigi Nono, scelsi, per la copertina del libro che abbiamo realizzato nel 2014, l’immagine di una catenella pendente che aveva graffiato un muro. Si trovava in un’officina abbandonata e questo creò in me un cortocircuito con la rivista ‘Officina’. Da anni mi interesso all’immagine intesa come emissione di un segnale”. Quello che è fondamentale comprendere è che le immagini di Sclocchini non sono un accompagnamento o un completamento, ma sono esse stesse – al pari delle didascalie che le descrivono e che sono dei microsaggi – sostanza prima e costitutiva della plaquette. Le sue immagini e le sue didascalie sono un unicum di senso da fruire simultaneamente. In passato ho definito le immagini di Sclocchini come un “testo a fronte” delle poesie, credo sia una definizione tuttora applicabile.
Gisella Blanco vive a Roma. Collabora con Il Foglio. Scrive per la rivista Leggere Tutti cartacea e on line, per Atelier Poesia cartaceo e on line, per Liguria Day, per Poesia di Luigia Sorrentino, per Smerilliana. Ha seguito la comunicazione della Fiera del Libro di Iglesias, del Premio Nazionale Elio Pagliarani, Elba Book e del TeverEstate per il Cibaldone Culture Festival. È giurata nel Premio Internazionale Città di Sassari per la sezione Poesia.
In questo contesto, la collana non si propone di rispondere alle logiche di mercato, ma di offrire occasioni di riflessione e di memoria condivisa con gli autori, creando un legame più profondo e personale con il lettore.
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