La Posta Letteraria a Radicofani. Intervista a Dacia Maraini, ospite della rassegna
Il secondo fine settimana di luglio, sabato 13 e domenica 14, torna nel Bosco Isabella di Radicofani in provincia di Siena La Posta Letteraria, il Festival Internazionale del Libro della Val d’Orcia ideato nel 2019 della associazione Pyramid, composta da ragazzi tra i 18 e i 30 anni. Tra gli ospiti di questa sesta edizione Antonio Di Bella, Domenico Starnone, Dacia Maraini, Teresa Principato, Claudio Tito, Fabrizio Biasin, Nicola Gratteri.
Ringraziamo Dacia Maraini per la disponibilità a questa intervista.
Dacia Marini, con il suo ultimo libro, Vita mia, riavvolge il nastro al tempo della sua infanzia, quando assieme alla sua famiglia venne sottoposta alla prigionia in Giappone. Vorrei chiederle com’è stato tornare a quei giorni, quali sono i sentimenti che hanno accompagnato la sua scrittura.
Dapprima ho avuto paura di aprire vecchie ferite. Sono anni infatti che provavo a scrivere questo libro: lo cominciavo e poi mi fermavo, lo ricominciavo e mi fermavo. Sentendo oggi venti di guerra mi sono costretta a finirlo e darlo alle stampe. Penso che una testimonianza di guerra sia sempre più importante di discorsi generici sulla pace. Curiosamente, mentre lo scrivevo, mi sono tornate alla memoria degli episodi che avevo dimenticato, o forse cancellato. Alla fine mi ha fatto bene portare a termine questo libro, mi ha aiutato a creare un rapporto più dinamico e consapevole con la memoria.
Per quanto era una bambina, quanto hanno influito nella sua biografia intellettuale gli anni giapponesi? Voglio dire, qual è stata l’eco di quel tempo a livello di suggestioni, ricordi, riflessioni?
Credo di avere risposto. Comunque le esperienze drammatiche rimangono incise nella nostra carne. Si tratta appunto di creare un rapporto di consapevolezza con la memoria, perché quelle ferite non diventino purulente.
Sempre in riferimento alla sua formazione, quanto ha contato la dimensione del viaggio, della scoperta di luoghi e culture differenti?
L’amore per il viaggio mi viene dalla famiglia: mio padre, antropologo, ha sempre viaggiato. A sua volta, la madre di mio padre che era inglese, girava per il mondo da sola ai primi del secolo. E non era ricca mia nonna, ma si mettevo lo zaino in spalla e affrontava tutti i rischi di un viaggio solitario. E allora le donne non viaggiavano mai da sole.
Oltre a Vita mia, l’infanzia in Giappone è presente anche nel suo libro La nave per Kobe, uscito qualche anno fa. Cosa lega e cosa differenzia questi due testi?
La nave per Kobe racconta il passaggio da un continente a un altro. Ma ero troppo piccola per capire e confrontare i due mondi. Vita mia invece è una riflessione sui ricordi più amari e su una cultura che nonostante le difficoltà, ho amato e amo ancora.
Sempre a proposito di legami e differenze, Italia e Giappone sono paesi geograficamente e storicamente lontanissimi. Dal suo punto di vista, quali sono – se esistono – i ponti sociali e culturali che uniscono questi due mondi?
In questo momento Giappone e Italia hanno in comune la democrazia come conquista dopo anni di un regime totalitario e una guerra persa. Dal punto di vista culturale sono veramente troppo diversi. I giapponesi si pensano prima di tutto come collettività mentre noi ci pensiamo prima di tutto come individui. Per noi l’io conta più di tutto, per loro prevale il noi. Quello che ci unisce ora è un terribile ricordo della guerra, la voglia di pace, una alimentazione sana che porta alla longevità.
Nei circoli letterari e culturali che ha avuto modo di frequentare nel corso del tempo, questa sua infanzia giapponese suscitava curiosità?
Non tanto, devo dire. Forse troppo esotico il paese e troppo lontano per suscitare curiosità.
Vorrei farle infine qualche domanda sul nostro presente. Innanzitutto, da scrittrice e intellettuale, come valuta l’attuale panorama italiano? Le sembra di scorgere fermento o nota una scena stanca, poco brillante?
Sento una grande confusione. Troppe paure, troppo individualismo, troppo protagonismo. Mancano i valori condivisi che uniscono una nazione. Ma non è colpa di nessuno. E’ che viviamo in un momento difficile, in cui i cambiamenti si susseguono con tale velocità che mettono paura: il movimento dei popoli, la paura di perdere la propria identità, i cambiamenti climatici, le epidemie incontrollabili, le minacce nucleari. Tutto questo crea ansia e stimola quell’egoismo che porta a chiudersi in bunker che sembra difenderti dal mondo ma invece crea solo isolamento e solitudine.
Passando al ruolo degli intellettuali, che lei ha sempre interpretato con coraggio: crede che la classe intellettuale sia ancora in grado di esercitare una propria influenza? E se sì, quali sono i temi sui quali dovrebbe insistere maggiormente?
Come ho detto prima se non ci sono dei valori condivisi non si crea una società coesa e forte. Oggi ciascuno va per conto suo. Le paure sono tante e diverse, ma le risposte sono tutte diverse e personali. Questo genera confusione e frammentazione dei pensieri e delle emozioni.
Cosa la preoccupa maggiormente e quali sono invece le ragioni per guardare con ottimismo al futuro?
Mi preoccupa l’imbarbarimento a cui stiamo assistendo, proprio per la perdita dei valori umani a cui nessuno sembra più credere. Ma siccome sono una inguaribile ottimista, penso che alla fine il buon senso potrà prevale. Chissà quando però, e nell’attesa che le persone rinsaviscano, possono accadere molti guai.
Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell’agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.