L’entusiasmo per gli NFT e le blockchain: conversazione con il digital artist Luca Trucca
di Paolo Landi
L’era digitale è scandita da fasi entusiastiche per l’ultimo ritrovato della tecnica, cui segue, anche contemporaneamente, la critica e a volte la demolizione dello stesso. Ora stiamo vivendo l’infatuazione per gli NFT (Non Fungible Token) e le blockchain. Sembrano cose difficili da capire ma le corporation digitali sono troppo interessate a far soldi e non vogliono crearci troppi problemi, così alla fine quello che sembrava complicato si scopre facile e il digital divide è sempre tra gli scafati scettici che hanno catalogato i nuovi profeti tecnologici capendo subito dove vanno a parare e quelli che, entusiasti, pendono acriticamente dalle loro labbra.
Tra gli entusiasti dell’ultimo ritrovato tecnologico-finanziario, gli NFT appunto, troviamo, tra molti altri, Paris Hilton, Ryuichi Sakamoto, Martin Scorsese che, leggiamo, finanzierà a colpi di NFT il suo prossimo film, e anche il nostro Alessandro Baricco. Il capo degli scettici è invece il musicista Brian Eno. La blockchain, tecnologia utilizzata per le criptovalute (il denaro che si scambia esclusivamente in rete e che prefigura un futuro in cui la moneta di carta e il portafoglio spariranno, diventando una ulteriore evoluzione della già avvenuta estinzione dello sportello bancario, già da tempo emigrato sul nostro smartphone) permette di tracciare e autenticare qualsiasi cosa avvenga digitalmente: come lo fa per il denaro lo può fare anche, per esempio, per un disegnino fatto al computer ingrandendo i pixel di un emoticon, per una canzone, per un monologo teatrale, per una borsa, un abito eccetera. Certifica cioè chi ha creato cosa e se chi ha creato “tokenizza” il suo manufatto digitale, lo trasforma cioè in NFT, lo può mettere all’asta, rivendere, offrirlo a chi è interessato a questa forma di cryptoarte come alle speculazioni in Borsa.
Posso comprare un’immagine di Paris Hilton, la colonna sonora di Furyo di Sakamoto, una borsa di Louis Vuitton o il primo tweet di chi ha inventato Twitter, Jack Dorsey, con la certezza di essermi aggiudicato un originale. L’NFT è un’opera digitale di cui viene certificato un solo esemplare, “coniato” come se fosse una moneta e poi venduto a collezionisti o a persone che desiderino possederlo. Frenetik Void, la star ventiseienne di questo genere di operazioni creative, rispondendo al padre che gli diceva “Perché non ti fai pagare direttamente per le cose che fai sul computer?” googlò “digital artwork blockchain” e, cominciando a “tokenizzare” opere d’arte (cosidette) eseguite al pc in meno di due minuti, è diventato milionario (ma, attenzione: nel mondo parallelo delle blockchain, dove il valore delle criptovalute è per ora aleatorio).
La retorica della rivoluzione digitale vuole che alla base di questo aggiornamento di un sistema anticontraffazione (parafrasando Benjamin, non esiste niente che il web non abbia già mostrato: la moda lo ha capito da tempo, per questo ricorreva alla tecnologia RFID prima di approdare ai NFT in cerca di unicità e di autenticità) ci sia una spinta, chiamiamola “ideale”: perché l’umanesimo, o la sua parodia, la speranza in una tecnologia salvifica per l’uomo, che lo liberasse da qualunque tipo di sfruttamento restituendogli centralità, non solo nel lavoro ma anche nell’arte, è sempre stato alla base delle convinzioni hippy dei pionieri digitali di San Francisco e della Silicon Valley: poi hanno dovuto abbozzare, rendendosi conto di quanto invece fossero centrali la finanza e il denaro, i veri motori della rivoluzione digitale.
Criptovalute, token, digital wallet sono parole che non dovrebbero avere nulla a che fare con l’arte e la cultura. Hanno invece molto a che fare con la finanza e il merchandising digitale oltre ad essere altamente inquinanti, basandosi su una domanda-offerta che si esprime su Internet, tutt’altro che una struttura smaterializzata, fatta com’è di migliaia di chilometri di cavi, logistica, lavoro umano.
Così oggi l’immagine realizzata da un ragazzino sul pc cambia il suo valore se si “tokenizza”. Idem per una foto di Paris Hilton o per un monologo teatrale di Baricco trasformato in una specie di podcast. Una rivoluzione, per gli entusiasti. Per il musicista Brian Eno, invece, “gli NFT servono solo a far diventare anche gli artisti piccoli stronzi capitalisti”. Contattato varie volte per “fare un NFT” della sua musica, Eno dice di avere sempre rifiutato perché per lui vale la pena “fare qualcosa che aggiunge valore al mondo, non solo al conto in banca”. E questo qualcosa non lo ravvisa negli NFT, in questo modo spregiudicato dell’arte di inserirsi “in un pezzetto di capitalismo globale, la nostra versione casalinga della finanziarizzazione del mondo”. Non solo, ma aggiunge: con gli NFT “sembra abbastanza folle disperdere energia per stabilire unicamente un proof of work, un criterio di autenticità: insomma, per produrre niente di cui abbiamo veramente bisogno”, dice Brian Eno, mettendo una coraggiosa ipoteca prima di tutto sulla sua musica e poi su tutto il resto in via di tokenizzazione.
Di questi temi abbiamo parlato con Luca Trucca, digital artist di lungo corso, uno dei primi sperimentatori in Italia delle contaminazioni tra arte e tecnologia.
Lei fa arte digitale già da vari anni. In cosa consiste il suo lavoro?
È più facile guardarlo sul mio profilo Instagram che parlarne. In sostanza faccio questo: prendo quadri antichi, possibilmente seicenteschi, ma anche di altre epoche e mi sostituisco ad uno dei personaggi rappresentati. In un quadro del Caravaggio, per esempio, mi sostituisco a uno dei personaggi, fotografandomi nella stessa posizione ma essendo me stesso, indossando la mia felpa di tutti i giorni, i miei jeans. A volte metto sul volto una maschera che somiglia a quella di Hannibal Lecter nel Silenzio degli innocenti, oppure altre maschere grottesche che uso in funzione straniante.
Perché lo fa?
È un omaggio al mio amore per la storia dell’arte. E la mia risposta ai social network che ci spingono a mostrarci. Invece che farmi un selfie, mi intriga di più sostituirmi a uno dei due ladroni ai lati di Gesù crocifisso, sul Golgota. Gli artisti che hanno dipinto se stessi in un quadro sono sempre esistiti. La tecnologia mi consente di andare oltre: non solo di inserire il mio avatar in un dipinto, ma di inserirlo nella scena immaginata da un grande artista del passato. È un triplo salto mortale: sono io, in un quadro del seicento, ma nel feed di Instagram.
Può spiegarci il procedimento?
Tutto si svolge in solitudine. Guardo molti libri e cataloghi d’arte, scelgo un quadro, poi allestisco il set, con un uso molto accurato delle luci, scelgo il mio outfit, eventualmente la maschera; assumo la stessa posa del personaggio raffigurato nel quadro; eseguo l’autoscatto. Mi prende molto tempo, devo stare attento a molti dettagli. Poi, per l’inserimento della foto, lavoro di Photoshop.
Sembrerebbe che l’arte digitale sia facile. Molti ragazzini pare diventino milionari con disegnini fatti al pc, autenticati come NFT e venduti all’asta, registrandoli su blockchain. Cosa ne pensa?
Mi interessa, anche se non penso di rendere unica la mia arte registrandola come NFT. Ho capito che tutto quello che è digitale ha bisogno di essere autenticato, perché appropriarsene è molto facile. I disegnini con i pixel però non mi interessano, saranno pure unici dopo che i furbetti li hanno registrati, certo racconteranno il nostro tempo forse meglio dei miei lavori, tuttavia non mi emozionano. Tutto quello che è facile alla fine non mi emoziona. La banana appiccicata al muro di Cattelan magari mi interessa, ma certo non mi emoziona come le foto, per esempio, di Francesca Woodman, un’artista che, con la sua fotografia, ha lavorato sul concetto di arte e di identità dicendo cose nuove. Se l’arte è facile, non resiste al tempo, credo, o almeno spero. In questo sono analogico, l’esperienza per me conta: credo che la fatica meriti un premio. Sono le idee che meritano un premio, e il lavoro per portarle a compimento, non le trovatine.
L’arte d’ora in poi emigrerà sul digitale? Anche il musicista Sakamoto e Martin Scorsese useranno gli NFT.
Non credo. Continuerà ad esserci un’arte analogica accanto a esperimenti di arte digitale. Per ora non mi pare che l’arte digitale abbia prodotto cose memorabili, perché siamo agli inizi, è inutile quindi cercare di fare il passo più lungo della gamba. D’altra parte prendere una musica che già esiste, o un testo, o una foto, e farne un NFT non mi pare la strada. Sarà utile perché forse si faranno affari, ma non da un punto di vista artistico. Mi interessa di più un giovane come Beeple, che usa il digitale per le sue caratteristiche e non come semplice veicolo di qualcosa di tradizionale. Tuttavia Sakamoto e Scorsese continuano ad essere più interessanti di Beeple, non so se mi spiego.
Cioè, vuole spiegarsi meglio?
Insomma, l’ho detto prima, chi fa arte in due minuti sul pc e poi accumula milioni sulle piattaforme blockchain ci dice molto sul modo nuovo di fare soldi ma non ci dice niente sull’arte.
In cosa si differenzia la sua opera da tutto questo?
Io, anche per generazione, rappresento la fase di transito. Il mio lavoro funziona su Instagram ma funziona anche appeso in una galleria. Risponde a un concetto di arte più vicino a noi, certamente più di un emoticon pixelato e ingrandito. È il tentativo di esplorare un mondo nuovo con le possibilità che la tecnologia offre. Inoltre guarda al passato mentre la digital art dei ragazzini è condannata a esplorare il futuro e ormai si sa, appena si parla di futuro, già soltanto nominarla, quella parola, ci trascina nell’archeologia. Il mio lavoro è come Midnight in Paris di Woody Allen, che riportava un protagonista contemporaneo nel passato. Vorrei un teletrasporto che potesse riportarmi nel passato. Invece il metaverso mi proietterà soltanto nel contemporaneo, nemmeno nel futuro. Sarò qui in Umbria mentre il mio avatar starà partecipando all’inaugurazione di un mia mostra al MoMa (magari). Il digitale ha questa peculiarità: ci condanna alla contemporaneità, per questo è accompagnato da tutta la retorica sui giovani. Un’altra condanna: perché si è giovani per poco e, ogni minuto che passa, sostituibili da qualcuno più giovane di noi.
(In copertina: “Senza titolo”, Luca Trucca, 2021)
Mi sembra che sia da parte dell’intervistatore che da parte dell’ intervistato si sorvoli un po’ troppo sulla questione tecnologica di cosa siano e cosa permettano davvero le transazioni di NFT. Quello che si dice nell’introduzione rappresenta, al più, una parodia di ciò che molti credono a proposito di questa tecnologia. La discrepanza tra questo e la realtà della tecnologia è grossa, e sta già causando grossi problemi al settore.