Note necessarie. Una conversazione con Enrico Rava

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Enrico Rava è uno dei più stimati, prolifici e versatili jazzisti europei.

Nella sua lunga carriera ha incontrato e collaborato con alcuni dei più grandi nomi a lui contemporanei: da Michel Petrucciani a Richard Galliano, da Pat Metheny a John Abercrombie da Gato Barbieri a Steve Lacy, da Roberto Gatto a Stefano Bollani, virando spesso sulla musica leggera d’autore (si pensi alle collaborazioni con Ivano Fossati e Paoli/Vanoni).

Ora la vita artistica di Rava è celebrata dal film di Monica Affatato, Enrico Rava. Note Necessarie, che segue l’ominimo libro autobiografico, scritto con Alberto Riva, uscito per minimum fax nel 2004 .

Il titolo ricorda il consiglio che l’amico João Gilberto gli ripeteva: “suona solo le note necessarie”.

Con l’occasione abbiamo avuto una lunga conversazione col musicista, in cui abbiamo ripercorso le tappe della sua straordinaria carriera, parlando anche di un evento particolare: il concerto di oggi alle 21.30 al Teatro Romano di Fiesole, in cui suonerà col talentuoso pianista Giovanni Guidi e il guru dell’elettronica Matthew Herbert.

Un incontro artistico fuori dagli schemi, che rispecchia la personalità esuberante e generosa di Rava.

Speriamo di aver restituito almeno l’impressione della sua schietta allegria.

Questo film rappresenta senza dubbio una sintesi e un bilancio della tua lunga carriera.  Come hai vissuto questa esperienza?

L’ho vissuta bene. Soprattutto ora, mentre si girava poteva risultare a volte una scocciatura (ride, ndr). Scherzo, ovviamente, il risultato finale mi sembra eccellente. Sono molto contento della versione definitiva, molto soddisfatto.

Nel film appaiono delle vere e proprie gemme perdute, rarissimi filmati di esecuzioni storiche.

Si, ci sono spezzoni di cose degli anni’70 e ’80, come una versione di ‘Round Midnight con Michel Petrucciani durante un concerto al Teatro Olimpico di Roma, non ricordo nemmeno che anno fosse. Con lui feci due, tre concerti. Mi ero completamente dimenticato di questa interpretazione. Rivedendola, sono rimasto a bocca aperta, perché al di là della bellezza del brano, l’esecuzione ci è venuta particolarmente bene, ho insistito affinché venisse inserita, nonostante la qualità video ed audio non sia impeccabile.

Inoltre, ci sono molti personalità che stimo che nel film mi gratificano con testimonianze davvero lusinghiere, come Carla Bley , Roswell Rudd o Stefano Bollani.

Che ricordo hai di Petrucciani?

Non era solo un musicista straordinario, era in grado di  comunicare emozioni straordinarie quando suonava. Con lui si viveva un’esperienza duplice: era una persona adulta, intelligentissima, era anche un tipo scafato, però questo immenso problema fisico che lo affliggeva ispirava nelle persone attorno a lui una tenerezza invincibile.

Si sentiva la necessità di proteggerlo, abbracciarlo, mentre in reltà era una personalità fortissima.

Venendo a Bollani, i vostri nomi sono ormai sinonimo nel mondo del grande jazz italiano…

Ti ringrazio. Le collaborazioni con Bollani saranno centinaia, quindici anni di concerti in tutto il mondo! Ma poi in ogni forma: duo, trio, quartetto, con grande orchestra…

Da un poì di anni suoniamo solo un paio di volte all’anno, per i nostri impegni, ma ci divertiamo sempre moltissimo.

Come vi siete conosciuti?

Tanti anni fa dovevo suonare con un trio a Prato e mi segnalarono un pianista fortissimo. Lo incontrai, provammo insieme, e dopo dopo i primi due minuti mi sono accorto che era un fenomeno. Non l’ho visto per qualche mese, poi l’ho incontrato a Roxy Bar, la trasmissione di Red Ronnie. Era con Jovanotti all’epoca. Avevo bisogno di un pianista per un concerto a Parigi, lui era impegnato perché iniziava il tour con Jovanotti. Gli dissi: “Se ti piace suonare con lui è un conto, va bene, ma se lo fai solo per soldi sappi che se tu inizi una carriera da pianista jazz, bravo come sei, ne fai molti di più!”.

Dopo venti minuti mi ha richiamato ed è venuto con me a Parigi. Da quel momento è divenuto un musicista che viveva di jazz, mentre prima era un po’ un “impiegato” dei cantanti pop, come Jovanotti o Irene Grandi. Ci siamo divertiti un mondo, facevamo lunghi viaggi in cui ridevamo dall’inizio alla fine, anche perché abbiamo un senso dell’umorismo molto simile.

Credo di poter dire che abbiamo fatto anche dei bei dischi insieme.

Indubbiamente. Nel film ha un ruolo importante anche Gato Barbieri. Qual era il vostro rapporto?

Gato è stato determinante per me. Fu lui a convincermi a divenire un musicista a tempo pieno. Avevo un lavoro che non  mi piaceva ed ero disperato, non potevo immaginare tutta la mia vita in quel modo. Volevo fare il musicista, ma non il musicista professionista che suona in orchestra alla Rai. Volevo fare il musicista Jazz!

Ci sei riuscito, anche se dici sempre che all’epoca era come sognare di fare il cowboy!

Era più difficile! Praticamente impossibile. Conoscevo solo due persone che ce l’avevano fatta: Nunzio Rotondo, che aveva una trasmissione in Rai, e il mio coetaneo Franco D’Andrea.

Ho conosciuto Gato grazie a un piccolo concerto, organizzato vicino Torino. Ancora non era “Gato Barbieri”, erano i primi anni ’60, lui era arrivato in Italia da poco, viveva da un mese a Roma. Per soldi suonava con Arturo Testa, un cantante divenuto famoso per il brano Io sono il vento. Tornando da un tour in Jugoslavia, quando si chiamava ancora così, incontrarono a Milano il nostro bassista, Giorgio Buratti, che lo invitò ad unirsi al nostro concertino. Quando suonammo insieme, dopo tre note sono rimasto senza parole. Ho capito cosa voleva dire suonare: era un marziano, di un altro pianeta. Dopo il concerto fu gentile, mi fece alcuni complimenti, e mi disse di lasciare il mio lavoro e fare il musicista a tempo pieno.

Beh, se te lo dice Gato Barbieri magari ci pensi…

Infatti! Dopo cinque, sei mesi doveva andare a Roma e mi invitò. Dovevo decidere. Decisi di andare. Mollai tutto e andai con lui.

A casa, mi immagino, tutti contenti…

Moltissimo, entusiasti (ride)! Sono partito con la mia 600, assieme al mio amico Franco Mondini, che era stato già batterista di Chet Baker, mi ricordo non c’erano autostrade, facemmo tutti i valichi e l’Aurelia: 12 ore a cantare a squarciagola.

Poi, fummo fortunati. Il quintetto che Gato aveva messo su si esibiva in un locale di Trastevere chiamato Il Purgatorio. Faceva parte del complesso del Meo Patacca, a Piazza dei Mercanti. Classico luogo per turisti, con i parcheggiatori vestiti da antichi romani. Il proprietario possedeva una piccola cantina accanto. Era un tipo particolare, Remington Omlsted, che comparve come attore in moltissimi film, facendo sempre la parte del gangster o dell’antico romano. Era un decisionista, disse subito col suo accento: “Mi piacci questa aidia!”. In una settimana mise tutto a posto, fece arrivare un pianoforte ed eravamo pronti. Cominciammo con poche persone, poi dopo poche sere cominciarono a venire Mastroianni con la Ekberg, i nobili romani, tra cui spiccava Pepito Mignatelli, grande appassionato di jazz. Suonammo per 9 mesi tutte le sere, fu per noi una vera e propria università.

Era la Roma magica dalle infinite possibilità, felliniana, descritta magnificamente da Flaiano. A pochi metri nelle cantine di Trastevere si esibivano Carmelo Bene e Leo de Berardinis, con Pasolini, Visconti, Moravia e la Morante che li andavano a vedere. Si potevano incontrare attori internazionali e poeti in esilio in ogni ristorante.

Un  momento straordinario. C’era pure Julian Beck e il Living Theatre, tantissimi musicisti attorno all’Accademia americana, da Carla Bley a Don Cherry. Erano tutti a Roma, era incredibile. Poi Gato andò a Parigi e io a New York con Steve Lacy. Prima in verità andammo a Londra ad incontrare due musicisti africani che ci interessavano molto e poi passammo in Sud America. Fu tutto rapidissimo, ho avuto molta fortuna

L’uomo giusto nei posti giusti con le persone giuste.

Sembra retorico dirlo, ma è proprio così. Dopo quattro anni che avevo lasciato quel lavoro maledetto, mi sono ritrovato a New York a suonare con quelli che finoa poco prima erano i miei idoli. Per un po’ ho vissuto come dentro un film di cui ero protagonista e spettatore.

Mi vedevo dal di fuori, ci ho messo un bel po’ per capire che era vero.

Anche perché quegli anni giravano belle droghe, il dubbio era lecito…

(Ride, ndr) Beh, si… non è che uno si astenesse!

Qual è musicista con cui hai collaborato che ti ha dato la sensazione di essere “arrivato”?

A parte che non ci credevo, la svolta è stata senza dubbio entrare nel gruppo di Steve Lacy. Essendo lui molto stimato dai jazzisti americani, quando sono arrivato a New York, introdotto  da lui, automaticamente si sono aperte tutte le porte: mi sono trovato a suonare con persone che non mi sarei nemmeno sognato di incontrare. Parliamo di quasi 50 anni fa, lo skyline era uguale adesso, non c’erano ancora le Torri Gemelle…che adesso ricostruiranno.

Quali incontri ricordi di quel periodo?

Ornette Coleman, Joe Henderson, uno dei più grandi sassofonisti di sempre, oltre ovviamente a Chet Baker. che già avevo incontrato a Torino. Ero un principiante, lui era uscito dopo poco più di un anno di galera a Lucca e fece un gruppo con musicisti italiani, fra cui il mio amico Franco Mondini. Nel frattempo, anche per l’aura maledetta dell’incarcerazione, era diventato popolarissimo. Quando aveva giorni liberi veniva a stare da Franco che mi chiamava subito, io mi fiondavo e mi attaccavo a Chet.

Per me Chet Baker, da profano ascoltatore, è anche un magnifico cantante. La sua versione di My Funny Valentine mi mette i brividi ogni singola volta che la sento. Esagero?

Per dirti come la penso: per me, dopo Louis Armstrong, è il più grande cantante, uomo, della storia del jazz. Nessun cantante mi piace come Chet da giovane, prima che le sostanze gli rovinassero la voce.

Perdona la considerazione forse superficiale, ma c’è qualcosa nella tecnica trombettistica che ha consentito ad Armstrong e Baker di essere anche straordinati interpreti vocali?

Sicuramente qualcosa nell’emissione della voce. In un certo senso, il trombettista, più di un sassofonista, è un cantante. Se interpreta una ballad, la “canta” in un certo senso. Non a caso, Miles Davis diceva che il suo modo di usare gli spazi, anticipare la melodia l’aveva elaborato ispirandosi a Frank Sinatra, che aveva ascoltato a lungo.

Tornando a Chet, João Gilberto diceva che era stato molto colpito da come suonava nei primi dischi, quelli dove si espresse al suo massimo, dal ’51 al ’56, prima di avere dei problemi per le dipendenze.

Lui esplose a 22 anni e di colpo vinse il referendum miglior trombettista al mondo: a quel tempo  c’erano Miles Davis e Dizzy Gillespie! Lui era del ’29, i grandi dischi con Gerry Mulligan sono del ’52! João Gilberto era leggermente più giovane, sentì queì dischi rimase colpito e influenzato, me lo diceva sempre.

Anche i grandi del bebop esplosero giovani…

Gillespie aveva 18 anni quando lasciò tutti a bocca aperta.

Nel film ci sono estratti rari di Pasolini, come mai?

Sono scene relative agli Appunti per un’Orestiade africana, la voce che parla è la sua, mentre Gato suona. Io non c’entro nulla! Quell’anno ero già a New York. Credo siano del ’69-70, perché Gato aveva già il cappello da argentino con il poncho, mentre prima con Don Cherry aveva il look da musicista bebop. Era uno straordinario giro di amici, così conobbe Bertolucci.

Era poco prima de la colonna sonora per L’Ultimo Tango a Parigi.

Film amo poco, secondo me si sorregge sull’iconicità assoluta degli attori, la fotografia e  proprio sulla colonna sonora, che gli dona una bellezza ulteriore.

Essenziale. Come anche in Ascensore per il patibolo di Louis Malle. L’ho rivisto recentemente in areo andando a Singapore. Un bel film, ma la musica pazzesca di Miles lo rende indimenticabile.

Parlando di Davis: era un genio che amava la contaminazione col pop. In particolare, aveva una stima immensa per Prince, recentemente scomparso, arrivando a definirlo “il nuovo Duke Ellington”. Prince era un musicista geniale, un polistrumentista capace di mescolare ritmi funky ad assoli hendrixiani, continue intuizioni melodiche e ispirazioni anche dal jazz, posso chiederti se ti piace?

L’altro giorno andando a Bologna con mia moglie abbiamo fatto tutto il viaggio ascoltando tutto il disco Purple Rain!

Faccio arrabbiare alcuni dicendo che a me alcune cose ricordano Frank Zappa…

A me piace più Prince, col tutto il rispetto per Zappa.

Non dirlo a Bollani!

Eh si, lui adora Zappa. Anche se a me più di Prince, piace… Michael Jackson! Per me uno dei più grandi personaggi del Novecento. Ho fatto qualche anno fa anche qualche un disco di cover, Rava on the Dance Floor.

Come nasce questa passione?

Merito di mia moglie, che è vent’anni più giovane  ed è cresciuta con queste musiche. All’epoca io ero un integralista del jazz, sai di quelli insopportabili…calcola mi ha fatto a scoprire i Beatles…25 anni fa! C’erano ancora le cassette, le chiesi di farmi un’antologia con le sue canzoni preferite. Me ne fece tre: ascoltai e impazzii. Sono bellissimi dischi non solo dal punto di vista del del godimento  da ascoltatore, ma anche interessanti dal punto di vista musicale, soprattutto gli ultimi dischi.

Beh, il White Album è una miniera. Happines is a Warm Gun dura meno di tre minuti e sembrano tre canzoni in una. E invece Jackson?

Sai, io io abitavo a New York nei  primi ’70, lui era un bambino con i Jackson Five. Era impossibile non sentirli. Era il periodo dei juke-box, li ascoltavi ovunque, da qualsiasi finestra. Si, li gradivo ma non mi ero mai  particolarmente interessato. Ero un talebano del jazz! Dopo la morte, ne ho scoperto la grandezza. Un giorno arrivò a casa, mia moglie stava guardando il concerto a Bucarest: sono rimasto con la valigia in mano. Una cosa mostruosa. Non potevo crederci. Dalla mattina alla sera, ho scoperto un mondo. Soprattutto, gli ultimi dischi, i meno gettonati, sono ancora più belli. Si tratta di grande musica. Come ballerino, nemmeno a parlarne: Fred Astaire lo definì “il più grande ballerino del mondo”, dicendo che non sarebbe stato capace di fare ciò che faceva Jackson. Mica lo dico io! E poi anche per ciò che riguarda i video, ha rivoluzionato tutto. Non mi riferisco al celebratissimo Thriller, ma anche a un video come Bad

E proprio Prince doveva fare la parte di Wesley Snipes!

Ma davvero?

Si, solo che siccome il primo verso era “Your butt is mine”, Prince disse: “Io non lo canto a te e tu non lo canti a me!”.

Erano due talenti. Jackson era anche un formidabile imitatore, c’è un video in cui da ragazzino fa l’imitazione di James Brown identica!

Veniamo al concerto  di oggi con Matthew Herbert: molto interessante l’incontro fra la musica elettronica e il jazz. Come è nato?

Secondo me è  questo connubio è una delle vie di scampo per fare una musica che sia fruibile, diversa che sia ancora popolare. Avevo già fatto un concerto con Herbert a Vercelli, non so a chi fosse venuta l’idea, credo a Giovanni Guidi che aveva suonato con lui un materiale secondo lui adatto al mio stile. Al soundcheck ho potuto vedere il lavoro pazzesco di Herbert: gli ho detto “Tu comincia, io ti vengo dietro”. Ci siamo divertiti da matti. Ogni volta con lui viene fuori un risultato completamente diverso. Mi chiese dei suoni particolari, non delle melodie, che lui avrebbe poi campionato e rielaborato.

Dopo due ore mi ha fatto ascoltare il materiale: aveva creato un tappeto sonoro meraviglioso. Lui interagisce durante il concerto, il suo non è un contributo statico. Per me, ripeto, l’elettronica potrebbe essere una via, una possibilità per il jazz. Quando vedo nei club a New York i nuovi musicisti ho una doppia reazione. Trovo la loro musica troppo cerebrale, poi certo penso anche: “Mamma mia, quanto suonano bene, sono bravissimi!”

Beh, se lo dici tu!

Però vedi, vale anche al contrario: se mi annoio io, che il jazz è la mia vita. All’inizio pensavo che ero io ad essere divenuto anziano, a non capire la nuova musica, ad essere caduto nei luoghi comuni: “Si stava meglio ai miei tempi, non esistono più le mezze stagioni” (Ride)!  Poi, però, con i musicisti elettronici mi diverto tantissimo. Allora, forse, non sono io (Ride)! Forse, eh! Ripeto, la musica jazz che stanno facendo i giovani americani è straordinaria, suonana benissimo, ma è complicatissima, tutto è scritto, è molto elitaria, si allontana  dal pubblico. La forza del jazz è stata essere una musica fortemente popolare, e insiem d arte. Per questo  ha conquistato il mondo. Duke Ellington faceva una musica meravigliosa, ma suonava anche per far ballare.

In questo senso, qual è stato per te il ruolo di Coltrane?

Lui era comunque molto fisico. Anche quando ha cambiato strada , ha mantenuto comunque un approccio molto fisico, una grande capacità comunicativa nei confronti del pubblico, a parte quelli che si sono scaldalizzati. Non per nulla, è tra i pià popolari, adddirittura è stato fondato un culto religioso su di lui!

Ispirato da A Love Supreme. Un capolavoro.

Anche se io preferisco Ballads. Coltrane è stato importante ma credo che quello si sia veramente imposto sia Miles. Già dagli anni ’50 è riuscito ad andare al di là del circuito chiuso del jazz moderno.

Credi che Bitches Brew sia stata la vetta?

Ma anche molto prima aveva realizzato grandi dischi. Oltre ad essere un genio, era un personaggio affascinante: il look, la voce, il carisma. Inoltre, era molto intelligente. Aveva il dono di costruire la musica, sapeva creare situazioni musicali magiche. I musicisti suonavano meglio con lui che con chiunque altro. Era avanti a tutti, anche se lo ascolti ora appare innovativo.  Pensa alla svolta elettrica…

Mi ricordo come proprio in un’intervista su Prince, Miles Davis si riferì alla svolta elettrica di Dylan come esempio di artista che segue la propria esigenza creativa e viene contestato dal pubblico.

Il vero artista sente che quel momento lì c’è bisogno di quella svolta, e segue il momento che ricerca  artisticamente, non il pubblico. Era immenso, senza confronti. L’altro giorno riascoltavo ‘Round Midnight, una sua esecuzione in un quintetto. Lui fa il solo il tema , riduce l’introduzione, in realtà molto complessa e la sintetizza. A un certo punto fa una nota,  solo una nota, lunga, incredibilmente piena: sembra quasi che tutta la storia della musica esista per arrivare a quella nota lì.

Proprio i Beatles cercavano questo: la nota perfetta. Dissero di averci provato con la canzone The Word.

Lui c’è riuscito.

Ci senti la musica africana, ci senti tutta la sua tradizione, racchiude tutto in quella nota.

Tutta la storia della musica.

Commenti
2 Commenti a “Note necessarie. Una conversazione con Enrico Rava”
  1. flavio ha detto:

    ho sempre apprezzato la musica di Rava, ma la mia ingenua cultura, conosceva poco della persona, delle relazioni, degli influssi. Ora ho più elementi per capirlo, provare emozioni. grazie.

  2. luca foresto ha detto:

    Pepito Pignatelli.

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