Pelo marxista, pelo cyborg, pelo femminista – intervista a Lavinia Mannelli
di Carolina Dema
Carolina Dema: Storia dei miei peli è uscito il 31 maggio per 66thand2nd. Ho fatto qualche domanda a Lavinia Mannelli su femminismo peloso, donne cyborg, donne scimmie, donne accademiche, donne sexworker ma soprattutto donnebbbasta, perché “appropriarsi di parole chiave di una teoria” – femminista e non – a volte “si traduce in una forma di regressione”.
Parto con l’unica domanda sintetica (ma non per questo meno importante) per non spaventarti/assaltarti da principio: qual è il tuo processo di scrittura? Come si forma l’idea e come la butti giù? Hai qualche tic particolare? E cosa cambia, per te, tra la scrittura narrativa, quella accademica, e gli articoli culturali?
Lavinia Mannelli: Di solito parto con un’immagine, poi con la voce. Scrivo molte pagine e dopo taglio: non come Philip Roth, che ha dichiarato non so più dove che scriveva cento pagine prima di riuscire a trovare la prima, da cui ripartiva da zero; però ho bisogno di una certa libertà, più o meno pari a quella che sento dopo, di cancellare e rifare tutto da capo. Di solito scrivo con i rumori delle tempeste nelle orecchie, sul letto, con la cervicale che non mi farà dormire quando sarò vecchia. Leggo molto soprattutto prima della prima stesura: cose che mi fanno annusare aria di famiglia (recenti o vecchie), che mi sembrano necessarie per capire – ricordarmi – chi sono e cosa voglio raccontare. Poi stendo una prima redazione abbastanza di getto. Se posso, lascio passare un bel po’ di tempo prima di rileggere cosa ho scritto, quello giusto per dimenticarmene, e nel frattempo leggo cose anche molto diverse tra loro: insomma, faccio di tutto per disorientarmi meglio. Poi rileggo e torno a lavorare sulla pagina, quindi riscrivo e cancello tutto da capo, taglio selvaggiamente, mi dispero. A un certo punto passa, più o meno, o semplicemente arriva il momento di consegnare all’editore. Con la scrittura saggistica invece è diverso: scrivo mentre studio, alla scrivania; sono veloce e spesso mi diverto e basta perché ci tengo meno rispetto ai romanzi.
CD: Nell’aprile del 2024 scrivevi di donne cyborg sulla rivista “Snaporaz” (Siamo tutti cyborg, ma infelici), del resto attorno a questo vertono i tuoi studi di dottorato. Ora, non ho ancor avuto occasione di leggere il tuo esordio L’amore è un atto senza importanza, ma ho letto qualche articolo a riguardo e mi è parso – se faccio buchi nell’acqua sei assolutamente autorizzata a bacchettarmi pubblicamente – che l’idea sia stata quella di prendere la metafora di donna cyborg di Haraway e materializzarla in una speculative fiction in cui la protagonista è una bambola del sesso con una sviluppatissima intelligenza artificiale che prende coscienza (rifacendomi al tuo articolo su “Snaporaz” forse anche ispirata dalla Ginemacchina raccontata nel Raun del futurista Ruggero Vasari?). In Storia dei miei peli, al contrario, si torno al realismo (anche se poi nel finale…) analizzando il concetto di donna cyborg più dal punto di vista di un bio-hacking alla Gender tech di Laura Tripaldi, in cui il naturalissimo pelo – la rimozione e/o coltivazione dello stesso – diventa quasi una modificazione transumanista, comparabile all’inserirsi nel braccio un chip per aprire la portiera della macchina, come tanto piaceva fare a quelli della Silicon Valley.
Lavinia è poi cyborg attraverso le app che usa per scandire e regolare la sua vita (il calendar di TickTick per schedulare l’alternanza studio-lavoro-riposo; Sleep Cycle per sorvegliare i ritmi del sonno; PomoDone per studiare; ovviamente Instagram, e poi OnlyFans e Wickr per comunicare con il “committente” Daniel85).
Le due protagoniste hanno dei percorsi quasi opposti, no? (Anche qui la sparo senza aver letto il primo libro, come una drag fa il segno della croce prima di lanciarsi in un death drop.) La sexdoll Tamara parte da una condizione di subalternità, e man mano raggiunge una coscienza propria; mentre Lavinia parte come femminista attivista e finisce per perdere ogni ideologia, sottomettendosi al padrone, al consumismo nevrotico e isolandosi da quella comunità che tanto idealizziamo noi compagne, talvolta fingendo l’assenza delle egoistiche imperfezioni degli esseri umani.
Considerando anche che i libri sono usciti a solo due anni di distanza l’uno dall’altro, quali sono state le riflessioni che ti hanno portato verso questo spostamento, verso questa inversione?
LM: Quando scrivo non mi confronto direttamente con testi teorici o temi specifici: a quelli ci arrivo dopo, semmai, però scrivo romanzi proprio perché la teoria non basta mai, e perché le storie sono lo spazio dove il ragionamento passa, se passa, proprio attraverso le sue falle; dove la contraddizione è sempre un valore aggiunto e dove regna l’ambiguità. Ci tengo a dire queste cose soprattutto perché è vero che, come suggerisci tu, è possibile vedere in Tamara e Lavinia due vettori speculari di un’istanza (teorica) simile (quella cioè contenuta tra le pagine di Donna J. Haraway), ma è anche vero che non basta dire questo e che un romanzo fa solitamente – sperabilmente – molto di più.
In ogni caso… Tamara è la protagonista de L’amore è un atto senza importanza (2023): è una realdoll, una bambola gonfiabile tecnologica, che ogni giorno parte dal silenzio e arriva alla parola, come un semplice oggetto che oscilla tra ON e OFF. Scardinando i meccanismi claustrofobici o forse -fobici e basta della coppia borghese impegnata con cui abita, la sua vita passa da quella di un oggetto sessuale (incompreso) a quella di un soggetto narrante (violato).
Lavinia, invece, la protagonista di Storia dei miei peli, sembra muoversi nella direzione opposta: è una dottoranda femminista radicale (“eco-transfemminista radicale antispecista”, come si definisce ogni volta che può), teorica del controllo del proprio corpo come dispositivo di scombinamento della società patriarcale in cui abita, che diventa a poco a poco corpo delegante, superficie neutralizzata (depilata) che si guadagna un nuovo e più facile, bello, comodo, accettato, spazio nel mondo. Da narratrice sovrana che tiene tutto sotto controllo (anche troppo) a marionetta paranoica che non vede le mani che la muovono (ma che sono le sue stesse) e che, nonostante tutto, è convinta di stare meglio di prima.
Quindi, come suggerisci tu, in un certo senso sono entrambe figure cyborg: Tamara nel senso più letterale del termine, Lavinia in modo ideologico ma superficiale (in effetti: epidermico). Il suo soggetto in divenire, anzi il suo appropriarsi di parole chiave della teoria cyborg di Haraway, però, si traduce in una forma di regressione: delega alle app, agli integratori, agli algoritmi, ai peli stessi le sue scelte di vita. Come scrivevo nell’articolo su “Snaporaz”, insomma, anche qui il mio interesse non è (tanto) verso il cyborg “corazzato”, ma verso una creatura vulnerabile che è ossessionata dal suo essere cyborg, programmabile come un pc (cioè dal suo desiderio di esserlo, che è anche la sua paura di esserlo), e non può far altro che monitorare sé stessa in tempo reale, misurando e monetarizzando la propria fame, il proprio sonno, la propria produttività. O, appunto, i propri peli. Il passaggio da Tamara a Lavinia, quindi, non è solo un cambio di registro narrativo: è anche una discesa nel reale, un ritorno alla carne, al debito, al bisogno che è una cosa diversa dal desiderio.
CD: Vorrei ora proporti una riflessione partendo da due frammenti del tuo libro:
• Come scrive Despentes in Caro stronzo il cinema, o meglio i miliardari che lo foraggiano, stabilisce cosa esiste e cosa no, cosa è maschio e cosa è femmina (soprattutto cosa è femmina). Ed è questa la definizione di padrone: chi decide cosa può stare davanti alla telecamera e cosa deve nascondersi dietro, cosa è un fuori campo e cosa no.
Non posso studiare il cinema perché io al mio padrone sto vendendo quello che mi definiva. (Mi definiva così tanto?).
• Come in tutte le storie economiche che tentino di descrivere il funzionamento della società consumistica in cui viviamo, io sono la proletaria e tu il padrone, e anche se la fabbrica in cui lavoro è il mio stesso corpo, tu sei e resterai sempre il suo proprietario. Sei tu il capitalista che può fare a meno della mia forza lavoro in ogni momento. Sono io che devo costringere il mio corpo a produrre il necessario per soddisfare i tuoi desideri.
Onlyfans, nella narrazione maggioritaria, è considerato uno spazio in cui l3 sexworkers possono riappropriarsi del loro lavoro e del loro corpo svincolandosi dalla soggiogazione a un padrone e quindi dallo sfruttamento. Sono loro a selezionare i clienti, a decidere i prezzi e a definire i loro confini. Nonostante ciò, Lavinia nel suo smercio di peli, in una vera e propria parabola marxista, si ritrova succube di un padrone (Daniel85) che costringe il suo corpo all’iperproduzione, fino a che i peli, appunto, smettono di crescere e lei, dipendente economicamente da Daniel, è costretta a doparsi con cortisone e integratori per forzarne la crescita – come unə operaiə abusa di cocaina per affrontare il turno di notte in fabbrica.
Proprio in questi giorni ho trovato durante un festival di autoproduzioni transfemministe (faqq fest presso lo spazio Cagne Sciolte) la fanzine “Sexwork e colonialismo” di Linda Porn e Frida Trejo (di origine messicana) in cui, tra le altre cose, si racconta dell’importante figura nella società azteca delle ahuianime (le rallegratrici) che “svolgevano la loro professione al fine di accrescere l’energia attraverso il sesso. I guerrieri in battaglia venivano stimolati sessualmente non per raggiungere il culmine del piacere ed eiaculare, ma come una forma di trasmutazione dell’energia” e di come sia stato poi il colonialismo cristiano a problematizzare il sexwork con le sue velleità censore e repressive. Contro questa egemonia cristo-patriarcale si schiera all’incirca tutto il movimento dell3 sexworkers. Ma ci sono del resto anche femministe come appunto Despentes in King Kong Theory ecc, che dichiarano invece che la pornografia sia intrinsecamente patriarcale, poiché l3 sexworkers si pongono in uno stato minoritario di oggetto del piacere maschile. Riadattando la riflessione di Despentes che citi nel libro viene da chiedersi: è Only Fans, o meglio i clienti (per lo più uomini etero cis) che stabilisce cosa è erotico e cosa no, o è lə sexworker ha dettare le leggi del mercato creando un bisogno?
Ma, soprattutto, Lavinia diventa schiava in quanto sexworker che lavora per soddisfare il piacere maschile, o diventa schiava per il semplice fatto di lavorare? Daniel185 è padrone in quanto pappone o è padrone in quanto capitalista (nel senso di tenutario di un capitale di cui Lavinia ha bisogno per sopravvivere)?
LM: La domanda è molto giusta, ti ringrazio, e sposta il problema sul piano che mi interessa di più: non cosa fa Lavinia, ma come e perché lo fa.
Lavinia inizia a vendere i propri peli a Daniel85 pensando che OnlyFans possa essere un terreno intermedio tra sfruttamento ed emancipazione, un luogo dove poter monetizzare un gesto politico (cioè non solo depilarsi, ma anche sacrificare un’ideologia femminista radicale per un bisogno materialistico: credere vs potere) e farne una piccola strategia di sopravvivenza. Ma il punto – come in Marx – non è mai solo cosa si produce, ma come e a quali condizioni.
Il corpo di Lavinia diventa fabbrica e oggetto insieme: lo deve spremere per rispondere al mercato; curare, monitorare, potenziare, truccare, raccontare. Il pelo, da segno politico, si trasforma in commodity. Perché è il padrone a decidere cosa è erotico e cosa no, come hai scritto tu. Come dice Despentes, il capitalismo definisce il campo del desiderabile. E Lavinia, per stare al gioco, deve mentire, fingere, doparsi. Se il corpo è risorsa, allora la sua esauribilità è un incubo.
Sempre in questo senso Daniel85 però non è solo un padrone e non è solo un cliente: Lavinia ha bisogno di dirsi che è un datore di lavoro come un altro, anzi, migliore di altri (l’università che non la paga), ma la relazione che instaura con lui si rivela presto qualcos’altro. Non solo perché Lavinia si vendica verbalmente di questa subordinazione con delle pilloline di femminismo radicale; non solo perché si prende beffa di lui (dopando questa relazione), ma anche perché a un certo punto, quando il padrone si mostra appena un po’ di più per quello che è (piccolo, fragile, solo, con risorse non infinite), è Lavinia che diventa la sua persecutrice. È dunque padrone non perché compra pezzi del suo corpo, ma perché (e fintantoché) possiede capitale. E Lavinia non è una vittima perché vende il sesso, ma perché (e fintantoché) ha fame. È il bisogno, non il contenuto dello scambio, a dettare la gerarchia.
In ogni caso, mi sono interrogata molto su questo e non posso dire di avere le idee chiarissime. L’idea di una sessualità come trasmutazione dell’energia è potente e in certi casi senz’altro funziona, ma cosa accade a quell’energia quando diventa valore di scambio? Cosa succede dopo? È lì, in quel passaggio, che si produce l’alienazione di Lavinia: lei non è schiava del feticismo di Daniel85 o della sua tra mille virgolette prostituzione, ma del suo tentativo di farne un lavoro da una parte e della smania capitalistica di possedere, e non essere possedute, dall’altra. E questa è una riflessione che, come dici tu, ci fa un po’ sospendere il nostro giudizio sul concetto stesso di lavoro (e di bisogno). Mentre leggevo la domanda e cercavo cose intelligenti da dire pensavo per esempio al libro di Joseph Ponthus, Alla linea (2021), alle strategie narrative e quotidiane per smettere di raccontarsi che necessariamente il lavoro nobilita e basta, ma anche e soprattutto a un romanzo incazzato, lirico e dolorosissimo di un caro amico: Il giorno è indegno di T.W.I.G. (AgenziaX, 2023). “Raccontami, se riesci, una storia in cui nessuno deve lavorare” (p. 33), dice il narratore, ed è una cosa che ha risuonato molto in me quando l’ho letta e che risuonerebbe molto anche in Lavinia.
CD: Quando Lavinia deve affrontare un colloquio online per una prestigiosa borsa di studio in un’università fiorentina (tralasciando la spassosissima e grottesca scena di sua madre che entra nuda nell’inquadratura della webcam flashando e tette davanti a tutta la commissione) c’è questo accenno a un fantomatico attacco che Lavinia avrebbe fatto a Walter Siti raccontando del suo progetto di “ricostruzione topografica dei gruppi di partigiane nei romanzi maschiocentrici”, di cui però non si racconta più altro. Tenendo conto che Siti è considerato colui che ha dato l’avvio all’autofiction nella letteratura italiana e che Storia dei miei peli è a sua volta un’autofiction nel senso più vero del termine (scrittrice e protagonista condividono il nome ma rimane per lo più ignoto a chi legge cosa sia reale e cosa sia fictionario, se non per quanto riguarda il finale che verte sul surrealismo, ma su questo torneremo tra poco), mi è parso che questo minuto passaggio critico su Siti (vedi: dissing) contenga in realtà una verità fondamentale del libro che hai scritto. Ma è come una di quelle epifanie lisergiche a metà: percepisci che c’è qualcosa di più grande ma non riesci a individuarne l’essenza. Mi sono persa in voli pindarici (o pinealici) o è sensata questa mia riflessione? Se sì, ti va di spiegarci come si pone Storia dei miei peli in rapporto alla produzione di Walter Siti? E se ho troppo svarionato, di raccontare in ogni caso perché hai scelto di rifarti all’autofiction? E cos’ha detto Lavinia di Siti durante il colloquio?
LM: Credo che lo sguardo di Tamara su Canale Cinque e in generale la tv di Mediaset, così fortemente in bilico tra desiderio e terrore, sia molto debitore di quello descritto da Siti in Troppi paradisi. Mi piace molto come scrittore per quello che ho letto (non tutto). Ma per Storia dei miei peli ho proprio evitato in tutti i modi di sapere cosa significasse “sitiano” riferito a un libro che volesse essere un’autofiction ambientata all’Università di Pisa: ho cominciato molte volte Scuola di nudo senza mai finirlo, per esempio. Avevo paura di fare qualcosa di troppo simile, di perdermi nel gusto della frase complessa, del rimando colto per il semplice gusto di strizzare l’occhio (a chi ha letto Siti, a chi lo critica, a chi lo adora); di quel modo di generare poesia dal puro intelletto che è puro dolore. Anche perché i punti di contatto ci sono, o almeno mi piacerebbe che ci fossero. Anche per questo, quello che tu chiami dissing in realtà è solo puro realismo: le parole di Lavinia durante il colloquio sono una pigra, banale (e in fondo insincera) presa di posizione contro Resistere non serve a niente e Contro l’impegno, che contrariamente a Lavinia trovo anche interessantemente problematici. Lavinia ha bisogno di dirsi che resistere serve a qualcosa per due motivi: il primo è che studia la narrativa della Resistenza da un punto di vista femminista, le storture di un canone letterario maschiocentrico (ma lo fa in un modo troppo sicuro, troppo ideologico per essere un esercizio di buona critica letteraria); il secondo è che la sua storia sta tutta in questa domanda. Ha fatto bene a non resistere a Daniel85? Cosa significa aver resistito fino a quel momento alla sua bugia di femminismo radicale, devozione completa all’accademia; al suo essere perfettamente situata in un mondo di cui, però, non si sente degna?
Un altro romanzo simile in questo senso sarebbe stato La ricreazione è finita di Ferrari, e anche in quel caso ho evitato di leggerlo prima della prima stesura definitiva del mio.
CD: Essere una dottoranda è come stare alla linea, c’è anche lo stesso odore di pesce: lo scrive Lavinia su Facebook riferendosi al romanzo poetato di qualche anno fa Alla linea di Joseph Ponthus. Si scherza, ovviamente, ma è pur vero che quando la ricerca e le pratiche artistiche vengono industrializzate con l’obiettivo di massimizzare il profitto (economico o contenutistico che sia) qualcosa inizia effettivamente a puzzare di pesce. D’altro canto, le operatrici e operatori culturali stano lottando da anni affinché lo stato riconosca la cultura come un lavoro e non un gaudioso hobby da intervallare alla principale fonte di introiti che poco si combina alle predisposizioni individuali. La maggior parte delle lavoratrici e lavoratori culturali vivono nel precariato, così che dedicarsi full time alla propria vocazione resta una pratica prettamente classista.
Scrivi poi:
Vado per i trentun anni e tra una laurea e l’altra e poi dopo la magistrale, prima di tornare all’università come dottoranda non pagata perché la mia unica competenza è analizzare testi letterari e a quanto pare nel mondo del lavoro non è considerata una competenza reale (quelli bravi direbbero «spendibile»), e con le lezioni private non ci campi, e a scuola non posso insegnare (mi mancano i 24 cfu, cioè i 60, e soprattutto i soldi che occorrerebbero per ottenerli e poi tanto chissà, tra qualche mese il governo deciderà di cambiare ancora la normativa per l’accesso ai concorsi per l’insegnamento); dicevo vado per i trentuno e alla fine ho lavorato solo per due inverni come cameriera nella pizzeria dietro casa e solo perché ci festeggiavo i compleanni da piccola e conoscevo i proprietari. Ho chiesto in giro molte volte e la risposta è sempre che non c’è mercato per quelle come me, che hanno passato troppo tempo a imparare a distinguere un aggettivo da un avverbio e di qui ad accampare pretese di tutela sindacale poi è un attimo.
Nel libro le premesse – le riporto grossolanamente – sono: se Lavinia vende i suoi peli su Onlyfans, non dovendo più preoccuparsi dei miei introiti, potrà dedicarsi con più libertà e naturalezza al lavoro culturale e all’attivismo, poco remunerativi in termini economici ma molto per quanto riguarda quelli morali. Eppure, depilandosi, in quanto una delle fondatrici della collettivo femminista No Shave/Me, Lavinia è costretta a rinunciare al suo core value, sacrificando la sua etica per soldi apparentemente facili. Così, perde totalmente la passione per la militanza e per la ricerca isolandosi in un bellissimo appartamento sempre più deumanizzata.
Nel finale, poi – spoilerone, ma tanto Storia dei miei peli è uno di quei libri che si fruisce piacevolmente al di là dei principali nodi di trama – la protagonista diventa letteralmente una sorta di King Kong (e torniamo a Despentes?): una scimmia antropomorfa, grottesca e felice, che però vive in uno zoo in cui tutti i suoi bisogni sono soddisfatti, in cui può lavorare tranquillamente alla sua tesi sulle partigiane, in cambio di qualche mossetta scimmiesca a favore del pubblico. È quindi forse questa la migliore condizione a cui può aspirare una persona femminilizzata, queer o più in generale marginalizzata (già ne parlava, del resto, Percival Everett in Cancellazione): spettacolarizzarsi e ridursi a un simulacro archetipizzato di sé stessa per vincersi il diritto di un posto nel mondo?
LM: Il riferimento a Ponthus mette in mostra la tensione vittimistica di Lavinia, che pure cerca di combatterla grazie alla migliore amica, Valeria, e all’azione del collettivo NoShave/Me: paragonare il lavoro di Alla linea con quello di una dottoranda è naturalmente esagerato e fa sorridere, ma non solo. È che fare un dottorato di ricerca oggi è davvero un’esperienza di produzione industriale, solo che la fabbrica è il tuo cervello, il tuo corpo, la tua connessione internet. Produci senza stipendio, come nel caso di Lavinia che non ha una borsa di studio; a tempo iperdeterminato (tre anni), senza tutela, con ritmi assurdi, dentro una logica in cui la precarietà viene chiamata “formazione”, “vocazione”, “merito” e in cui armarsi per una guerra tra poveri sembra l’unico istinto di sopravvivenza necessario. Ti addestrano alla gerarchia della marginalità, a fare centinaia di articoli su argomenti iperspecialistici “intanto che”, a metterti in un angolino buona buona in attesa che nei prossimi anni si liberi un posto da qualche parte come ricercatore o docente a contratto sottopagata, o il governo decida finalmente di non tagliare ulteriormente i fondi all’università pubblica (come sta accadendo ora). Ti dicono: “Pazienta ora per un domani migliore”, ma il domani si sposta sempre un po’ più in là, come un rullo trasportatore, e tu sei lì a ripeterti “scolare il tofu”, “scolare il tofu” sperando di non notare quanto sia ridicola e disperata la tua situazione intanto che gli anni passano e vorresti persino pensare di mettere su famiglia o anche, persino, stabili(zza)rsi in un posto.
E allora che fare? Rinunciare alla lotta, ritirarsi nello zoo, diventare la scimmia accademica che i professori e i finanziatori vogliono applaudire? (Requisito minimo: muoversi un po’, fare rumore, ma non troppo.) Nel finale Lavinia è grottesca e potente. È, come dici tu, una King Kong che ha letto bell hooks, è una dottoranda scimmiesca che si ribella. È il corpo che si deforma per non implodere. È la prova che, anche nello zoo come nell’accademia, la teoria, il pensiero, la lotta, servono ancora, soprattutto ora.
Però il finale, con Lavinia mezza donna e mezza primate, non è nemmeno una distopia o un happy ending e basta: è una metafora ambigua della sopravvivenza femminile quando le logiche capitalistiche e patriarcali divorano anche lo spazio culturale. La mutazione genetica è il prezzo di tutto questo. Ma anche il linguaggio, la scrittura, il pensiero, ogni cosa resiste ancora: perché puoi anche ridurti a maschera pelosa per sopravvivere, ma a volte la maschera graffia. Specie se inizia a parlare con altre maschere.
CD: Questo è il tuo spazio per aggiungere qualcosa; puoi anche lasciarlo bianco, fare un disegnetto, piazzarci un meme o una foto, mandare me o qualcun altrə a quel paese, dichiarare qualcosa. Assaltalo come meglio credi 🙂
LM: Parlando sempre di dottorande e dottorandi e di ricercatrici e ricercatori precari, vorrei occupare questo spazio bianco (mai lasciare vuoti gli spazi bianchi) con questa serie di disegni di Susanna Barsotti (Limoni Blu).
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Carolina Dema ha fondato la rivista “Neurosifilide” e scritto per “Il Tascabile”, “L’Indiscreto”, “Outsiders” e “Degrado”.
Lavinia Mannelli ha esordito con L’amore è un atto senza importanza (66thand2nd, 2023). Storia dei miei peli è il suo secondo romanzo.

Vanni Santoni (1978), dopo l’esordio con Personaggi precari ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008, Laterza 2019), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), la saga di Terra ignota (Mondadori 2013-2017), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017, dozzina Premio Strega), I fratelli Michelangelo (Mondadori 2019), La verità su tutto (Mondadori 2022, Premio Viareggio selezione della giuria), Dilaga ovunque (Laterza 2023, Premio selezione Campiello). È fondatore del progetto SIC (In territorio nemico, minimum fax 2013); per minimum fax ha pubblicato anche Emma & Cleo (in L’età della febbre, 2015) e il saggio La scrittura non si insegna (2020). Scrive sul Corriere della Sera.
Il suo ultimo romanzo è Il detective sonnambulo (Mondadori 2025).
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