Premio Kos, Viva l’opera seconda: intervista con Giuseppe Quaranta
È appena nato il Premio KOS (Katundo Opera Seconda), a cura dell’associazione culturale Clizia con la direzione dello scrittore e psichiatra Giuseppe Quaranta, per premiare la visione, la qualità letteraria e la cura editoriale delle opere seconde di narrativa italiana. Il termine per l’iscrizione al concorso sono le ore 12.00 del 20 giugno 2025: dunque non c’è tempo per indugiare. Ho deciso di intervistare il direttore chiedendogli innanzitutto come mai hanno riposto l’attenzione sulle opere seconde. E se questa è la prima volta che succede. “Il secondo libro di narrativa è per ogni autrice e autore un vero e proprio banco di prova: come recita il bando, attorno a un’opera seconda si concentrano attese, desideri di conferma e inevitabili tensioni. L’uscita del secondo libro inizia a delineare un profilo autoriale e a tracciare la direzione del percorso letterario. Eppure, se agli esordi è riservata ampia attenzione, ben poco spazio viene dato all’opera seconda, soprattutto sul fronte dei riconoscimenti. Proprio per questo, il Premio Katundo intende valorizzarne l’importanza nella carriera di chi scrive. A mia conoscenza, si tratta del primo riconoscimento specificamente dedicato a una seconda opera. In altri ambiti artistici, come il cinema, esistono premi analoghi, ma in letteratura non avevamo ancora nulla di simile”.
Che cosa si premia in un’opera seconda rispetto a un esordio?
Rispondere a questa domanda non è semplice – e il mio punto di vista non è necessariamente quello della giuria. Ci sono autori o autrici che sono perennemente “esordienti”, sembra che ogni loro libro abbia la vitalità, l’intemperanza, l’inconsapevolezza e l’istinto di un esordio. Altri, invece, costruiscono una carriera come una parabola luminosa, che si compie passo dopo passo. Nella seconda opera di narrativa, quindi, si cerca quello che si cerca in qualsiasi libro: una volta concessi agli scrittori il loro tema, la loro idea, vogliamo capire quale impressione diretta e quale visione personale della vita si celino dietro le parole, e in che modo tutto ciò si rifletta nello stile e nell’architettura del testo, e quanto la voce autoriale abbia guadagnato in maturità e coerenza rispetto al debutto.
Il luogo in cui si svolgerà la prima edizione di KOS è San Marzano di San Giuseppe in provincia di Taranto: perché questo luogo?
Perché è a San Marzano di S.G. che è nata l’idea del progetto, dopo una lunga chiacchierata con l’assessore alla Cultura e alle Politiche Giovanili, Francesco Caiazzo; ed è qui che ha sede l’associazione culturale promotrice, Clizia, composta, oltre che da me e Francesco, da Giorgia Dragone, Roberta Muri, Claudia Rucco. Non si tratta soltanto di un legame affettivo con il territorio ma anche della volontà di colmare un ritardo accumulato. In questa provincia, infatti, la mancanza di politiche culturali lungimiranti ha rallentato lo sviluppo dell’offerta artistica e formativa. Il Comune di San Marzano, però, che è Città che legge (a settembre riaprirà finalmente la Biblioteca Comunale), ha accolto l’iniziativa con grande entusiasmo e garantito il suo supporto. Sembra un sogno, eppure qui politica e cultura stanno davvero convergendo.
Alle radici albanesi di San Marzano è legato anche il nome del premio: Katundo che in arbëreshë significa “paese”, e richiama l’idea di comunità. Indubbiamente si tratta di una parola densa di significato e, in questi tempi, molto preziosa. I libri possono ancora fare comunità?
Sì, credo che i libri possano ancora fare comunità. Ma non parlo di sfilate o di passerelle letterarie. Chi legge con profondità, con entusiasmo autentico, fa un’esperienza vitale – e come tutte le esperienze vitali, sente il bisogno di condividerla. La condivisione nasce proprio da questo entusiasmo, da una sorta di contagio affettivo e intellettuale. Non esiste fiamma che resti accesa a lungo se non trova altra materia viva con cui alimentarsi: la lettura accende, coinvolge, ma per durare ha bisogno di circolare, di essere raccontata, di trovare altri lettori. In questo senso “Katundo” è anche un invito: a costruire intorno ai libri uno spazio comune, un luogo simbolico in cui riconoscersi.
Chi sono i giurati e le giurate del Premio?
Abbiamo scelto di affidare la selezione e la valutazione delle opere seconde a una giuria composta da tre critici letterari autorevoli: Giulia Corsalini, Raffaele Donnarumma, Matteo Marchesini. Una giuria che potesse restituire, nel nostro piccolo, credibilità a una funzione critica oggi troppo spesso svilita da improvvisazioni, ammiccamenti e derive amatoriali. Il valore letterario è, e deve restare, il solo criterio guida. Ne approfitto di questo spazio per ringraziare anche Gianluigi Simonetti che, con generosità e intelligenza, ha accompagnato la nascita del premio, orientandone con consigli e suggerimenti preziosi le scelte fondamentali.
C’è un legame autobiografico tra Lei che ha scritto una magnifica opera prima e questo premio all’opera seconda?
Se c’è, e probabilmente sì, visto che sono alle prese con l’ansiogena seconda opera, ha agito in maniera sotterranea e segreta, come i tic e i lapsus di Freud.
Si può notare che negli ultimi anni il tema della psichiatria, che è stato al centro del dibattito culturale degli anni Sessanta/Settanta, ha preso spazio e visibilità nella nostra letteratura non solo e sempre di penna psichiatrica. Lei cosa ne pensa?
Non c’è sentimento, stato d’animo, sofferenza, o anelito, diceva Henry James, a cui lo schema di un romanzo o di un racconto non possa offrire riparo. E in questi anni, dove la psichiatria appare non più come un tema di nicchia, ma una cifra dell’esperienza umana, vale ancora di più. Certo, se gli scrittori hanno tutta la libertà di esplorare qualsiasi tema, devono farlo non imprigionandosi in visioni stereotipate e stucchevoli, questo vale anche per la sofferenza psichica. Se la letteratura oggi abbraccia i temi psichiatrici, è perché forse riconosce che il disagio mentale non è un’esclusiva marginale, ma un orizzonte condiviso da tutti. In questo senso, spetta credo ai sociologi, ai clinici e ai critici cogliere il quadro più ampio: ma in fondo è la narrazione, con la sua capacità di metterci uno specchio davanti, che più di ogni altra cosa ci mostra quanto la mente sia il vero palcoscenico di ogni grande storia.
Lisa Bentini si è laureata in Letteratura Contemporanea a Bologna. Docente di Lettere nella scuola dal 2006 è intervenuta in seminari e pubblicazioni su romanzo, poesia e teatro. Scrive inoltre sulle pagine culturali del Manifesto, sulla rivista on line Limina e sul Blog della casa editrice Topipittori.
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