Rebeccu e il tempo diverso. Alcune domande sui festival a partire da Musa Madre

L’estate è una stagione ricca di festival teatrali, ma cosa sono diventate queste occasioni, a quale esigenza rispondono, quali questioni riescono non tanto a “sollevare” quanto ad “attivare”? Sono interrogativi ai quali, da tempo, non si riesce sempre a dare una risposta netta, sintomo di quella crisi della forma festival di cui da più parte si è parlato nelle ultime stagioni.

Devo ringraziare Musa Madre per avermi fornito, in questo senso, dei positivi spunti di ragionamento. Rebeccu è un borgo medievale del sassarese, spopolato, che si porta dietro una leggenda di sortilegio ed emancipazione: Donoria, figlia del feudatario del borgo e forse strega, sicuramente figura non addomesticata, fu scacciata dal villaggio e come ritorsione scagliò una maledizione per la quale il paese non sarebbe mai cresciuto oltre le trenta case. A partire (non solo) da questo elemento folklorico nel piccolo borgo si è sviluppato un progetto artistico, sotto la direzione di Valeria Orani, che si basa proprio sul una dimensione contenuta ma fertile e che solo parzialmente può essere definito “festival”.

C’è ovviamente una programmazione, dove si sono alternati momenti di dibattito – con nomi come quelli di Telmo Pievani, Francesca Coin, Giuliano Battiston, Laura Pugno – e di spettacolo, alcuni davvero molto belli (tra questi c’è “Il pubblico bene” di Simone Atzu e Martino Corrias, potente concerto per immagini e parole sulle narrazioni contraddittorie che caratterizzano la Sardegna, esotica meta di vacanze e territorio colonizzato e di sistematica spoliazione nei secoli – sarà a Roma a settembre, non ve lo perdete). Ma c’è soprattutto spazio vuoto, dilatazione, tempo per accendere pensieri, attivazione e riattivazione della qualità della relazione tra gli artisti – che hanno spazi non preordinati di incontro, discussione, socializzazione, persino di un potente “nulla creativo”.

Potremmo dire quindi che, sotto certi aspetti, ciò che non c’è è importante tanto quanto ciò che c’è. A volte persino di più. Quello che manca, in questo caso, è una programmazione fitta, che occupa per intero il tempo affastellando quattro, cinque proposte di spettacolo al giorno, irregimentando anche gli spazi di discussione, che pure non mancano nei festival, ma hanno sempre un orario di inizio e fine, un tema preordinato, un panel fissato da tempo.

La bulimia dei festival è il sintomo di un’incapacità di far coincidere pensiero e azione: si parla spesso, nei contesti del teatro contemporaneo, di critica al sistema produttivo, ma si finisce poi per replicarne gli aspetti più negativi, con compagnie che arrivano, allestiscono, recitano, smontano e poi se ne vanno, spesso senza nemmeno il tempo di una cena e di un saluto. Un horror vacui che, va detto, non è solo colpa degli organizzatori ma anche del rapporto che queste manifestazioni intrattengono con le istituzioni, a loro volta bulimiche, capaci di giustificare l’erogazione di risorse pubbliche soltanto in termine di quantificazione, di numeri bruti che nulla dicono e nulla sanno della qualità delle azioni e della loro ricaduta sul territorio (altro tema nodale).

Complice anche la difficoltà di raggiungere questo borgo sardo, le persone si fermano un pò di più. Le discussioni spesso non hanno un tema, e in molti casi nascono al tavolo della piazza, senza un obiettivo. Quello che mi è sembrato di vedere, in questa dimensione, è una collettiva spoliazione delle dinamiche della performatività, che già di per sé è un tema politico. Per questo l’ho definito un “nulla creativo”, perché è un vuoto che crea le condizioni per la gemmazione di idee, magari di collaborazioni, di connessioni impreviste. Un ottimo humus per delle residenze, che difatti verranno attivate – a settembre saranno presenti degli artisti iraniani – e che potranno godere ancora di più di uno spazio dedicato alla creazione. Alcune delle case abbandonate, recuperate dal comune di Bonorva, sono adibite proprio a questo.

Mi sono tornate in mente le discussioni sullo “spreco”, sull’importanza dello spreco, che si facevano al festival di Castiglioncello vent’anni fa; le cene infinite post-spettacolo del primo Rialto, che potevano generare dibattiti, risate, concerti, accaloramenti teorici fino all’alba; certe notti dilatate della Santarcangelo d’inizio secolo (possiamo dire così?).

È ovvio – e sarebbe ingenuo non dirselo – che non tutte le cose che racchiudiamo sotto l’etichetta “festival” hanno la stessa dimensione e la stessa funzione. Certi festival urbani, come Romaeuropa o Presente Indicativo, hanno un compito diverso: portare in rassegna il meglio delle produzioni internazionali che faticano a entrare nelle stagioni dei nostri teatri pubblici, strutture paleolitiche infestate dalle dinamiche della politica e delle alzate di sipario. Altre manifestazioni, ancora, hanno un rapporto specifico con il proprio territorio che fa storia a sé.

Resta però evidente che una delle domande che la grande stagione dei festival (e non solo dei festival) poneva un paio di decenni fa era dedicata proprio al tempo: alla qualità del tempo, che produce la qualità della relazione. Sarebbe ipocrita non registrare che, sotto il percussore della burocrazia, dei parametri, è proprio questo aspetto che è stato sgretolato e polverizzato, e che parte della crisi dei festival risieda proprio in questo nodo irrisolto, anzi, oggetto di movimento retrogrado.

Non è facile, di questi tempi, immaginare il nuovo. Ma è possibile individuare cosa impedisce al nuovo di generarsi.

E lavorare il più possibile per rimuovere tali ostacoli.

 

Commenti
Un commento a “Rebeccu e il tempo diverso. Alcune domande sui festival a partire da Musa Madre”
  1. Marie Therese Letacon ha detto:

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