Se un altro calcio è ancora possibile: intervista a Riccardo Cucchi
Dal 5 al 6 luglio torna a Radicofani, in Val d’Orcia, La Posta Letteraria, festival nato nel 2019 grazie all’associazione Pyramid. Il programma si apre con Anna Katharina Fröhlich, traduttrice e scrittrice, che presenta ‘La trama dell’invisibile’ (Mondadori). Tra gli ospiti attesi anche Riccardo Cucchi, voce storica del giornalismo sportivo Rai: presenterà Un altro calcio è ancora possibile (People), un elogio della dimensione più autentica e inclusiva del calcio, raccontato da chi lo ha vissuto con passione e rigore per tutta la vita.
Una voce inconfondibile, di una pasta rotonda e intonata, leggera. Gentile. Per tanti anni Riccardo Cucchi è stato il racconto radiofonico dello sport italiano, dal calcio, dove ha ereditato lo scettro degli Ameri, Ciotti e Provenzali, fino alle olimpiadi, ben otto. Ci ha così raccontato le gesta di Maradona e Bordin, dei fratelli Abbagnale e di Roberto Baggio. Quando ha lasciato, qualche anno fa, ha potuto sentire ancora una volta il calore e l’affetto degli sportivi, dei tifosi che vollero dedicargli applausi e striscioni. Fuori dal calcio urlato che riempie l’etere contemporaneo, Cucchi ha seguito per tutta la sua carriera la via del racconto garbato, elegante, mostrando come intensità non faccia rima con strillare, e come si possano trasmettere le emozioni più autentiche senza un’enfasi inutilmente pomposa.
Ho avuto il piacere di sentirlo per telefono qualche giorno fa.
Vorrei partire dall’attualità, da questo mondiale per club realizzato con soldi arabo-americani. Il calcio è diventato da tempo una macchina da soldi, a che punto siamo arrivati?
Guarda, sarò molto sincero con te, non lo sto guardando affatto. Sono un grande appassionato di calcio, adoro il calcio, soffro quando finisce il campionato e non ho più appuntamenti fissi a cui dedicarmi, ma proprio non riesco a guardare questo torneo. Lo dico con un po’ di amarezza e tristezza, ma ritengo che sia una scelta scellerata.
Giocare adesso: immagino che cosa potrà succedere alle due squadre italiane impegnate, Juventus e Inter, che hanno finito di giocare il campionato poche settimane fa, con l’Inter che ha dovuto fare gli straordinari in Coppa dei Campioni, in Champions, alcuni di loro hanno giocato anche in Nazionale. Mi rendo conto che le società hanno bisogno di incassare e fare portafoglio, perché devono far fronte a enormi spese di ingaggio, cartellini, crisi finanziarie, debiti e quant’altro, però così veramente si distrugge il calcio.
Io credo che sia impossibile pensare di vedere bel calcio con giocatori stanchi e distrutti. Quindi sì, io boicotto apertamente questo mondiale.
Pensavo che siamo di fronte all’ennesimo tentativo di far sbocciare la passione per il soccer negli Stati Uniti, dai grandi campioni importati perlopiù a fine carriera, ai mondiali disputati nel 1994 e che si giocheranno l’anno prossimo.
Non credo. Non credo che questo amore sboccerà mai. Nel ’94 ero negli Stati Uniti per seguire il mondiale la squadra di Arrigo Sacchi, e negli stadi dove si giocava gli americani erano pochi e distratti: non capivano evidentemente cosa avveniva sotto i loro occhi. I tifosi più appassionati erano naturalmente i latinoamericani, gli italiani, qualche turista. Ma loro, gli americani… non capivano questo sport. Mi ricordo tra l’altro un dato molto divertente, che dice anche molto rispetto allo sviluppo del calcio femminile negli Stati Uniti: la squadra italiana si allenava in un college alle porte di New York, avevano molti campi a disposizione, ma intorno a quello in cui giocava c’erano soltanto ragazze a giocare a pallone.
Il calcio femminile in America si è sviluppato moltissimo. Il calcio è considerato uno sport prevalentemente femminile. Credo che dal punto di vista dei maschietti non avrà mai un grande sviluppo. E mi hanno messo una certa tristezza le battutine del presidente Trump ai calciatori della Juventus, radunati alle sue spalle.
Lasciando lo studio ovale, e venendo a noi: il tuo ultimo libro, Un altro calcio è possibile, si apre con un’immagine: le automobili che hanno vinto sul gioco, le strade con i cartelli che vietano di giocare a pallone. È uno dei problemi della crisi tecnica che ci riguarda?
Cambiano i commissari tecnici sulla panchina italiana, ma le difficoltà sono lì da ormai tanti anni. A parte l’ottimo lavoro di Roberto Mancini, che ha portato una squadra che non era la più forte – si sono rivelati i più bravi, ma non erano i più forti – a vincere un europeo, una vittoria che probabilmente ci ha anche illuso. La verità è che il vero grande problema della squadra azzurra, al di là di chi guida la formazione, è la scarsa qualità tecnica.
Diciamoci la verità. Io ho raccontato la finale nel 2006 di quella squadra che tutti ricordiamo – una squadra che forse è stata addirittura sottovalutata: schierava giocatori del calibro di del Piero, Totti, Pirlo, tutti insieme, e poi naturalmente la difesa dei Buffon e Cannavaro – ma credo che da quel momento non abbiamo avuto più una rosa adeguata. Si è proprio spenta la luce. Non nascono più i talenti, o meglio: non riusciamo a valorizzare i talenti, perché dubito che non ne nascano più.
Il calcio è cambiato. Prima si giocava per strada, nelle parrocchie, non c’era questa spasmodica attenzione alla tattica. Il talento era lasciato libero di esprimersi: si insegnava ad avere una maggiore sensibilità nel contatto con il pallone, assieme ad altre qualità tecniche. Oggi purtroppo nelle scuole calcio si applicano altri criteri, probabilmente viene anche soffocato il talento, o non siamo più capaci di allevarlo. E poi c’è un tema per così dire sociale, con la “privatizzazione” del pallone e le scuole calcio. Oggi i bambini devono pagare per poter giocare a calcio, e mi domando quante fasce sociali, quanti bambini che non hanno una famiglia alle spalle con la possibilità di pagare sono tagliate fuori.
Quanto invece è il calcio a non tirare più? I ragazzi e le ragazze magari inseguono Sinner o Paolini.
Sono un frequentatore di stadi: l’ho fatto per anni per ragioni di lavoro, ma prima ancora perché ero un appassionato, un tifoso, e adesso sono tornato a esserlo. Seguo la mia squadra del cuore in curva e devo dire che i giovani allo stadio sono tantissimi. Quello che annoia, forse, è il calcio della televisione o quello al computer, il calcio-fiction. Il calcio vero è quello che si vive dentro gli stadi, non su un telefonino: ecco quest’ultimo può rivelarsi noioso anche per i più giovani.
Da sempre calcio e politica hanno un intreccio molto stretto. Hai raccontato, ad esempio, la storia della formidabile Jugoslavia a Italia ’90. E ricordi l’utilizzo delle nazionali di calcio durante gli anni Trenta.
Sai, io credo che si possa scrivere – ci sto pensando, non so se ci riuscirò – una storia parallela del calcio, una storia del tentativo del calcio di essere libero, di scrollarsi di dosso il tentativo dei regimi di utilizzarlo, di sfruttarlo a fili di propaganda.
Di questo abbiamo esempi incredibili nel corso della storia. Il fascismo e il nazismo hanno utilizzato il calcio e lo sport – il calcio in particolare – come strumento di propaganda. È successo evidentemente dall’altra parte del muro di Berlino: finché il muro era in piedi, anche i regimi comunisti hanno utilizzato il calcio come veicolo di propaganda. Il calcio è stato spesso oggetto di interesse da parte del potere proprio perché è uno sport che ha un’ampia diffusione popolare, e di conseguenza è uno strumento che viene usato da chi vuole sfruttare il calcio e la sua popolarità a fini propagandistici.
È successo e succede continuamente, succede anche oggi: pensiamo al mondiale del Qatar, con il tragico errore commesso dalla FIFA di giocare in un paese che calpesta i diritti umani. Un errore che probabilmente – anzi sicuramente – verrà ripetuto, con la prospettiva dei mondiali in Arabia Saudita. Credo nella battaglia che il calcio dovrebbe condurre per liberarsi, essere libero da chi vuole sfruttarlo; una battaglia che non sempre il calcio è riuscito a vincere, e per questo sarebbe molto interessante scrivere questa sorta di storia parallela.
Alla luce di quello che dici, e aggiungendo le note di cronaca che raccontano di periodici episodi di corruzione e mala gestione, credi che gli organismi istituzionali, insomma tutto il carrozzone, sia riformabile, migliorabile?
Il calcio è un’attività umana, e come tutte le attività umane in qualche modo riflette pregi e difetti degli esseri umani. Quindi può essere buono, tra virgolette, se gli esseri umani che lo praticano hanno dei valori forti, credibili; o può essere cattivo, sempre tra virgolette, se gli esseri umani che lo praticano e lo gestiscono non hanno valori etici.
Personalmente credo che laddove il calcio dovesse perdere i suoi valori originali, dovesse in qualche modo distanziarsi o distaccarsi da quelli che sono stati i suoi valori fondanti – perché lo sport non può esistere senza capacità di esportare valori – be’, certo, diventerebbe un’altra cosa ed uno degli elementi di dubbio che sollevo tra le pagine del mio libro è proprio questo. Il calcio è di fronte a un bivio, lo è già da molto tempo: vuole rimanere uno sport, e dunque mantenere la sua identità; o vuole imboccare un’altra strada – spinto da qualche dirigente sportivo, primo tra tutti il presidente della FIFA Infantino – che vorrebbe trasformarlo in puro e semplice spettacolo, intrattenimento, grande evento televisivo? Se fosse questa la strada imboccata verrebbe definitivamente meno la sua origine di sport, l’autonomia di sport: perderebbe la propria identità per trasformarsi in qualcos’altro. Sinceramente non vorrei mai vedere il calcio paragonato al wrestling.
Nel suo libro cita scrittori leggendari, soprattutto sudamericani, come Soriano, o Galeano. Dal tuo punto di vista, cosa rende il calcio affascinante per la letteratura?
Il calcio è la vita. Lo hanno detto più di me, meglio di me grandissimi scrittori, penso proprio a Eduardo Galeano che ha scritto pagine meravigliose, indimenticabili per tutti gli appassionati del calcio. Il calcio è la nostra storia nell’arco di 90 minuti, un tempo durante il quale si consumano le stesse cose che viviamo nell’arco di un’intera esistenza. Si cerca di lavorare insieme per un obiettivo e qualche volta ci si riesce, qualche volta no. Cerchiamo la collaborazione dell’altro per raggiungere un obiettivo; cadiamo, immaginiamo e viviamo la sconfitta e poi abbiamo la capacità di rialzarci, di rimetterci in piedi, di credere in noi stessi. Sono parabole della nostra esistenza che vengono concentrate tutte insieme in 90 minuti su un rettangolo di prato verde.
Il calcio è questo, un grande paradigma della vita ed è la ragione per la quale tutti noi ne siamo così affascinati. Il calcio è scritto da uomini o donne come noi che hanno capacità superiori rispetto alle nostre; per questo il gesto tecnico ci affascina, è quello che noi vorremmo fare e sogniamo di fare la sera quando andiamo a letto. Un dribbling, una serpentina che ci spalanca la via della porta, qualcosa che noi abbiamo provato in un campo di periferia da ragazzini ma che riesce solo ai campioni ed è qui che scatta l’identificazione tra noi e il calciatore, tra noi e il campione, tra noi e il Roberto Baggio che è in noi. Sono questi gli elementi che rendono il calcio una passione, un vero amore: non ho alcun dubbio nel considerare l’amore per una squadra alla stregua di un qualunque grande amore. Come tutti i grandi amori è irrazionale: se l’amore non fosse irrazionale non sarebbe un grande amore.
Già, credo sia proprio come dici. A proposito ancora di narratori di questo sport, quali sono stati i tuoi maestri italiani?
Dal punto di vista della scrittura giornalistica non posso non citare Gianni Brera, che ha illuminato la mia giovinezza. Si possono avere opinioni diverse su alcuni momenti della sua carriera ma nessuno potrebbe dire che non sia stato un narratore prestato al racconto dello sport. Ricordo anche con grande affetto Gianni Mura tra i colleghi che sono stati capaci di tirar fuori attraverso le parole che utilizzavano il vero senso dello sport; il senso più profondo, e anche l’umanità di chi lo praticava.
Se dovessi entrare invece nella sfera più vicino a me, quella della radio, be’ ho avuto maestri incredibili come Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Alfredo Provenzali, narratori autentici capaci di immedesimarsi nell’evento a cui stavano assistendo per raccontarlo alla radio. Prima di tutti però vorrei citare Sergio Zavoli, lui che è stato davvero un narratore straordinario di gesta. Sai cosa diceva Sergio Zavoli? Diceva che non c’è soltanto chi vince; c’è il vincitore e c’è il secondo e c’è il terzo e c’è anche l’ultimo, c’è gente che sputa sangue e sudore per riuscire comunque ad arrivare al traguardo. E quella storia, diceva Sergio Zavoli, quelle storie vanno raccontate esattamente come vanno raccontate le storie di chi vince.
Riccardo, quali sono i campioni che hai raccontato con maggiore piacere?
Come sai non ho seguito soltanto il calcio, per fortuna ho vissuto anche otto olimpiadi e quindi tanti campioni che nulla avevano a che fare con il calcio. Rimanendo a quest’ultimo, ho avuto la fortuna e il piacere di vedere all’opera i più grandi di tutti, compreso quello che secondo me è il più grande di tutti, Diego Armando Maradona. Per lui era veramente difficile trovare le parole giuste. Una volta, ricordo, ci interrogammo con Ameri su questa cosa: abbiamo le parole giuste – mi disse Enrico Ameri – o dobbiamo inventare un vocabolario nuovo per descrivere quello che sta facendo Maradona?
Fuori dal calcio penso a Gelindo Bordin, che nell’88 vinse una maratona olimpica, prima volta per un corridore italiano. Sempre a Seoul, penso ai fratelli Abbagnale: raccontavo per radio le imprese che Galeazzi raccontava in televisione. Canottaggio ma anche scherma, come non ricordare campioni come Dorina Vaccaroni, Mauro Numa, Valentina Vezzali, Giovanna Trillini. Ho potuto ammirarne davvero tanti, sono felice di aver vissuto in mezzo a questi ragazzi e di aver avuto l’opportunità di raccontare le loro storie.
Qual è infine la partita che non hai raccontato e avresti voluto?
Ce n’è una, una a cui tra l’altro ho dedicato un libro. È la partita del secolo, e quando dico la partita del secolo evidentemente mi riferisco all’Italia, all’Azteca, contro la Germania Ovest. Già, Germania Ovest, perché quando a Città del Messico si giocò quella partita la Germania erano due, Germania Ovest e Germania Est. La vidi in televisione, ebbi l’autorizzazione a rimanere sveglio fino alle tre di notte, qualcosa che all’epoca per un minorenne non era così facile da ottenere.
Ecco, questa partita è veramente il simbolo del calcio ed è quella che avrei voluto raccontare come fecero Martellini per la televisione e Ameri per la radio. A quella notte ho dedicato un libro, ho cercato di ricostruirla, l’ho raccontata di nuovo anche attraverso le storie di quei magnifici protagonisti, italiani e tedeschi. Quella notte che credo sia il sogno di ogni radiocronista, Italia – Germania.
Italia – Germania Ovest.
Esatto! Ovest.
Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell’agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.
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