Sorveglianza e sortilegio. Italia-Francia: alla fine della notte

le illustrazioni nel testo sono di Piero Nudo (@ignudo_ su instagram)

“Intanto c’è un giocatore dell’Italia a terra dalla parte opposta.
Trezeguet non ha fatto un bel gesto.
Gli italiani sono dal guardalinee. Trezeguet ha detto ‘continua, continua’.
‘C’è stata una gomitata’, dice Buffon.
Elizondo non ha visto, sta cercando di capire”
Fabio Caressa

“E dai che non finisce il mondo se perdiamo un mondiale”
Katì, Dargen D’Amico

Non sono passati nemmeno venti giorni dall’uscita di questo libro (24 giugno, nda) che si ritrova con un titolo obsoleto; felicemente tradito dall’ultima coppa alzata dall’Italia sul tetto d’Europa. Perché di fatto, la data 11 luglio 2021 si è aggiunta come la vera ultima notte felice per la nazionale di calcio del nostro paese. Un’estate italiana segnata dalla ricerca del bel gioco e da un gruppo affiatato formatosi durante il torneo itinerante. Ma prima dell’otiraggir, della partita sofferta contro la Spagna, della doppietta di Locatelli (allora in forze al Sassuolo e passato poi alla Juventus dopo una lunga trattativa), dell’abbraccio commovente tra Mancini e Vialli trionfanti nello stadio che li aveva visti sconfitti anni addietro, c’era stata un’altra nazionale che oltre ogni aspettativa aveva allontanato le polemiche e i malumori attorno a Coverciano.

La finale Italia-Francia al Mondiale 2006 è l’ultimo spartiacque del calcio moderno: da una parte scendevano in campo gli azzurri inseguiti dal fantasma di Calciopoli (commissario tecnico compreso), dall’altra parte la nazionale forse più forte della competizione – per via dell’arsenale tecnico, considerati i singoli giocatori -, allenata da Raymond Domenech, l’uomo che in patria veniva dipinto come un bugiardo cronico, per non dire un gran giullare col fiocco. Ma sotto i riflettori era soprattutto Zinédine Zidane: l’eroe francese che il paese meritava. Soltanto qualche tempo prima aveva annunciato che dopo la partita si sarebbe ritirato dal calcio per sempre. Lo stesso uomo che si sarebbe consegnato alla storia per il gesto che ammiriamo in copertina (illustrazione di Guido Scarabottolo). Lui, ma anche Marco Materazzi, fanno parte di quell’attimo sospeso che non prevede né merito e né demerito, ma memoria e oblio (tema al centro del libro). Ma la provocazione che lancia chi scrive, e in primis l’autore Stefano Piri, è la seguente: ma veramente pretendiamo di sapere tutto di quel giorno 9 luglio 2006?

La penna di Piri, ancora più certosina nelle incursioni che compie tra i corridoi della (video)arte e del costume, tra la storia e la politica, torna con Italia-Francia, l’ultima notte felice (66thand2nd) per fare chiarezza sul luogo dove tutto accadde e dove, da una parte, successe una serie di cose decisive per il calcio moderno che conosciamo oggi.

Dove ti trovavi la notte del 9 luglio 2006?

La risposta è molto banale. Mi trovavo nella piazza della mia città (Genova, nda) come un venntiduenne qualsiasi dell’epoca, per seguire la partita sul maxischermo.

E prima di quella sfida: ti aspettavi il percorso che avrebbe affrontato la nazionale italiana? Avevi espresso un pronostico?

Come scrivo anche nel libro: per scaramanzia non lo si diceva a voce alta, ma c’era nell’aria una sorta di presentimento per quello che sarebbe successo alla nazionale. Questa sensazione è cominciata a montare dalla semifinale vinta contro la Germania.

La semifinale è una partita facilissima da celebrare e forse sarebbe stata la scelta più ovvia per il libro, vista la sua dimensione epica: i supplementari, la gioia incontenibile di Fabio Grosso, la corsa di Del Piero. Ma è un’epica che vista da vicino è un po’ bugiarda, perché l’Italia era molto ma molto più forte di quella Germania. Mentre Italia-Francia, nonostante la sua non-spettacolarità, racconta molto più fedelmente la nazionale di Marcello Lippi, una squadra fondata sul sacrificio, sulla sofferenza. Ma soprattutto una nazionale che non voleva perdere, a nessun costo. La Nazionale fresca campione d’Europa di Roberto Mancini al contrario è fondata sul senso estetico del gioco, se vuoi sulla gioia, anche se naturalmente contro la Spagna di Luis Enrique ha dimostrato di saper soffrire. La vittoria dell’Italia 2006 però era tutta sacrificio, e -la cosa per me più interessante – una sorta di terrore per la sconfitta, per il dolore che essa provoca.

Il giorno dopo la vittoria europea hai scritto che questo tuo libro risulta fortunatamente obsoleto. Quale elemento li ha portati a vincere nella vera ultima notte felice? 

Fortunatamente lo è solo nel titolo (ride). Titolo che ho voluto fortemente io, e infatti adesso l’editore mi vorrà strangolare, come ultima notte felice è durata nemmeno venti giorni. In comune tra queste due Nazionali secondo me c’è il fatto che hanno conquistato due vittorie bellissime in un certo senso pericolose, nel senso che possono mascherare dei problemi. All’epoca era Calciopoli, oggi c’è il rischio che la vittoria all’Europeo metta in secondo piano l’arretratezza del calcio italiano rispetto ai migliori, il fatto che c’è tanta strada da fare.

L’antefatto della statua di Adel Abdessemed era in ballottaggio con un altro episodio che avresti voluto raccontare (e che hai dovuto scartare)? E perché ti ha affascinato così tanto? 

Il discorso che mi interessava intraprendere è come si storicizza una partita di calcio.

O meglio, come un evento transitorio, sostanzialmente casuale, viene trasformato in  una storia che veicola un insegnamento ben preciso. Una partita, presa a sé, non è una storia: siamo noi che da mediatori attribuiamo alcune caratteristiche che la plasmeranno in un racconto. Per questo la storia della statua di Zidane e Materazzi dell’artista Adel Abdessemed era perfetta per quello che volevo dire in questo libro: della statua si è parlato tantissimo, in tanti si sono anche arrabbiati, si prestava a una molteplicità di significati anche distorsivi e nel senso bello del termine. Anche nel calcio la realtà di suo è insufficiente, e poco affascinante. Quello della testata di Zidane ai danni di Materazzi è un episodio fondamentalmente volgare, un po’ triste, ma una serie di mediatori interviene e col tempo lo rende epico, aggiunge una serie di significati profondi che comunque hanno un valore. Per questo raccontiamo storie, credo, e come autore ho cercato di dare una risposta sul perché c’è così tanta bellezza in momenti del genere.

Il calcio italiano stava attraversando il suo periodo più nero della storia. Non era facile condurre la nazionale sul tetto del mondo, dopo che la federazione – e gli interpreti coinvolti – sembrava compromessa per sempre a causa dei peccati di Calciopoli. Come si è preparato il gruppo della Nazionale? Il pubblico si è dimenticato gradualmente o di colpo di Calciopoli? 

C’era tanto sdegno, anche molto retorico a dire il vero, ma dall’altra parte continuava a levarsi un controcanto, che bisbigliava che magari era “come nell’82”. La compagine di Lippi era circondata da polemiche e malumori; proprio come la nazionale allenata da Bearzot. Da sempre in Italia facciamo casino con il peccato e con la redenzione. In qualche modo, essere nati con il peccato originale ha dato linfa vitale al gruppo del 2006. Poco prima della partenza, Cannavaro e Lippi erano convinti che Calciopoli avrebbe motivato tutti i ragazzi a dare il meglio nelle gare che presto avrebbero affrontato, lo dicevano proprio nelle interviste. Non so, immagino c’entri il fatto che siamo un paese cattolico,  ma appena scoppia lo scandalo pensiamo subito all’amnistia, appena salta fuori il peccato pensiamo all’assoluzione; poi per carità in quel caso le sanzioni disciplinari arrivarono davvero (Moggi radiato, la Juventus retrocessa subito in serie B, tante altre squadre penalizzate) ma quella vittoria forse ha contribuito a evitare un dibattito sulle contraddizioni che già allora albergavano nel nostro calcio. Si punirono anche duramente una decina di soggetti obiettivamente indifendibili, e dal giorno dopo si ricominciò come se niente fosse successo.

Ho apprezzato il racconto per via dei continui salti temporali e per il montaggio quasi da film di spionaggio. Vuoi anche solo per gli intrighi internazionali che precedono il Mondiale 2006 e nella fattispecie la sua assegnazione. Racconta come sei arrivato a questa scelta narrativa. 

Volevo fare un libro vario, mi piaceva l’idea che ogni capitolo fosse diverso, giocare un po’ anche coi generi, che magari è una cosa che non ci si aspetta da un libro di calcio. Ho trovato perfetta la figura di Charlie Dempsey, uno che non conosce nessuno ma che rappresentava mezzo secolo di storia del calcio neozelandese, un gentiluomo anglosassone d’altri tempi, uno che trasmetteva un incrollabile ideale di sportività. Ma che nelle trame della FIFA si è ritrovato con la reputazione macchiata per un episodio di corruzione (o presunto tale), coinvolto in un gioco di potere che ancora oggi non abbiamo capito bene, e su cui nel libro provo a fare chiarezza. Era un uomo ricchissimo e anziano, uno che pensava soprattutto alla sua legacy, come mai è finito dentro un caso di presunta corruzione? Da lì il racconto prende la piega di una spy story.

Spero magari di sorprendere e divertire un po’ il lettore.

Marco Materazzi compare nelle pagine come l’Hanamichi Sakuragi di Slam Dunk (mettici pure la passione che il difensore nutre per il basket e per Michael Jordan). Alessandro Nesta, suo brillante compagno di reparto che andrà a sostituire, può essere considerato il Kaede Rukawa della situazione. Materazzi era partito come loser, incapace di praticare un gioco elegante e corretto, ma solamente in grado di collezionare cartellini gialli per via dei falli commessi. Nel giorno della finale, e come d’incanto, risulterà decisivo con le sue giocate e con gran carattere. Ma è anche vero che si era manifestato già in campionato. 

Ci tengo a precisare due cose su Materazzi: in realtà lui ha sempre marciato a descriversi come ben più scarso di quanto non sia in realtà. Era un signor giocatore. Gli piaceva la parte del cattivo, del bad boy, del “calciatore ignorante”. La parte di quello che non ha  grandi doti ma solo tanta grinta da sfogare sul campo. Una retorica che gli ha fatto anche gioco, un po’populista se vuoi. Mi piaceva contrapporlo ad Alessandro Nesta, baciato dagli dèi, il grande predestinato della nazionale e difensore centrale titolare (al tempo in uno stato di grazia assoluto), che per l’ennesimo infortunio perde il posto a un passo dalla gloria proprio a vantaggio di Materazzi, uno qualunque, che però decide il mondiale. Anche qui mi interessava come un evento casuale diventa una storia, con Marco Materazzi che diventa il vero predestinato.

In uno degli ultimi capitoli affronti il tema del capitalismo della sorveglianza e della tecnologia applicata nella finale. Quali cambiamenti e modi di intendere sono stati incisivi? 

Ovviamente l’accostamento di Zuboff a una partita di calcio può sembrare blasfemo, ovviamente è una forzatura ma anche un gioco, che però secondo me contiene qualcosa di vero. Zidane in pratica viene espulso dalla telecamera, e questo succede guarda caso in un momento in cui la società si sta trasformando in questa direzione. Mi interessava notare come nel calcio siano cambiati il senso e la presenza dell’occhio della telecamera e degli spettatori. E cioè: da occhio che guarda diventa un occhio che giudica. Un cambiamento epocale che non riguarda solo il pallone. L’occhio dello spettatore diventa parte attiva e giudicante, non si limita a guardare il gioco ma lo influenza, non a caso dopo qualche anno arriva il VAR. Nel caso della testata di Zidane a Materazzi, noi spettatori apprendiamo per primi quello che sta per accadere sul campo. Prima dei giocatori e prima che arrivino le immagini all’arbitro Elizondo, che poco dopo espellerà il giocatore. Non è un cambiamento banale.

Il ct francese Raymond Domenech è sempre stato raccontato come un goffo villain dalle pose teatrali. Dall’altra parte c’è l’eroe della storia francese: Zinédine Zidane. Perché sono così agli antipodi? 

Domenech è il personaggio più divertente del libro, il mio preferito, talmente assurdo che spero traspaia in tutte le sue sfaccettature – a dispetto della macchietta che pensiamo qui in Italia. Domenech ci ricorda che spesso i pessimi leader sono artisti falliti, l’innamorati tristi, i personaggi che odiamo sono quelli che avremmo potuto amare se le cose fossero andare in modo appena diverso. Lui è passato alla storia come una caricatura, un generalino che non riesce a farsi rispettare dal suo esercito, ma lui era uno che a suo modo voleva creare della bellezza. Il suo limite c’entra sempre con la bellezza, è il narcisismo.

Il dualismo con Zidane è il classico rapporto tra un artista vero e un artista fallito. Raymond Domenech ha l’ambizione ma è privo di quel talento che vede distribuito altrove, forse la vive come un’ingiustizia e probabilmente ha ragione.

Tornando invece a Marco Materazzi. Nella finale dell’Europeo ha segnato Bonucci, a quindici anni di distanza dal gol del difensore leccese. Forse è da rivedere la tua posizione sul termine “obsoleto”. 

Sicuramente sì. Ora, chiaramente per quello che ne so non ho mai approfondito, ma il gol di Bonucci è molto diverso in termini narrativi, poiché il difensore era uno dei protagonisti attesi dell’Europeo. Differente è la storia di Materazzi che non doveva neanche giocare, ma che sarebbe stato chiamato a sostituire la stella Alessandro Nesta. Diciamo che è stato un caso se i goal sono arrivati da due difensori sull’1-1 e da calcio d’angolo. Questo sì che l’ho trovato divertente. 

Quanto tempo è trascorso dalla scrittura di Roberto Baggio a quella di Italia-Francia? E se tra i due libri c’è stato un approccio differente al tema trattato. 

Dal libro precedente è passato in verità pochissimo tempo, questo l’ho cominciato a scrivere subito dopo l’uscita di RB – nel periodo in cui ne avevo appena parlato con il mio editore. Per questo libro volevo avere più libertà e sperimentare con la scrittura, perché avrei parlato d’altro e non solo di calcio, e volevo uscire dalla struttura della biografia lineare che ho usato per Roberto Baggio. E Roberto Baggio – avevo solo un pensiero era più mirato a chi ama e segue il calcio, e vuole quindi sentirsi raccontare delle storie di campo. In realtà io non scrivo principalmente di sport, questo libro magari è un po’ un ponte tra Baggio, che sicuramente era un “libro di calcio”, e altre cose che mi piacerebbe fare in futuro.

Cosa ti ha spinto a scrivere della finale Italia-Francia? E se c’è stato un argomento che ti ha messo a dura prova. 

Il fatto che fosse sottovalutata rispetto alla semifinale contro la Germania, una partita dalla epicità come dicevo un po’ bugiarda e viziata a causa della rivalità storica. Italia-Francia era più difficile ma secondo me più interessante. La cosa che mi ha messo più in difficoltà invece è tutta la retorica che c’è ancora attorno a quel Mondiale Non mi interessava però neanche fare il bastian contrario e infatti il libro, semplicemente, parla pochissimo di alcuni dei protagonisti più noti, perché negli anni si è discusso tanto di Cannavaro, tanto quanto di Pirlo e di Buffon in merito a quel mondiale. Siccome quell’aspetto lo trovavo abbastanza saturo, ho cercato altre storie e altri punti di vista. Anche qui, la speranza è magari sorprendere piacevolmente il lettore.

 

 

Commenti
Un commento a “Sorveglianza e sortilegio. Italia-Francia: alla fine della notte”
  1. sergio falcone ha detto:

    Il calcio è l’oppio del popolino.

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