Speciale Santarcangelo 14: Intervista a Marco Layera

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Si sta svolgendo in questi giorni Santarcangelo 14, festival internazionale del teatro in piazza: iniziamo a raccontarvelo, come abbiamo fatto anche lo scorso anno, con alcuni articoli che usciranno nei prossimi giorni. Invitiamo i lettori di minima&moralia che ne abbiano la possibilità a raggiungere Santarcangelo di Romagna per vedere spettacoli di teatro italiani e stranieri in uno dei maggiori festival europei di teatro di ricerca.

Pubblichiamo l’intervista del condirettore del festival Rodolfo Sacchettini alla compagnia La Re-sentida.

La Re-sentida è una compagnia di artisti cileni in costante ricerca di una poetica capace di interpretare le passioni, le contraddizioni, le idee di una nuova generazione. La imaginación del futuro è una rielaborazione sfacciata e impudente della storiografia su Salvador Allende e il colpo di Stato cileno basata sulla cruciale domanda: che cosa sarebbe successo se… Un gruppo di ministri tenta di salvare il governo ma come? Sarebbe stato possibile evitare diciassette anni di dittatura? Lo spettacolo è un tentativo di riflessione e di reinterpretazione della violenta storia politica del Cile.

La imaginación del futuro ha debuttato a Santiago a Mil nel gennaio 2014 e dopo Santarcangelo verrà presentato al Festival di Avignone.

Il programma completo: santarcangelofestival.com

(Immagine: © P.DeLaFuente)

Intervista a Marco Layera, regista di La Re-sentida

di Rodolfo Sacchettini

traduzione di Monica Sartini con la collaborazione di Alice Furlan e Laura Garcia  

Partiamo dal nome della compagnia, “La Re-sentida”, che cosa si intende? Da chi è composta?

Deriva dal verbo “re-sentir”, cioè ri-sentire, sentire nuovamente, con più forza. Quando una persona è risentita, è perché si sente ferita. Quando abbiamo finito la scuola, quando la nostra generazione si è confrontata con il contesto nazionale, ci siamo sentiti feriti. Ed eravamo particolarmente sensibili a quello che stava accadendo. È a partire da questi tipo di condizione e di percezione che abbiamo pensato al “re-sentir”. In questo momento la compagnia è composta da sei attori: Pedro Muñoz, Benjamín Westfall, Carolina Palacios, Carolina de la Maza, Diego Acuña, Nicolás Herrera. Lavoriamo da tempo anche con un disegnatore e poi, a seconda dei progetti, coinvolgiamo altri artisti esterni. 

Come avviene la scrittura dei testi? Oltre che della regia ti occupi anche della costruzione drammaturgica?

Il progetto artistico nasce da una mia ricerca personale. Quando iniziamo a provare mi presento con l’idea generale dello spettacolo e un testo che comprende abbozzi di scene, idee, prime descrizioni, appunti. Questo drammaturgia viene consegnato agli attori il primo giorno di prove e da lì in poi ognuno inizia una propria ricerca. Chiedo loro di riscrivere o di re-intepretare le scene, di improvvisare a partire da queste situazioni e solo successivamente comincio a fissare il testo e a riscriverlo completamente decidendo cosa tenere e cosa eliminare. 

Seguendo l’ultima edizione del festival Santiago a Mil e vedendo i vostri due spettacoli Tratando de hacer una obra que cambie el mundo e La imaginación del futuro ho avuto la netta sensazione di osservare un lavoro che esprimesse le sensibilità, le tensioni di una generazione, la prima, cresciuta dopo la dittatura di Pinochet; una ricerca rivolta a rileggere la storia del Cile. Che cosa significa essere cresciuti nel Cile post-Pinochet? Qual è la situazione attuale che sta vivendo il vostro paese?

Quando sei molto piccolo, non puoi renderti conto delle atrocità che sta vivendo il tuo paese. Siamo la prima generazione che non si accontenta più della divisione netta tra buoni e cattivi. Siamo cresciuti in una democrazia, ma si è trattato di un governo di concertazione, una “transizione democratica”. Continuiamo a “transitare”, ma la democrazia vera e propria sembra non arrivare mai. Per molti anni si è continuato ad amministrare secondo le vecchie regole della dittatura. Con l’ultimo governo di destra molte persone hanno cominciato a mobilitarsi, a chiedere che venissero inseriti nell’agenda politica temi fondamentali come la riforma scolastica, la riforma tributaria, la questione della sanità, il diritto delle minoranze e tutta una serie di valori progressisti che hanno a che vedere con il divorzio e l’aborto. Il Cile si sta risvegliano, c’è una nuova generazione progressista che vuole cambiare le cose e dall’altra parte una fetta ampia di popolazione molto conservatrice. È un paese diviso in due, un po’ come accade in tante parti del mondo. Adesso ci stiamo interrogrando seriamente sul tema della democrazia, in un paese che è molto conservatore e neoliberale. Da fuori il Cile sembra un paese abbastanza stabile, ma in realtà covano grandi disuguaglianze tra ricchi e poveri, tra chi ha accesso alla sanità e all’educazione e chi si muove ai margini. Odio e amo il mio paese, e credo che sia da questa contraddizione che nasca il mio lavoro artistico.

Un’operatrice del Teatro de la Palabra mi diceva che negli ultimi anni la produzione teatrale, cinematografica, letteraria cilena ha iniziato in maniera anche eccessiva a parlare solo degli anni della dittatura, di Allende e di Pinochet; è diventata una  vera e propria moda, un prodotto da esportare bene all’estero, che piace tanto all’Europa. Allo stesso tempo mi diceva che proprio in questi anni sta emergendo nuovamente il bisogno di parlare della propria Storia e dell’identità nazionale. Moda e necessità, un’altra contraddizione? 

Parlare della dittatura è un tema veramente abusato. Ma il problema vero è che se ne parla sempre allo stesso modo e con la medesima forma e questo mi dà molto fastidio, perché il teatro così si trasforma in pamphlet. Nel nostro spettacolo parliamo delle ultime ore di Salvador Allende, e proviamo anche a mettere in discussione alcune sue scelte, ma l’interrogativo bruciante è sull’oggi. Mescoliamo Storia e attualità. Ci chiediamo se ne è valsa la pena. Questo sacrificio – il sacrifico di questa utopia – è stato seguito da diciassette anni di dittatura atroce e di morte, e poi ancora da vent’anni di transizione verso una democrazia che ancora fatica a nascere. È una domanda molto dolorosa, che mi interessa porre, perché il teatro per me è interrogarsi, trasfigurare la realtà e, come generazione, essere capace di generare nuove domande. 

Nello spettacolo Salvador Allende viene desacralizzato. Ci sono delle scene davvero eccessive in cui appaiono donne e cocaina. Perché? E che effetto ha provocato in Cile?

Provengo da una famiglia di sinistra, fin da piccolo accompagnavo mia madre alle manifestazioni di protesta. Allende è sempre stato per noi un’icona, l’icona di un martire. Su Pinochet non sento contraddizioni, il giudizio su di lui mi pare evidente: è stato un dittatore terribile che ha fatto molto male al paese. Con il passare degli anni invece la figura di Allende mi ha sollevato sempre maggiori domande, suscitandomi sentimenti anche contraddittori: era un borghese, un donnaiolo, con figli non riconosciuti, amava vestirsi bene, fin dall’inizio aveva quasi l’ossessione di diventare presidente. Al di là delle questioni private, che mi interessano relativamente poco, Allende ha creduto al raggiungimento del socialismo utilizzando mezzi pacifici e democratici: un’utopia che in Cile si è rivelata impossibile, irrealizzabile. Di cocaina non ne faceva uso, anche perché in quegli anni quel tipo di droga quasi non esisteva in Cile. Ma è un elemento del presente per creare contrasto con i suoi ministri che invece è come se provenissero dall’oggi.

Nello spettacolo Allende appare taciturno – cosa per nulla vera nella realtà – ma è “l’icona” Allende ad essere rappresentata, un’icona che soffre il passare degli anni e sembra invecchiare. Le reazioni del pubblico sono state molto diverse: le generazioni più giovani si sentono toccate dagli interrogativi e dalle riflessioni finali, i più anziani, quelli che vedono in Allende solo un martire, si mostrano indignate, molti altri invece apprezzano il coraggio di una domanda, di una messa in discussione. Naturalmente anche le persone di destra rimangono indignate, ma per altri motivi. Più che di Allende noi cerchiamo di parlare dell’oggi, di manifestare le nostre inquietudini, di riflettere a proposito di quello che ci è toccato di vivere. Alla vecchia generazione è toccato vivere il crollo di questa utopia. A noi tocca soltanto di crollo e le relative conseguenze. In un altro spettacolo a un certo punto si dice, riferendosi alla generazione precedente: “Ci hanno lasciato orfani, soli, senza più desideri, in un paese che non ci rappresenta”. 

Quali sono i tuoi riferimenti teatrali o culturali principali?

I miei riferimenti sono soprattutto letterari. Dostoevskij fin da piccolo mi ha segnato moltissimo. Tra i contemporanei amo molto Michel Houellebecq. Per quanto riguarda il teatro non mi interessa molto la drammaturgia. In Cile mi ha influenzato Guillermo Calderón e il gruppo La Troppa. Tra gli artisti stranieri provo grande ammirazione per figure come Arianne Mnouchkine, Odin Teatret, Alain Platail, Rodrigo Garcia, Romeo Castellucci… Non ho pregiudizi verso il teatro. Mi piacciono cose molte diverse e cerco di vedere di tutto, anche il circo. Cerco di capire, di imparare, di nutrirmi il più possibile. 

Come è la situazione teatrale in Cile? Mi sembra che ci sia una scena in crescita…

In generale in Cile a teatro ci va poca gente. Lo frequentano sempre le stesse persone e sono artisti, intellettuali, addetti ai lavori. Andiamo a guardarci l’ombelico e applaudiamo noi stessi. Gli artisti sono complici di questa situazione, perché il teatro che viene prodotto solitamente non ha un contatto diretto con le persone. E poi qui è tutto molto precario, non ci sono economie, ma non ci sono nemmeno gli spazi per provare. Le poche cose esistenti nascono da iniziative di giovani che cercano luoghi abbandonati o fanno teatro nelle case. Di solito di giorno tutti hanno un altro lavoro, come cameriere o qualsiasi altra cosa, e la sera si dedicano al teatro. La precarietà è però anche la ricchezza del teatro cileno. Siamo nati in questo periodo storico e la nostra creatività si nutre anche di questa condizione. Siamo un paese povero, ci sono altre priorità rispetto al teatro: la salute, la scuola, la casa… È un dilemma epico, non posso chiedere soldi per i miei spettacoli, mi sentirei davvero un borghese, ci sono altre priorità. Tutto questo complica le cose. La politica naturalmente non aiuta. C’è un progetto assurdo di costruire un teatro da duemila persone… preferirei ce ne fossero dieci da cento posti e affidati a giovani compagnie! Adesso con il nuovo governo è stata nominata Ministro alla Cultura Claudia Barattini del Festival Santiago a Mil e speriamo che le cose migliorino. Anche se non ci sono soldi la nuova generazione ha molta energia e continua a protestare contro il sistema scolastico. Non vuole andare in Tv, preferisce dedicarsi al teatro. E questi giovani andrebbero aiutati in qualche modo.

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