Tradurre “Infinite Jest” – Giulia Bocchio intervista Edoardo Nesi

di Giulia Bocchio

 

Provate a cercare su Google la prima traduzione italiana di Infinite Jest, di Edoardo Nesi. Sì l’edizione Fandango: vi ritroverete davanti a quello che oggi è a tutti gli effetti un cimelio.
L’autore, David Foster Wallace, è un genio iconico, che ha lasciato dietro di sé palle da tennis, aragoste e un sacco di cose divertenti e commoventi che forse non troveremo più in nessun altro.
Il 21 febbraio scorso, Wallace, avrebbe inoltre compiuto sessant’anni.
Il tempo che stiamo vivendo – questo affollato presente ricco di contraddizioni, fatto di web, nuovi virus e profili social variegatissimi – non saranno né le sue opere né i suoi bizzarri personaggi a raccontarcelo, con quella lingua che è un’autentica autopsia della pancia del mondo; quello che resta di DFW è una preziosa e incommensurabile produzione di libri che forse invecchieranno, ma che manterranno intatta quella sensazione di avere trovato in lui uno strambo ma necessario amico.

 

Giulia Bocchio: Ho qui davanti a me, mentre parliamo, tutti i libri che David Foster Wallace ha scritto e guardandoli, ricordando ogni narrazione e sotto trama che c’è dentro ognuno di loro, è affare complesso capire da dove iniziare, da dove cominciare per raccontare la sua storia. Che è una storia di ossessioni, di personaggi estremamente caratterizzati e strambi, una storia che è tutta nella scrittura e nella lettura. Un diluvio. E quindi racconteremo di come abbiamo cominciato noi, a scoprirlo…

Edoardo Nesi: Tanti anni fa, negli anni Novanta, uscì un numero di Panta dedicato agli americani – Panta era una rivista letteraria molto bella e curata, pubblicata da Bompiani – e fra una pagina e l’altra c’era questo racconto, intitolato Per sempre lassù, tradotto da Edoardo Albinati, di un certo David Foster Wallace, un autore giovane, che non conoscevo. Rimasi folgorato, anche perché al tempo ci raccontavano che la letteratura americana fosse tutta lì, nei libri di Bret Easton Ellis per esempio: questo era qualcosa di molto diverso. Un giorno poi lessi sull'”Espresso” che era uscito un suo romanzo, un testo amato dagli studenti universitari: quel romanzo, che io comprai e lessi tutto, era Infinite Jest. È cominciata da lì la grande storia d’amore con Wallace. Ci sono romanzi nei quali t’accorgi di entrare completamente dentro la storia, perché parlano a te e di te con una qualità straordinaria e con uno stile che richiede sì attenzione, ma che non è mai difficile. Lui va a una velocità doppia rispetto agli esseri umani, ma con le sue soluzioni letterarie ti restituisce tantissimo.
Fa anche molto male leggere Wallace se sei uno scrittore o una scrittrice, perché se pensi di poter fare quello che fa lui sei fregato/a…

G.B. A proposito di scrittori e scrittici, io ho cominciato a leggere DFW nel 2015, frequentavo una scuola di scrittura creativa: letture, stimoli, esercizi, input da ogni parte eppure ricordo quel periodo con un velo di inquietudine: ho smesso di scrivere. Paradossale, in un ambiente che promuoveva l’opposto. E così ho preso in prestito dalla biblioteca della scuola La ragazza dai capelli strani, poi i saggi, Infinite Jest, La scopa del sistema, Oblio e non ho più smesso. È stato davvero un antidoto contro la solitudine, è stato un amico e mi ha fatto ridere e commuovere quasi sempre. I protagonisti dei suoi libri sono estremamente caratterizzati, alcune descrizioni che li riguardano sono sconfinate eppure tutto è chiaro, sono inconfondibili.
La sua grandezza è racchiusa nell’uso virtuoso e a tratti elefantiaco che fa della parola, David Foster Wallace ha una relazione quasi erotica con il linguaggio, ma di un erotismo disperato, stile dipendenza sessuale…

E.N. Sì in parte è così. Prendiamo i suoi personaggi: come dici tu, sono molto caratterizzati. Hai come l’impressione che siano stati molto, molto, pensati prima di essere scritti. Ognuno di loro vive di vita propria, una vita che esula dal libro nel quale si trovano: è come se ci fosse di più. E bisogna conoscerli bene per potersi permettere di raccontarne solo una parte: questo è un grande insegnamento che Wallace concede e che io ho imparato grazie a lui. Ci sono dei momenti all’interno della sua scrittura che si presentano lì dinanzi a te, chiari, anche nei dialoghi molto lunghi che ci sono, che fanno parte del suo stile, sai sempre benissimo chi sta parlando, perché i suoi personaggi sono così, sai chi sono: li riconosci.

G.B. Tu sei stato il primo a tradurre quell’immenso romanzo che è Infinite Jest. Complesso, frammentato, lì confluiscono tanti temi cari a Wallace. Che significato ha avuto per te un così grande lavoro di traduzione e immersione nell’opera?

E.N. La traduzione di Infinite Jest è un lavoro di cui vado molto fiero, perché tradurre è sempre una straordinaria lezione di scrittura, vedi l’opera completamente aperta davanti a te, per questo vale la pena farlo, specialmente per i grandi autori, ed è un impegno che ti aiuta a comprendere la funzionalità del testo: perché un capitolo si colloca in un certo punto – come accade in Infinite Jest, dove questi potrebbero cambiar posto e invece funzionano proprio lì dove sono.
Ebbi all’epoca una corrispondenza con lui, via fax, mediata sempre dalla sua agente, perché avevo bisogno di capire come gestire alcuni termini, alcune citazioni. Non potevo mettere altre note, perché c’era già un apparato di note di oltre cento pagine e quando chiesi come regolarmi lui rispose che gli piaceva l’idea di un lettore che davanti a un termine a lui sconosciuto si fermasse, sospendesse un attimo la lettura, per andarlo direttamente a cercare su un’enciclopedia o vocabolario. Questa era una visione veramente interessante.
La mole era importante, ci è voluto un anno mezzo di lavoro quotidiano, come se fosse un libro mio, era necessario poi stare attenti a ogni passo, come la citazione di prodotti o programmi televisivi americani. Ha richiesto grande energia, anche fisica.
Ma quel libro era il prodotto di una mente superiore e quando una mente superiore si manifesta vale la pena provare a capirla, altrimenti perché leggerla?
Tradurre questo libro mi ha insegnato molto sulla tolleranza, attraverso i personaggi stessi, molto sul desiderio, perché sostanzialmente è un libro sul desiderio, Infinite Jest, ma anche sulle dipendenze e di come queste si rivelano in tutte le loro conseguenze…

G.B. Infinite Jest è un libro unico nel suo genere, credo viva ormai di vita propria; non solo per la sua struttura, ma anche per la sua natura “fisica” di oggetto concreto, maneggiarlo, andare avanti e indietro nel leggere e rileggere certe note: richiede grande attenzione e gesti specifici e non è proprio maneggevole…

E.N. Oltre mille pagine, oggettivamente hanno un peso!
Quel libro non assomiglia a nessun altro, per struttura, varietà d’ispirazione. Ogni scrittore si trova di fronte a un’idea che poi, a un certo punto, vorrebbe raccontare attraverso fatti e passaggi in più, ma farlo porterebbe fuori strada, fuori dal romanzo stesso: e quindi sono parti potenziali che tagli o che sai rallenteranno la narrazione. Lui non fa niente di tutto questo, lo dimostra la storia meravigliosa dei terroristi quebechiani in sedia a rotelle che saltano in aria: una trovata geniale, che apprezzi di più attraverso una nota, episodio che inserito nel testo stesso non avrebbe cambiato di molto il numero delle pagine o la vicenda in sé, eppure lui sa dove inserire ogni cosa, perché il lettore possa meglio goderne. Questo è un altro bellissimo insegnamento che ci ha regalato.
Ancora oggi, ogni tanto, lo riapro e ne rileggo qualche passaggio, un po’ come faccio anche con Proust.

G.B. Nessuno più di lui sapeva a maneggiare la descrizione dei dettagli, nei suoi libri questi diventano artigli nel raccontarti la vita, o le nostre pochezze quotidiane… Un altro aspetto che emerge, quando si parla di Davis Foster Wallace, è la straordinaria metafora fra la vita e il tennis. Sport che l’autore conosceva bene e che secondo me somiglia all’atto della scrittura come nessun altro. Come davanti all’avversario sulla terra battuta, così l’artista sulla pagina: ci sei tu, c’è il tuo ego, la tua mente, la sfida è con te stesso. E c’è quella necessaria solitudine che fa sempre la differenza.

E.N. Interessante questa visione. Io stesso ho giocato a tennis, specialmente in gioventù, è uno sport che conosco e che mi ha aiutato nella traduzione, visto il tema ricorrente. La traduzione presuppone sempre una buona base di conoscenza.
In Wallace il tennis è davvero una metafora dell’esistenza, le paranoie e i disturbi dei ragazzini che lo praticano in Infinite Jest si riflettono nelle loro vite.
E comunque è uno sport che richiede una certa dose di paranoia, per essere giocato bene!

G.B. David Foster Wallace è morto nel 2008, è lì che si conclude la sua parabola tragica. Oblio, a differenza di altri suoi scritti, è una raccolta che non rileggo mai, l’ho lasciata lì, su un ripiano nascosto della libreria, per il forte senso di inquietudine e di ombra che quelle storie trasmettono. Le digressioni dense, il pensiero che diventa un labirinto di parole: a conti fatti, è come se quest’opera avesse in qualche modo anticipato il suo suicidio… E chissà cosa avrebbe detto o scritto dell’egemonia dei social media nella nostra vita, delle derive di internet, di questo nostro essere sempre iperconnessi, chissà cosa si sarebbe inventato a proposito del Metaverso…

E.N. Per quanto riguarda Oblio sì, è oscuro, si percepisce.
In generale lui poi era meraviglioso nei saggi, che è la produzione che io amo di più di Wallace. Basti pensare al saggio su McCain, Considera l’aragosta, Una cosa divertente che non farò mai più.
Se n’è andato nel momento in cui ci sarebbe stato pù bisogno dei suoi libri, perché aveva un modo suo di vedere e raccontare il mondo, con questa grande, immensa, umanità di fondo che più passavano gli anni, più emergeva dai suoi scritti; gli ultimi sono i più sofferti. Una grande mente che forse faceva fatica ad adeguarsi allo scorrere del tempo, ma la sua fu un’esistenza difficile, paralizzato da problemi di più tipi… Ed è incredibile come sia riuscito, nonostante questi aspetti, a regalarci una letteratura e un’opera così unica e importante. Leggerlo è come avere un amico, un fratello più grande che ti fa sentire meno solo e che ti fa anche divertire molto.
Ecco perché vale la pena scoprirlo, raccontarlo, continuare a leggerlo… a dimenticare si fa presto!

 

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