Un miliardo di sigarette. Alessandro Ceccherini e le vicende legate al caso Bilancia nel suo ultimo romanzo “Che venga la notte”
Mi auto cito. Non si dovrebbe fare, ma la frequentazione di Alessandro Ceccherini anche fuori dalle pagine dei suoi romanzi mi illude di una qualche indulgenza. Quando uscì il suo esordio circa due anni fa scrissi che «imparare la lingua del mostro per Ceccherini è un viatico utile a illuminare le ombre che restano». Cosa è sopravvissuto di una simile chiave di interpretazione dopo la lettura di Che venga la notte (Nottetempo), seconda prova dell’autore, dedicato alla parabola nera dell’assassino seriale Donato Bilancia? Molto, ma molte cose nel frattempo sono cambiate. È mutato il tono della scrittura, asciutta, tutta interiore. Anche lo sviluppo narrativo si è affilato. Dal magma sordido delle vicende legate al caso del Mostro di Firenze si è passati a un tessuto di eventi tutto sommato inscritti nella normalità borghese, in cui sono i colpi di una pistola a misurare lo scorrere del tempo. Di là moltitudine e sacrale delirio, di qua solitudine e lucido ricorso all’omicidio come strumento di oppressione dell’altro. Nel mezzo ci sono una scelta d’autore, lo sviluppo di una voce già riconoscibile e tutto il caos che contraddistingue la nascita di una storia.
«Sono un uomo semplice, io. Deve essere per questo che sono un incompreso». Lo dice Caligola nel dramma omonimo di Albert Camus. Non so per quale strana analogia ma, dopo la lettura di Che venga la notte, ho pensato che il criminale, anche il più efferato, non è quasi mai un individuo ‘eccezionale’. La sua genesi insiste in una negata aderenza alle cose del mondo, a volte quelle più ovvie, scontate. Un lavoro, una casa, u nucleo affettivo. Vale lo stesso per il personaggio del tuo ultimo libro?
L’incomprensione è senz’altro uno dei fuochi della storia. Siamo noi a non comprendere mentre la osserviamo, la leggiamo o la ascoltiamo raccontare. Rimane oscuro il motivo per cui un uomo tutto sommato ordinario, pur essendo un ladro e quindi un malavitoso, potesse a quarantasei anni trasformarsi in un assassino seriale capace di uccidere a sangue freddo diciassette persone in pochi mesi. Gli obbiettivi di Bilancia sono sintetizzabili in soldi, potere e donne, e in questo è totalmente ordinario, solo che per raggiungerli prende una scorciatoia che attraversa i territori dell’illegalità. Nonostante questo, a un certo punto incontra il fallimento, la negazione del sogno, e allora i meccanismi della sua esistenza vanno in frantumi. Un moto prima silente in lui si attiva, come un’identità nuova. La genesi di tutto questo è ineffabile, incomprensibile, appunto, per noi ma anche per Bilancia che sembra agitato da forze più grandi della sua volontà. La scrittura può cercare risposte in luoghi altrimenti impossibili da esplorare. Anche per questo ho scritto Che venga la notte.
Questa dimensione particolare sottrae universalità alla storia, a tuo avviso?
Bilancia è legato al suo mondo, con la parte di città che abita e con le forze che lo animano durante il giorno e soprattutto durante la notte. Mi pare che l’allucinata razionalità del mio protagonista abbia impresso uno scopo al suo disegno criminale, un obiettivo che è rimasto imperscrutabile, ma che in una misura perversa sembra coincidere con un modo di vita per lui accettabile, e quindi necessario. Non vorrei generalizzare troppo, però ho come l’impressione che in lui il morbo insito nel cuore stesso della nostra normalità abbia goduto di un mostruoso spazio di espressione.
Un uomo che precipita nell’ossessione e che pure conserva la maschera della normalità. È questo un paradigma che lo assimila quasi naturalmente a un personaggio letterario?
È una vocazione che riguarda a mio avviso buona parte degli uomini tragici che agiscono perseguendo la strada della violenza, della crudeltà, della pulsione assoluta. Le loro scelte li collocano ai margini dell’umanità, molto semplicemente, anche se in superficie continuano a far parte del consesso umano. La pazzia per taluni è paradossalmente un ricovero. Dopo un’esistenza all’insegna degli eccessi, a quarantasei anni la percezione del fallimento disgrega Bilancia, lo esaurisce come uomo. E invece di tendere verso una forma di nuovo equilibrio, il mio personaggio contempla ciò che non dovrebbe essere contemplato, volge lo sguardo all’indietro, verso l’inferno della gratuità e del delirio. Vuole vendicarsi del suo essere un reietto, ma è un patologico paradosso il suo perché significherebbe vendicarsi di se stesso. Una specie di Riccardo III, senza un regno da usurpare ma con il medesimo disprezzo per il suo mondo.
‘Disprezzo’ è un’altra parola che cala come una maschera orribile sul volto del tuo Donato Bilancia. Eppure sappiamo che spesso l’odio verso se stessi è una leva per scardinare la propria identità, fuggire da essa.
Per Bilancia il sentimento del disprezzo nasce dall’invidia, ma viene subito canalizzato verso l’esterno, rafforzandolo, isolandolo e preparandolo allo scontro. Di contro un disprezzo universale rende irrimediabile la solitudine, ed è a quel punto che la magnificazione di sé, il narcisismo disperato, diventano l’unica lingua corrente. Il mio personaggio disprezza e si disprezza, ma una simile condizione è anche un recinto confortevole nel quale potersi assolvere per il fatto di non essere all’altezza delle aspettative altrui e proprie. Dico questo e mi rendo conto che abbiamo già definito una specie di oscillazione drammatica: vertigine tragica di qua, mediocrità borghese di là.
Il tuo personaggio è quindi un criminale borghese?
Bilancia desidera il rispetto che si deve a chi maneggia molti soldi e possiede cose di valore come una villa, un’automobile di lusso o una bella donna, simboli che per lui stanno tutti sullo stesso piano. È un criminale dalla mentalità borghese, con il culto di una buona rappresentabilità di sé e un odio sociale verso le frange più periferiche. È totalmente incapace di inquadrare il proprio dramma, ma lo rovescia criminalmente su quello che nel suo lucido delirio è l’altro da sé. Misoginia e sadismo sono il suggello della sua presunta superiorità come uomo. Una modalità nemmeno troppo simbolica per riconquistare uno status, per risalire l’onda scura dei propri complessi.
L’ossessione del controllo ha avuto un ruolo nei meccanismi che hanno determinato la svolta criminale del tuo Bilancia?
Assolutamente sì. La sua presunzione è quella di essere allo stesso livello di un giudice, onnisciente e onnipotente come l’autore di una storia, che decide in maniera totalitaria la sorte dei suoi personaggi. L’avvento della pandemia molto probabilmente gli ha mostrato in maniera incisiva come l’umanità sia invece inserita in una concatenazione di cause incontrollabili, persino per uno che si era auto candidato a essere una specie di dio. Bilancia vorrebbe essere temuto e amato, vorrebbe vivere e vincere in un mondo che a lui va benissimo com’è. Solo che si trova a perdere.
Infine, perché proprio Donato Bilancia?
Vorrei premettere che io non sono un raffinato conoscitore del panorama degli assassini seriali. La scelta quindi non è stata fatta su base ‘scientifica’, quanto meno non secondo una casistica particolare. Io sono uno scrittore e affinando certi strumenti, lanciando nel mare scuro della creatività una determinata esca, mi sono ritrovato davanti a questo specchio. Vi è riflessa l’immagine di un uomo solitario, un conformista, uno sconnesso, un uomo pieno d’odio, figlio del suo tempo e dei suoi drammi, quegli stessi drammi che hanno frantumato la sua pietà, che lo hanno trasformato in un reietto ossessionato dalla preda, in uno strampalato giustiziere che con mezzi totalmente avulsi cerca di livellare la dismisura del mondo. Parafrasando Spinoza, non ho riso, non ho pianto, ma ho cercato di capire. Ho studiato, ho indagato. E alla fine il varco si è aperto. Nel buio c’era Donato Bilancia che fumava un miliardo di sigarette.
Danilo Soscia (1979) ha pubblicato la raccolta di racconti Condomino (Manni, 2008). Studioso di letteratura e di Asia Orientale ha curato il volume In Cina (Ets, 2010) e realizzato lo studio Forma Sinarum. Personaggi cinesi nella letteratura italiana
(Mimesis, 2016). A gennaio 2018 pubblicherà per minimum fax Atlante delle meraviglie. Sessanta piccoli racconti mondo.
Lo leggerò, già il primo romanzo sul mostro di Firenze mi era piaciuto molto