Un occhio strabico sul mondo. Dialogo tra Lina Agostini e Ilaria Gaspari

Introduzione di Giorgio Ghiotti

Com’è vera la celebre frase di Virginia Woolf, divenuta poi emblema di un’intera stagione culturale d’Europa, quella modernista: Ogni cosa è sempre qualcos’altro. O qualcosa di più. E per vedere quel di più, per intuirlo e scorgerlo e ribaltarlo, anche, per lasciare che ci metta in crisi, non basta affidarsi alla realtà così com’è. C’è bisogna di comprenderla, ballandoci dentro, di lasciarsi trascinare dalla tempesta a volte crudele, a volte lieta che è la vita. Soprattutto, c’è bisogno di forzare la visuale, di farsi prisma e controtempo rispetto al tempo ordinario, lanciando come dice Agostini un occhio strabico sul mondo.
Come appare, allora, il mondo agli occhi di una donna (di una donna vecchia, aggettivo bellissimo ma poco di moda oggi) consapevole della sua bellezza già all’età di 7 anni? La risposta è nel prezioso dialogo tra due scrittrici, tra due giornaliste che hanno scelto di consegnare alle parole la testimonianza più autentica dei loro anni. L’una (Ilaria Gaspari) molto più giovane dell’altra, l’altra (Lina Agostini) con una vita alle spalle formidabile, avventurosa, favolosa – “ma io penso che sia così perché è lei a essere favolosa”, chiarisce Gaspari – e un appassionante, imperdibile romanzo, “Diario scandaloso di una vecchia”, recentemente pubblicato da La Tartaruga, riflessione sul Terzo tempo dell’esistenza (rubo l’espressione a Lidia Ravera) e ‘progetto attivo’ per un futuro prossimo all’altezza delle proprie aspettative.
Il dialogo tra le generazioni prescinde dalle circostanze; ecco allora che è possibile, in questo confronto che ha alternativamente i toni della confessione e della lezione, senza mai davvero voler essere pedagogico, ecco allora dicevo che è possibile incontrarsi sui fondamentali comuni, ragionare della bellezza e della vanità – la prima è un dono per alcuni, l’altra un limbo della giovinezza –, del dolore e dello scandalo che è motore potentissimo per il cambiamento, cui non bisogna mai rinunciare. Conosce bene, Agostini, la potenza dello scandalo, lei che a vent’anni pubblicò un romanzo, Giorgina, destinato a restare un solo giorno nelle librerie e poi censurato, ritirato, bruciato. “Allora non era pensabile una separazione, una fuga da casa dell’uomo che avevi sposato per sempre (…) Io ho usato lo scandalo come l’ombelico del mondo da cui fuggire”. La difesero in quell’occasione l’amico Moravia, Morante e Pasolini, convinto com’era che la salvezza risiedesse ancora nella capacità di indignarsi.
La storia che irrompe nelle aule scolastiche, la parola ebreo sentita per la prima volta da un compagno di classe, poi la giovinezza e il lavoro di giornalista, i servizi sul campo, l’essere donna in un contesto allora ancor più di adesso fortemente maschilista, e la scrittura come perno centrale, come stella fissa, polare, di una vita che è andata arricchendosi di incontri memorabili, come quello con Imelda Marcos a Manila, o quello con Hemingway che ripeteva sempre, prima di puntarsi il fucile alla testa, “chi ha paura della morte l’anticipa”.
Ilaria Gaspari e Lina Agostini ci regalano una tessitura di memorie, voci e confessioni che sono più che un’intervista, più che un’appendice a un libro già di per sé valoroso, e io molto sono loro grato per questo onesto e commosso colpo d’occhio su un mondo che è in parte scomparso, e in parte riusciamo a tenere vivo, accanto a noi, grazie alle parole e ai ricordi quando i ricordi si fanno memoria, cioè istantanee condivise, perché davvero “in uno sguardo ci trovi il futuro, gli arcani maggiori, la strada” (Agostini).

Dialogo tra Lina Agostini e Ilaria Gaspari

Ilaria. Quando l’ho intervistata per 7 mi sono divertita da matti. Non avevo mai riso tanto facendo un’intervista.

Lina. Raccontare sorprendendo l’intervistato è un trucco del mestiere. Mai annoiare, non avrai mai quello che volevi sapere.

I. Lei a un certo punto mi ha detto: “fa il lavoro più bello del mondo, se lo goda”. Queste parole mi hanno colpita, mi hanno reso felice.

L. Se lo goda ma mai pensare di poter fare il manipolatore di massime e di incontrare maghi. È ovvio che non tutti quelli che fanno i giornalisti rientrano nel quadretto che posso farle io.

I. Mi ha fatto pensare a quanto si può amare un lavoro, lo sapevo anche da me, ma sentirmelo dire da lei mi ha dato un senso di condivisione, bellissimo. Che a volte, nonostante il mio carattere espansivo sembra che manchi fra me e i miei colleghi. Sarà che non lavoro in redazione, sarà che in questo momento in particolare lavoriamo tutti per conto nostro, un po’ come monadi; ma sarà forse che siamo in competizione, anche se fatico ad ammetterlo?

L. Il carattere suo o dei colleghi non c’entra, la competizione è d’obbligo. C’era un grande giornalista che un giorno mi ritrovai accanto sullo stesso servizio. Eravamo gomito a gomito, ma lui copriva i suoi appunti con la mano, come per un compito in classe. Temeva che copiassi. Quello del giornalista è un mestiere per solitari. Sei tu, il tuo telefono, il tuo computer, e nient’altro. Internet sostituisce i nostri archivi preziosi. Andavo a fare un’intervista e mi documentavo su quello che aveva raccontato in altre occasioni, per non farglielo ripetere. Nient’altro è il mestiere più solitario del mondo.

I. Sarà forse anche che avevo appena iniziato l’università quando c’è stata la crisi del 2008 e il messaggio per noi che avevamo vent’anni o poco più, era devi sgomitare se vuoi trovare la tua strada.

L. Se sgomitare vuol dire trovare per prima una notizia, ascoltare, guardare, frequentare persone che possono esserti utili per crescere, non è sbagliato. Il mestiere è anche rapina di idee, di pro-getti, sei un battitore libero davanti al tuo computer, il nemico ti guarda, ma non è uno stato d’animo prevalente fra i giovani che cercano semmai complicità dell’altro.

I. Quest’idea non mi è mai piaciuta, non mi ci ritrovo. Infatti, una tentazione che sento spesso e che secondo me riguarda un po’ tutti i miei coetanei, è quella della nostalgia per età che non abbiamo vissuto. Come gli anni in cui lei da giornalista e scrittrice poteva diventare amica di Moravia o incontrare Hemingway – cosa che, per l’appunto, ha fatto. La sua vita è favolosa ma io penso che sia così perché è lei a essere favolosa… Lei ha mai avuto questa nostalgia per epoche che non ha vissuto?

L. No. Erano epoche classificate come “anteguerra” così come oggi voi giovani parlate di “ante crisi”. Le epoche precedenti non erano ancora finite quando sono nata. La guerra aveva zittito la generazione precedente alla mia. Nessuno raccontava, nessuno aveva voglia di parlare per ripetere quello che era successo. Forse c’era del pentimento in quel silenzio. Magari sensi di colpa. Si capiva che qualcuno aveva vinto e che voleva stravincere e che chi aveva perso non avrebbe mai ot-tenuto l’onore delle armi. La presa di coscienza per l’epoca precedente avvenne in quinta elementare. Ogni mattina andavo a scuola con un compagno di classe che mi portava i libri. Gli zainetti non esistevano e le cartelle costavano troppo. Un giorno per strada, mi fece una confessione: “Stanotte ho perso un dente e sono ebreo”. Vada per il dente caduto, ma perché mi diceva di es-sere ebreo se non sapevo che cosa fosse. Il morbillo, la scarlattina, sei contagioso? Ecco, facevo la quinta elementare, leggevo Le mille e una notte, i libri di scrittori americani, avevo per maestro uno scrittore abbastanza famoso eppure non sapevo che sei milioni di persone erano morte solo perché ebree. C’era voluto un dente caduto per raccontarmi cosa era successo. La scuola non sempre è maestra, eppure Moravia rimpiangeva sempre di non essere andato a scuola perché la malattia glielo aveva impedito. Gli mancava nello scrivere la disciplina che soltanto la scuola avrebbe potuto dargli. Pensava che sarebbe stato uno scrittore migliore. Ma io non ho coltivato il culto delle epoche passate, c’è un sentimento di cortese scetticismo per il passato.

I. Mi racconta qualcosa dei suoi rapporti con i colleghi, e con un’ambiente che nei suoi anni doveva essere ancora più maschile di quanto non sia ancora oggi?

L. C’era il proprietario e direttore di uno di più importanti quotidiani della capitale che non voleva donne nel suo giornale. Una l’aveva però assunta, ma era stata la sua tata da bambino e dove-va occuparsi solo di moda. Io volevo fare la giornalista ed ero la sua donna, ma accettai questa misoginia professionale con stoica rassegnazione. Mi stupiva di più quando, pur essendo miliarda-rio, chiedeva al benzinaio per la sua Alfetta 1950 lire di benzina. Le cinquanta lire per fare cifra tonda sarebbe stata la mancia per il benzinaio. Ma se si sbagliava e il contatore andava su mille, la mancia sfumava. In quanto ai colleghi non ho mai avuto grandi amicizie né grandi aiuti. Mi guarda-vano con rispetto, ma non ho mai avuto amori di redazione. Non c’era preoccupazione per gli assillanti problemi che sembrano esserci oggi in un lavoro che mette insieme donne e uomini. Ho scoperto tanti anni dopo che negli anni della minigonna, che era la mia divisa in quegli anni, c’erano state scommesse fra colleghi maschi sul colore delle mie mutande.

I. Io ancora non so quando mi sentirò “realizzata” forse non è nemmeno un obiettivo che ho. Quello che mi appassiona nel mio lavoro con la scrittura e le storie – degli altri, mie, vere o inventate – è il senso di libertà: è una cosa impressionante quanto mi faccia sentire libera ragionare e scrivere di quello che mi pare, quasi una vertigine.

L. Una vertigine che qualche volta mi ha fatto sentire più spaesata di ogni altra vita e lavoro che avrei potuto fare. Nel giornalismo le libertà è in trenta righe per sessanta battute. Se ti prendi una libertà in più, tagli. Quando ti metti davanti io alla macchina da scrivere, tu al computer sei un nessuno chiamato a raccontare fatti. La libertà è un’anomalia, un paradosso, un privilegio solo dello scrittore.

I. Lei ha avuto una carriera incredibile, solo a leggerla in una breve biografia incanta. Per il senso di apertura, di curiosità verso il mondo che trasmette; che rapporto ha avuto e che cosa associa, oggi, all’idea del “realizzarsi”, verbo non bello, ma giusto per intenderci?

L. Nel mio mestiere la realizzazione è portare a casa quello che ti viene chiesto. Nulla è più impor-tante del “servizio” che ti è costato impegno e passione e che vedi pubblicato con la tua firma. Al-lattavo il mio primo figlio e la notte quando dormiva, scrivevo. Non avrei potuto farlo perché ero in maternità. Ma in archivio ci sono pezzi scritti da me e firmati con il nome e il cognome di mio figlio appena nato. La realizzazione viene strada facendo.

I. A riguardarsi indietro, trova che il suo lavoro, l’ambiente in cui ha lavorato, anche la passione che l’ha portata a scegliere proprio la strada che ha scelto l’abbiano plasmata, che le abbiano dato la forma che ha adesso?

L. È stato un pellegrinaggio difficile e gli scalpelli hanno lavorato parecchio sul cuore. Il dolore di certi “servizi” che sembrano inviarti all’inferno. Una mattina arrivò la notizia di un bambino che era caduto in un buco di trenta centimetri. Andai a Vermicino e mi unii al circo. Alfredino, così si chiamava il bambino, chiamava mamma da sottoterra. Intorno al pozzo profondo nessuno sapeva cosa fare per riportarlo su. Persino un nano provò a scendere, ma aveva solo sfiorato una manina: arrivarono i pompieri, ma Alfredino scivolava sempre più giù. Nessuno pensò a scavare un pozzo parallelo per tagliare la strada al bambino. Vidi il Presidente Pertini, la madre urlava affacciata al pozzo, qualcuno urlò “Alfredino, aspetta, verrà Goldrake a tirarti fuori, non avere paura”. Era il suo eroe preferito, ma non doveva fidarsi. Piansi e piansi per tanti giorni, finché non lo vidi freddo, ran-nicchiato come una bestiola, coperto di fango. Goldrake lo aveva deluso e lo aveva lasciato morire di fame e di paura. Non scrissi nulla, urlai per ore, non me la sentivo di ripetere il dolore che avevo provato riscrivendolo. Lo fecero altri ma lo scalpello aveva colpito forte. Qui rileggo i momenti del “mestiere” e lo scalpello dà la forma a ogni capello bianco. Ero nella stanza del direttore un giorno che sembrava normale, quando arrivò la notizia del rapimento di Aldo Moro. Seguirono 55 giorni di corse dietro a lettere, false notizie, bollettini. Poi il finale in una macchina rossa. E ancora enigmi che formano il cuore a loro piacimento. Due fratelli gioiellieri erano stati rapinati sotto casa. Uno non era morto subito e chiamava la madre che si era affacciata al balcone: andai a intervistarla, mi offrì un the in salotto come a una signora in visita. Le chiesi perché non fosse scesa subito da quel balcone in soccorso del figlio che la chiamava prima di morire. Lei mi dette la risposta: “Non potevo scendere perché non avevo con me le chiavi di casa e non sarei potuta rientrare”. Ottimo il the, ma perché signora mia non si è buttata da quel balcone per morire con suo figlio? La domanda che non potevo farle da madre a madre, ma non la descrissi in modo gentile. Ecco la forma e il mestiere di giornalista rivela quell’occhio strabico sul mondo che è.

I. Lo so che è difficile distinguere dove finiamo noi, il nostro nocciolo duro, la nostra essenza e iniziano le esperienze, la vita che ci attraversa malgrado la nostra durezza di nocciolo: anzi, non è difficile, è impossibile. Ma è una domanda, questa che rivolgo a lei, che mi faccio spesso: mi piace provare a indovinare, per quanto possibile, come mi cambia il mondo. Trovo che tutto sommato il mondo mi cambi in meglio (mentre io da sola tendo a peggiorarmi), ma ci sono delle cose di me che mi piace cercare di proteggere: una è la mia stupidità, il non prendermi sul serio. È raro che senta che questa cosa di me viene compresa, e forse proprio per questo ho sempre voglia di proteggerla. Lei ha qualche sensazione simile?

L. La stupidità se è leggerezza è un rifugio. Cresci, intorno a te il mondo cambia e cambi tu. Diventi grande, fai le tue scelte, scrivi sapendo chi sei, o almeno come senti di essere. Stupida, intelligente, curiosa o quello che è stato fino ad oggi il tuo cammino. Ed è fin troppo ovvio che chi ti vede e ti conosce o che non sa niente di te sono le facce dei tuoi giudici. Cambierai all’infinito, la ruota gira, svaniscono i limiti che uno si pone, vai dietro a quello che la logica delle tue scelte corre in folle. La finta stupidità è un segnale d’uscita da chi non avrà voglia di capirti

I. Lo scandalo, parliamo un po’ di scandali e di cosa significa essere scandalose? Io penso che oggi sia molto difficile scandalizzare, ogni scandalo viene neutralizzato dal clamore, dal compiaci-mento, pure dalla condanna. Che ne pensa? Come è stato, com’è essere scandalose?

L. Io ho usato lo scandalo come l’ombelico del mondo da cui fuggire. Scrissi “Giorgina” per scandalizzare, allora – siamo negli anni Sessanta – non era pensabile una separazione, o una fuga da casa dell’uomo che avevi sposato per sempre. È volgare scappare come madame Bovary. E io non ero portata al tradimento con fuga finale. Scrissi per crearmi una via di fuga usando l’unica arma che avevo: scrivere. Forse esagerai, forse i tempi non erano pronti a essere clementi verso certi racconti nemmeno troppo sconci. Bruciarono il libro. Mi impressero sulla fronte una S con il fuoco e mi abbandonarono tutti al mio destino. Ora potevo scappare come volevo io, con la schiena dritta ma solo perché presi un taxi per scappare, se fossi andata alla stazione mio padre mi avrebbe riportato a casa a calci. Ho fatto la pietra dello scandalo per cambiare la mia vita, il costo è stato altissimo: marito, famiglia, casa, città, nessuno che ti vuole più vicino, nemmeno ti saluta. Avevo perso tutto: mia madre inginocchiata sul pavimento della cucina si improvvisò Nostradamus “finirai sul marciapiede”. Ma non aveva indovinato. Ho continuato a mandarle finché è vissuta tutti gli articoli scritti e firmati, l’abbonai a ogni giornale su cui scrivevo. Eppure negli anni non ha mai smesso di mandarmi dei soldi perché aveva paura che la sua profezia si avverasse. Lo scandalo allora era per sempre. Ero una giornalista quotata a Roma, ma quando il giornalino che una volta all’anno usciva per la commemorazione della banda municipale mi chiese di scrivere trenta righe di ricordi, accanto al pezzo uno che non aveva dimenticato chiarì che intendeva prendere le distanze dall’autrice per il suo passato scandaloso. Oggi nessuno e niente scandalizza: tutto finisce fra la cronaca e la televisione. Il reo dello scandalo è come un sughero che galleggia trascinato sino ai salotti vippari per essere ingaggiato dal Grande Fratello o sulla feccia del trash. Pier Paolo Pasolini era sincero quando diceva che la salvezza era il recupero della capacità di indignarsi.

I. Una delle cose che mi hanno deliziato della nostra conversazione è stato il modo allegro, libero, divertito in cui parlava della sua bellezza. L’ho ammirata per questo. Lei è una donna molto bella, l’ho vista solo in fotografia sulla copertina del suo Diario scandaloso di una vecchia ma ci vuole poco per accorgersene, è innegabile. Parliamo un po’ di bellezza?

L. Mi sono sentita bella in due sole occasioni della vita. Avevo sette anni, marciavo con le mie compagne di scuola in una manifestazione per “Trieste italiana”. Avevo il grembiule bianco e il fiocco rosa, due trecce senza nastri. Una signora che marciava davanti a me si girò e guardandomi disse “Ma quanto sarai bella?”. Venti anni dopo, stavo attraversando una via di Roma. Un camioncino carico di merce mi si affiancò e il ragazzo che guidava si sporse per urlarmi: “Ma chi ti ha fatto, Michelangelo?”. Ma una cosa continuo a ripeterla ancora oggi che non sono più quella di allora: voglio morire bella.

I. Io non sono bella come lei, ma – non l’avevo mai scritto prima – belloccia sì. Per tanto tempo, per me questo è stato un tabù, mi sono schermita pure dai complimenti per timidezza o per insicurezza. Anche, mi fa male ammetterlo, per paura di non essere presa sul serio, sia in ambiente accademico che editoriale.

L. Ognuno di noi ha due forme diverse di bellezza. Quella che vede guardandosi allo specchio e un’altra che lascia giudicare a chi guarda da fuori. Bisogna scegliere quale ci interessa di più, quale preferiamo, come e quanta di questa bellezza uno è disposto a condividere con gli altri. La bellezza è un dono, un di più che però modifica chi è bello e chi valuta questa bellezza. Oggi devi essere bella, così ti vuole la società, se non lo sei lo devi diventare. Ciascuno fa uso come vuole della sua bellezza, oggi si tende a mercificarla, a darle più che un valore un prezzo. La bellezza è un rifugio e nessuno può capire quanto è fragile e preziosa finché non è costretta a rifugiarvisi.

I. Tante volte mi sono sentita dire, anche da donne (e spesso: non dire in faccia, ma riferire), che certi risultati professionali li ho ottenuti perché sono carina. Sarà poi vero? Chissà: oggi finalmente mi dico chissenefrega. Oggi sento che sono vicina a liberarmi, ma non ci sono ancora davvero arrivata. Perché però, questa mania di nascondermi, e questa paura di affrontare un tema che in fondo riguarda tutti?

L. Sii orgogliosa della tua bellezza, non permettere a nessuno di metterti in dubbio per colpa sua. Due sono le grandi fonti da cui sgorga l’invidia, soprattutto nelle altre donne: la bellezza e la ricchezza. Per combatterla ci si affida alla bellezza che hai dentro, che somiglia a quella di fuori ma ha più unghie e più talento.

I. Un’altra domanda che mi faccio, legata a quella di prima: perché non ho un rapporto libero neanche con la mia vanità? Sento che lei a questo proposito mi può dire qualcosa. Anche sgri-darmi, magari. Qui mi sono scoperta molto su una faccenda delicata, ma di lei mi fido.

L. Ah, la bellezza! Ti fa fare un giro completo della vita come un tagada. In uno sguardo ci trovi il futuro, gli arcani maggiori, la strada. Come fosse un tom tom naturale. La bellezza è una giostra che ti rassicura nella vita, tutta una giovinezza che può essere anche stupidità, ma è il limbo della vanità e non vale la pena andare verso qualunque altra cosa. Fidati.

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