Un passato che deve ancora accadere. Dialogo con Giorgiomaria Cornelio e i suoi Fossili di rivolta

di Matteo Bianchi

Da TikTok alle serie tv, dalla queerness alla sanatura delle immagini, dalla poesia alla fantascienza, dai bestiari alle neuroscienze, sino al diritto romano: Fossili di rivolta. Immaginazione e rinascita (Tlon, 2024) è un saggio costruito come una foresta da attraversare. E nel folto dei suoi passaggi incauti, incurante dei rovi dovuti ai pregiudizi, Giorgiomaria Cornelio ha seminato una lezione campale, alla maniera di Giono, tra alberi figurati e vegetazione potenziale. Ognuno dei dodici agili capitoli è un tentativo di dissuadere la modernità dall’idea della catastrofe, del disincanto prestabilito, del “tutto finito”; in particolare affiora una parabola medievale: quando si verificava una tempesta planetaria e tutto sembrava distrutto, durante la traversata i marinai avvistavano dei fuochi che tremolavano nella notte, i cosiddetti “fuochi di sant’Elmo”.

Non erano fatui, ma fiamme che si accendevano in cima agli alberi maestri delle imbarcazioni a causa della differenza di tensione tra cielo e terra. Ecco, i saperi agitati, o meglio, appiccati tra le pagine di Cornelio funzionano come quei fuochi: non risolvono il mondo, ma rivelano che in quel tremore risiede la salvezza della conoscenza, poiché «solo ciò che rabbrividisce conosce», sentenzia l’autore, solo ciò che trema nella burrasca può salvarci dalla burrasca stessa. Il titolo Fossili di rivolta collega due concetti antitetici, alla stregua di Dante che ridestava un passato che si era stratificato per assegnargli un nuovo contesto, un nuovo significato. «Elena vedi, per cui tanto reo / tempo si volse, e vedi ’l grande Achille, / che con amore al fine combatteo». La terzina in questione, tratta dal canto V dell’Inferno, rappresenta alcune figure epiche in balia della bolgia lussuriosa che viene puntualmente esplicata al poeta dal suo “dottore”. E la citazione della Commedia non è casuale, poiché il saggio dai primi capitoli riprende la lezione di Sergio Bettini, il quale paragona la struttura del poema all’architettura gotica di una cattedrale.

Come si unisce ciò che si è concluso per sempre con ciò che non smette di rivoltarsi, dunque di pensarsi come elemento futuro?

In generale, si tratta di una lezione percettiva a vedere nelle cose un cinema vivente che precede l’invenzione del cinema stesso: una cattedrale gotica è un poema, un libro di pietra, un congegno che mette in moto la luce e la vita stessa delle forme che abitano quel luogo. Il fossile ritorna alla vita quando non è concepito come una cosa morta, quando del passato si fa una materia continuamente viva, ossia una sorta di interrogazione permanente della nostra contemporaneità. E ciò che è apparentemente inattuale diventa una via d’accesso al presente, anzi, ci permette di afferrarlo in maniera più decisa, più riottosa. Ho concepito questo volume come un manifesto per il futuro che si nutre della molteplicità del passato e lo attraversa con una misura diversa.

Qual è la proporzione tra il regno vegetale, l’arte figurativa e il testo scritto? Perché questo continuo ritorno alle piante, al loro rigoglio incessante, pensando a Latour?

Un volume che cito ripetutamente è Suoni fragili e selvaggi. Meraviglie acustiche, evoluzione creativa e crisi sensoriale (Einaudi, 2023) di Haskell, in cui afferma che nella nostra produzione letteraria non ci siano paesaggi sonori rappresentati con un vocabolario adeguato. Spesso manchiamo di parole per descrivere quei suoni che non sappiamo afferrare: basti pensare all’espressione abusata “il canto degli uccelli”, riduttiva dall’origine siccome non specifica a quale uccello si faccia riferimento. Ed è il segnale di una povertà percettiva rispetto a chi magari sa riconoscere i diversi richiami della varietà dei volatili. Allora è interessante quando la letteratura comincia a farsi non banalmente tassonomica, bensì comprensiva di un intero vocabolario sparso e sperso intorno a noi e che solitamente non individuiamo, non sappiamo riconoscere. Per quanto i temi di animalità, vegetazione ed ecologia siano “alla moda”, data l’urgenza ecologica che stiamo scontando, è fondamentale approfondirli perché occupano il dibattito in modo superficiale, deludente, per riportare l’attenzione sull’ambiente percettivo che ci circonda.

Uno dei tuoi testi di riferimento è stato Alla ricerca delle nascite. Lingua e maniera (1930) di Rubina Giorgi, che nei percorsi poetici di Char, Novalis, Thomas e altri ha identificato il potere dell’immaginazione come seconda nascita. In questa sfida creativa tra sbordamenti, note a margine e pagine miniate, risalta la concezione di ordine nella pagina, la trasposizione di un bisogno mentale sul foglio bianco. Cos’hai trattenuto a riguardo dal tuo errare tra i saperi medievali? 

Dall’epoca dei Lumi subiamo sicuramente un processo di fissazione costante della realtà, ovvero la necessità di sapere il mondo come qualcosa di completamente rivelato, illuminato. Ecco, dell’ordine esclusivamente fissativo mi disturba quando funge da coperta igienica sul mondo, per pulirlo dalle sue incrinature e dai suoi dissesti, quando serve a disegnare un’idea di progresso, di miglioramento obbligato. E non credo che il mondo vada migliorando, bensì che sia segnato da un alternarsi danzante di miglioramenti e peggioramenti. Si parla di fluttuazione di catastrofi che non finiscono e che riaccendono il reale, senza pregiudicarlo con la presunta venuta di una catastrofe.

Nel saggio indaghi forme e formule dell’immaginazione quale processo di redenzione, persino salvifico: ce lo testimonia la genesi stessa dei testi sacri, vicini e lontani a noi, l’avvicendamento irrinunciabile tra simbolo e metafora. Tuttavia nella nostra società immaginare è stato ammansito e ammaestrato, ridotto a motore della paura.

Sono convinto che oggi l’immaginazione sia una delle facoltà più temute e colonizzate. Non si fa altro che esasperare la potenza espressiva delle immagini per esercitare un controllo sugli altri. D’altronde, apparteniamo a una cultura profondamente iconoclasta, che consuma il porno, ad esempio, ma non lo ammette. Seguendo Hillman, tutte le immagini sono pornografiche, in quanto capaci di scatenare nell’individuo pulsazioni e desideri inconsci. E se riuscissimo a valutare con il medesimo grado di attenzione le immagini che ci travolgono e che sono state arruolate per intossicarci, sapremmo sicuramente gestire con più accortezza l’afflato immaginativo. Era la lezione di Giordano Bruno: i fantasmi non devono manipolarci; siamo noi che dobbiamo manipolare loro o, tutt’al più,  dovremmo impostare un dialogo con loro. Abitare ecologicamente la nostra immaginazione significa imparare a convivere con le immagini che stanno nel mondo, dalla carta stampata ai social, che noi stessi generiamo giorno dopo giorno essendo produttori incessanti di immagini. È questo il montaggio del cinema vivente.

Le raffigurazioni della melancolia, dalla costellazione di Hillman al pianeta di von Trier, riaffiorano tra le pagine quasi fossero i sintomi latenti di un malessere collettivo: la depressione è banalmente l’incapacità di accettare la fine?

Assolutamente no. Credo nella depressione quale modalità di ascolto ecologico del mondo: chi è depresso si china al livello delle cose e assume una capacità di ascolto più elevata. Non a caso, si diceva che i melancolici fossero affetti da un fischio uditivo, un disturbo, un allarme che li costringeva ad ascoltare più a lungo e più a fondo. Se ci limitassimo a considerare la depressione come una condizione da anestetizzare, la ridurremmo a una fase di disfatta psicofisica che condurrebbe inevitabilmente alla morte; mentre andrebbe affrontata come una possibilità ulteriore di approccio alla realtà. Dalla depressione all’anoressia, alle stigmate di ogni stortura, da principio nella mia scrittura riabilito i residui, le cicatrici lasciate da patologie vissute sulla mia pelle perché conservano un seme rivoluzionario, rovesciando le consuetudini del quotidiano. E in un certo senso le redimono.

Tracciando un percorso ondivago nella memoria, un cammino dal trascendente all’immanente e, perseguendo Warburg, punti alle radici e non al teatro delle forme. In che modo sei riuscito ad abbandonare la contraddizione tra terra e cielo?

Il volume è costruito come un teatro della memoria, secondo il modello teorizzato dal filosofo rinascimentale Giulio Camillo, che voleva lo spettatore fosse al centro del palcoscenico affinché potesse vedere in platea e lungo le gradinate la conoscenza dispiegata nella sua totalità. Tuttavia nel descrivere questo teatro – che potrebbe essere ricondotto a una moderna enciclopedia, a una wikipedia composta da infiniti link – si figurava un bosco e l’idea iniziatica di salire sopra un monte per guardarlo dall’alto. Il mio paradigma, invece, è osservarlo dal basso, dagli intrecci e dagli inciampi, dall’attorcigliamento che non si può evitare. L’impatto del libro sta nel rivolgersi al sottobosco di ogni tradizione, a ciò che abbiamo dimenticato ed estinto, con il medesimo passo con cui ci rivolgiamo alle cose astrali, facendo di ogni fossile di rivolta un compito celeste.

Rialzare lo sguardo dal “sottobosco” intende ridare dignità ai rimossi che la società ha nascosto sotto la soglia dell’ordinario, o sbaglio?

Il sottobosco di ogni civiltà è quella vita “invissuta”, a detta di Agamben, che mantiene un rilievo fondante nel suo percorso storico. Tutto ciò che abbiamo rimosso, fondato sulla conquista e violentato con un senso di superiorità, conserva in sé un resto di rivolta che capovolge le prospettive. Niente è conquistato per sempre: permane un fossile di rivolta che consente un corso alternativo. È il mio patto con il reale: non credo che l’estinzione sia qualcosa di completamente possibile, non credo che niente si compia una volta per tutte, ma che resista inevitabilmente un resto di incompiutezza ancora a venire.

 

Aggiungi un commento