Una conversazione con Jonathan Safran Foer sull’11 settembre

Ho incontrato Jonathan Safran Foer a Milano. Abbiamo fatto una lunga conversazione su come il contesto in cui abbiamo vissuto negli ultimi 15 anni ha influito su chi racconta storie attraverso il cinema e la letteratura. Dal terrorismo ai media alla guerra alle religioni alle disparità economiche. La conversazione è stata pubblicata su “La Repubblica”. Questa è la sua versione integrale.

Nicola Lagioia  

Nei tuoi romanzi, la Storia con la “S” maiuscola si intreccia puntualmente con le piccole vicende personali dei personaggi d’invenzione. Questo succede in “Ogni cosa è illuminata”, in “Molto forte, incredibilmente vicino” e in “Eccomi”, dove arrivi a immaginare una serie di terremoti in Medio Oriente che mettono a rischio l’esistenza dello stato di Israele.

Sono passati 15 anni esatti dall’11 settembre 2001. Quell’evento faceva da sfondo al tuo secondo romanzo. Gli attentati alle Twin Towers rappresentano ormai uno spartiacque, segnano in maniera simbolica l’inizio del secolo. Se il Novecento era stato il “secolo breve” – iniziò nel ’14 con lo scoppio della I guerra mondiale, finì in anticipo nell”89 con il crollo del muro di Berlino – il XXI secolo sul piano simbolico è cominciato subito.

Allora sarebbe interessante capire se e come l’11 settembre, voltando pagina alla Storia, ha cambiato anche l’approccio di chi racconta storie attraverso la letteratura, il cinema, di chi rilegge il mondo con gli strumenti dell’arte. Non mi riferisco solo al tentativo di raccontare l’11 settembre in sé, ma alla percezione della realtà che quell’evento ci ha consegnato in eredità. Gli anni Novanta avevano celebrato il cosiddetto “sciopero degli eventi”. Qualcuno aveva provato a convincerci che la Storia fosse finita, o che il suo lato più brutale si fosse preso una lunga pausa. Ci avevano detto che il futuro sarebbe stato all’insegna di pace, stabilità, prosperità, fratellanza, assenza di conflitti. Insomma, ci stavamo forse preparando in modo del tutto irrealistico a raccontare un mondo opulento, piacevolmente immobile, e l’11 settembre è stato un brusco risveglio.

 

Jonathan Safran Foer

Mi viene in mente la storiella dei due pesciolini che si incontrano e uno dice “oggi l’acqua è calda”, al che l’altro risponde “che cos’è l’acqua?” È difficile commentare il mondo in cui sei immerso. Però proviamoci.

L’11 settembre è entrato nella mia vita quando avevo 24 anni, in modo assolutamente inaspettato. Mi ricordo di un giochino che facevo con mio fratello quando eravamo piccoli. Ci dicevamo: “che cosa staremo facendo, quanti anni avremo, chi saremo quando arriverà il Duemila? E come sarà il mondo allora?” C’era un’ansia di attesa, per il Duemila, perché non era solo il cambio di secolo, ma addirittura di millennio. Era una data simbolicamente fortissima. Tutti ne parlavano.

Da “come sarà il mondo?” si passò poi a dire “succederà qualcosa di eclatante?” man mano che la data si avvicinava. Non so se ti ricordi, c’era ad esempio la paura del millennium bug, il rischio che tutti i computer sarebbero collassati allo scoccare della fatidica data. “Succederà un pandemonio”, di diceva. Poi il Duemila arrivò, e non successe assolutamente nulla di eclatante. Così tutti tirammo un sospiro di sollievo, ci convincemmo che la vita non era cambiata e non sarebbe cambiata un granché negli anni a venire. La vita è invece cambiata nel 2001. Molto, moltissimo. E drammaticamente.

Sono stati fatti tanti lavori, anche artisticamente rilevanti, sull’onda dell’11 settembre, ma non necessariamente su quell’evento storico. Negli Stati Uniti si sono anzi scritti romanzi e girati film su temi completamente diversi: sul tema della schiavitù, sugli anni Sessanta, addirittura su Abramo Lincoln. Questo potrebbe significare che c’è un assenza forte sull’11 settembre. È più probabile tuttavia che registi e scrittori volessero parlare di quel tema, ma non in maniera diretta, che è comunque un modo lecito di interpretare artisticamente il tempo storico in cui si è immersi.

Prima di continuare, c’è una cosa però che mi colpisce moltissimo e di cui vorrei parlare: il modo completamente diverso con cui Europa e Stati Uniti guardano agli scrittori rispetto a questi temi. Negli Stati Uniti è difficile che gli autori di romanzi vengano interpellati su questioni legate alla vita pubblica, o alla politica. Quando c’è stato il decennale dell’11 settembre ho ricevuto diverse telefonate di giornalisti italiani che mi chiedevano un commento sulla ricorrenza, e nemmeno una chiamata da un giornalista americano. Negli Stati Uniti è più facile che mi facciano domande sulla mia vita privata anziché sui temi toccati da un mio romanzo, soprattutto se si tratta di temi di interesse pubblico. Molti americani hanno con la letteratura un rapporto simile a quello degli spettatori davanti alla tv: la considerano soprattutto una fonte di intrattenimento, pura evasione. Sono pochi quelli che si avvicinano al nostro lavoro con lo scopo di trovare una prospettiva diversa da cui guardare il mondo.

 

NL

A proposito di tv, l’11 settembre è stato il primo grande evento storico verificatosi all’ombra dei moderni mezzi di comunicazione. C’era già internet (anche se non c’erano i social), c’erano i telefonini (anche se non c’erano i selfie), e oltre alla diretta dei tradizionali canali televisivi c’erano le telecamere digitali dei comuni cittadini che hanno ripreso l’attentato. Abbiamo avuto modo di avere testimonianze per così dire molto “prossime” di ciò che accadde quel giorno, almeno in apparenza. Questo salto tecnologico viene raccontato anche in “Molto forte, incredibilmente vicino”. Mi riferisco al modo con cui Oskar custodisce l’audiocassetta dove ci sono gli ultimi messaggi di suo padre prima di morire nell’attentato. Il che sarebbe stato impossibile se il padre di Oskar, intrappolato in una delle due torri, non avesse avuto un telefonino, e non avesse chiamato casa sua lasciando dei messaggi sulla segreteria telefonica. Passando dalla finzione alla realtà, queste testimonianze crescono in modo esponenziale. Basti solo pensare alle telefonate e agli sms d’addio dei passeggeri a bordo degli aerei che si sono schiantati sulle Torri e sul Pentagono.

La cosa che mi domando e ti domando è se questa iper-rappresentazione della realtà ci aiuti davvero a comprenderla meglio, o non rischi di diventare un’abbuffata multimediale che ci allontana dal cuore del problema. Mi chiedo se a maggior ragione, in un mondo dove la realtà è iper-rappresentata e suo malgrado iper-spettacolarizzata, il modo in cui l’arte prova a raccontarla non sia ancora più importante. Prendo a esempio un altro evento storico che hai fatto entrare nei tuoi romanzi. Non abbiamo sms, selfie, tweet, dirette periscope o video amatoriali del bombardamento di Dresda. Ma se anche le avessimo avute, sento che questo non ci farebbe comprendere quell’evento storico con più profondità di quanto non ci consenta di fare Kurt Vonnegut grazie a un romanzo come “Mattatoio n.5”, dove Dresda viene raccontata addirittura attraverso la fantascienza.

Al tempo stesso, se le tecnologie digitali ci avessero fatto accedere in modo più diretto agli orrori della Shoah, le testimonianze di Primo Levi o le poesie di Paul Celan non sarebbero meno determinanti per indagare i lati più nascosti di quella tragedia.

 

JSF

Secondo me la tecnologia porta a due conseguenze principali.

La prima è di creare un effetto traumatico. L’11 settembre non è stata la tragedia più grande dell’ultimo decennio, né in termini di vite che sono andate perse né in termini di sofferenza generata. Però sicuramente è stato l’evento più traumatico a livello globale, e questo a causa delle immagini terrificanti a cui abbiamo potuto assistere. La parola “terrorismo” viene spesso utilizzata in modo improprio, viene strumentalizzata politicamente per parlare di altri temi, dall’immigrazione alla vendita delle armi. Non hai però un vero atto di terrorismo quando un lupo solitario entra in uno shopping mall e spara a due poliziotti. È un atto criminale, terribile, ma non terrorismo. Il terrorismo è strettamente legato alla percezione mediatica che se ne ha. L’11 settembre da questo punto di vista è stato un atto di vero terrorismo. Ha superato l’abilità di qualunque produttore cinematografico per l’impatto che le immagini hanno avuto sulla gente che le ha viste, immagini che in certi casi erano riprese da quella stessa gente. La potenza delle tecnologie consiste proprio in questo: nella capacità di trasformare una tragedia in un trauma. È successo a Londra, con gli attentati nella metropolitana del 2005. È successo nel 2001 a New York. Sai, l’esperienza dell’11 settembre che ha potuto avere un australiano non è così diversa da quella che ha avuto uno statunitense, addirittura dall’esperienza di tanti newyorkesi che l’hanno vista solo in tv o sullo schermo di un computer. E questo a causa delle nuove tecnologie.

La seconda conseguenza consiste nel colmare una tragedia con una valanga di informazioni. Il proliferare di immagini, di messaggi, di dati, a un certo punto causa una sorta di inflazione emotiva. In breve ci abituiamo all’orrore, subentra l’assuefazione. Ma non sempre questa quantità di immagini, messaggi, informazioni, crea una vera e propria compassione. La compassione nasce da un’altra cosa. È qui che chi racconta storie entra in gioco.

“L’immaginazione è uno strumento della compassione”. Lo diceva il grande poeta polacco Zbigniew Herbert, e io sono d’accordo con lui. Posso farti vedere mille immagini, le più dettagliate possibili, posso mostrarti le radiografie della mia spina dorsale, posso farti una cronologia precisa di tutti gli eventi della mia vita, ma niente di tutto questo susciterà in te la compassione. La compassione nasce soltanto se io ti racconto davvero qualcosa, la mia storia, i miei sogni, le mie idee. Se proprio dovessi immaginare una funzione sociale dello scrittore, allora sarebbe proprio quella di riuscire a ispirare compassione.

 

NL

Prima ho detto che negli anni Novanta c’era stato lo sciopero degli eventi. Ma questo non è del tutto vero. La guerra, ad esempio, c’era anche allora. Basti pensare alla prima guerra del Golfo, e qui in Europa alla guerra civile che ha distrutto la ex Jugoslavia. Però nel XXI secolo la sensazione che la guerra faccia costantemente parte del nostro orizzonte si è fatta davvero forte. Dopo l’11 settembre c’è stata la guerra in Afghanistan, la guerra in Iraq che ha portato al rovesciamento di Saddam Hussein, c’è stata la crisi libica e la fine di Gheddafi, la crisi siriana, il fallimento di quasi tutte le primavere arabe, è nato lo Stato Islamico, per non parlare di come il terrorismo continua a colpire in tutto il mondo.

Il cinema e la letteratura nel Novecento hanno raccontato la guerra con strumenti eccezionali, diversi per forza di cose da quelli che usano gli storici di professione. Pensa alla guerra del Vietnam. Film come “Il cacciatore” di Michael Cimino, “Apocalipse Now” di Francis Ford Coppola, “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick, “Platoon” di Oliver Stone, oltre a essere in certi casi grandi esperienze artistiche, svolgevano anche un ruolo per la rielaborazione del trauma, restituivano dignità alle delle vittime della guerra, ai soldati, ai civili, perché ne raccontavano la storia. In qualche modo contribuivano a sanare una ferita.

Non mi sembra che le guerre del XXI secolo siano altrettanto raccontate. Né dalla letteratura, né dal cinema. Le guerre che abbiamo fatto e che stiamo facendo in questi anni in Medio Oriente sembrano invisibili. Negli Stati Uniti c’è un altissimo tasso di suicidi tra i soldati che tornano da queste guerre. Si viaggia al ritmo di 20 suicidi al giorno, il 20% di tutti i suicidi che si commettono negli Stati Uniti sono di veterani.

Eppure questa sembra una realtà difficile da penetrare, molto meno raccontata da film e romanzi rispetto a ciò che accadeva in passato. Potrebbe dipendere dal fatto che prima c’era la coscrizione obbligatoria. Alcuni di quegli scrittori o di quei registi avevano fatto la guerra, o avevano amici e parenti che ci erano stati. Oggi la guerra la fanno i professionisti ed è più difficile entrare in contatto con loro. O magari è il pubblico che preferisce non ascoltare storie che riguardano la guerra. Atticus Lish, che ha scritto un bel romanzo tra i cui protagonisti c’è un veterano della guerra in Iraq (“Preparativi per la prossima vita”), mi diceva che la colpa secondo lui è soprattutto della gente, che Negli Stati Uniti preferisce non pensare a queste cose. Come la vedi?

 

JSF

All’inizio, sentendoti parlare, credevo di non essere assolutamente d’accordo con quello che dicevi. Alla fine invece ho pensato: la penso assolutamente allo stesso modo. Provo a spiegarmi. Non penso proprio che ci siamo abituati alle guerre. Ci siamo abituati a una versione molto particolare della guerra, all’idea cioè che queste guerre coinvolgano sempre altre persone, in luoghi che non sono mai i nostri. Anche per questo l’11 settembre è stato così traumatico: perché tutti ci sentivamo sicuri nelle nostre case, nel nostro paese, e pensavamo che le guerre riguardassero sempre qualcun altro, in altri posti. Il problema è che continuiamo a pensarla così.

I contatti degli americani con i propri connazionali che vanno in guerra non di rado sono nulli. Io, personalmente, non solo non ne conosco nessuno, ma le persone che frequento non conoscono a propria volta nessuno di quelli che sono partiti in guerra durante questi anni. Sono guerre lontane. Sono guerre aliene. Aiutano a comporre delle statistiche, ma non ci toccano da vicino. Ed è questo che dovrebbe farci paura. Proprio perché non c’è un coinvolgimento emotivo a livello di opinione pubblica, diventa molto più facile per un paese decidere di andare in guerra.

Io personalmente farei tutto quello che fosse in mio potere per non partire in guerra, però mi dico anche che sarebbe meglio se ci fosse ancora l’arruolamento obbligatorio. Non c’è nulla di più antidemocratico del modo in cui funziona l’esercito statunitense. Se ci fosse l’arruolamento obbligatorio, nelle guerre che facciamo sarebbero coinvolti tutti, tutti i ceti e le classi sociali, saremmo coinvolti noi, di conseguenza i nostri figli, i nostri coniugi, i compagni di vita, gli amici, tutta l’opinione pubblica si sentirebbe partecipe. E allora il governo valuterebbe con molta più cautela l’ipotesi di un intervento militare rispetto a quanto non abbia fatto in questi anni. Per lo stesso motivo, c’è meno gente che racconta le guerre attraverso il cinema o la letteratura. Per registi e scrittori si tratta quasi sempre di esperienze lontane. In più, il coinvolgimento dell’opinione pubblica è come dicevamo limitato. Sarebbe estremamente interessante, oltre che istruttivo, leggere romanzi e guardare film scritti e diretti da chi ha davvero avuto esperienza delle guerre contemporanee.

 

NL

Il XXI secolo non è solo iniziato all’insegna del terrorismo spettacolare e del conflitto bellico. In realtà è successo anche molto altro. Ci sono stati cambiamenti che ci riguardano forse ancora più da vicino, e che quindi possono interessare a chi racconta storie.

Penso al modo con cui ha ripreso ad allargarsi la forbice tra ricchi e poveri. Penso al crollo della classe media. Al fatto che il 2015 è stato il primo anno in cui il famigerato 1% dei più fortunati ha iniziato a detenere più ricchezza del restante 99%. C’è stato il tracollo del 2008. Buona parte dell’Europa è ancora con i piedi affondati nella crisi. Ma negli Stati Uniti, dove pure l’economia ha ripreso a marciare, l’ascensore sociale è fermo, e chi viene dalla classe media, o da quella medio bassa non sembra avere le opportunità che c’erano fino a 30 o 40 anni fa. Se così non fosse, non si spiegherebbe credo un fenomeno come Donald Trump.

Mi domando se e come questo cambiamento stia incidendo su chi racconta storie. Quest’estate rilggevo per esempio Saul Bellow e lo trovavo affascinante anche per come raccontava un mondo in cui chi veniva dal nulla poteva farsi largo nella vita. Letteratura e cinema statunitense del Novecento sono pieni di storie del genere. Fare fortuna. Riscattarsi socialmente e economicamente. Il fatto di vivere in un mondo in cui quest’ascesa è compromessa rispetto al passato incide su chi racconta storie? Rischiamo di passare da storie in cui i protagonisti sognavano di sfondare a storie in cui si sogna di sopravvivere? E quindi, in un certo senso, John Steinbeck non rischia di diventare più attuale di Saul Bellow?

 

JSF

In effetti la letteratura statunitense negli ultimi anni non si è molto occupata dei nuovi disagi economici. Non ha raccontato che cosa può significare essere poveri oggi, le differenze crescenti tra le classi sociali. Se n’è occupata la propaganda politica, legando spesso però questo tema a quello delle migrazioni. Pensa a Donald Trump. La sua linea di pensiero è che non esiste più la mobilità tra classi sociali proprio a causa dell’immigrazione. Ci sono gli immigrati che portano via il lavoro. Trump, abbastanza paradossalmente, parla di “nativi americani”, i cui interessi sarebbero minacciati dagli immigrati.

Se la letteratura da noi ha trascurato le disuguaglianze sociali, la sua attenzione agli effetti delle migrazioni è stata invece grande. A un certo punto c’è stato un interesse quasi feticistico verso le minoranze. Romanzi e racconti sono riusciti a dare voce agli ispanici, agli indiani, agli afroamericani, agli ebrei… Se c’è un posto dove tutte queste identità possono avere spazio, be’, è proprio la letteratura americana contemporanea. Magari alcune minoranze non hanno modo di farsi largo nella vita pubblica, nella politica, hanno meno opportunità di lavoro, ma la letteratura li rappresenta, dà loro voce. Del resto è nel nostro dna culturale.

Qualche tempo fa ero in Connecticut insieme ai miei figli, in un parco di divertimenti. C’era anche mio fratello. Eravamo in coda per salire su un ottovolante. In fila con noi c’era un ispanico, poi una donna con il burqa, quindi un ebreo ortodosso, poi ancora un afroamericano… A un certo punto mio fratello mi ha fatto notare che noi magari lo diamo per scontato, ma gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo in cui è possibile assistere a una scena del genere. Anche questa è l’incarnazione del vecchio sogno americano: un posto in cui tutti possano avere il loro spazio. La doppia elezione di Obama lo ha del resto ribadito.

Insomma, a parte gli indiani d’America, nessuno può dire di discendere da dei nativi americani, nemmeno Trump. Se c’è una cosa che la letteratura statunitense sta facendo, è favorire questo tipo di conversazione culturale. Non tanto conversazioni sulla disuguaglianza sociale, quindi, ma sul tema dell’immigrazione.

 

NL

Un altro tema su cui il dibattito culturale degli ultimi anni mi sembra stia cambiando è quello delle religioni. Mi piacerebbe sapere che cosa pensi del rapporto tra religione e letteratura.

In “Eccomi” racconti la vita di una famiglia laica che ha a che fare con la religione. Probabilmente le ultime generazioni dei Bloch hanno un’impostazione laica, o quanto meno sono agnostici che hanno a che fare con la tradizione religiosa ebraica. Il rapporto – non sempre tranquillo – tra clero e laici è del resto un classico della letteratura e del cinema degli ebrei americani. Penso a Philip Roth, ancor più a Henry Roth, ma anche a certi film dei fratelli Coen.

In Italia spesso la religione cattolica è stata raccontata dagli scrittori come un ostacolo da cui emanciparsi con fatica e determinazione.

Ultimamente mi è però capitato di leggere romanzi americani in cui la religione non è solo una convenzione sociale con cui hanno a che fare i laici, ma proprio un motivo di ispirazione, l’oggetto di una ricerca esistenziale assai importante. Mi hanno colpito molto i romanzi di Marilynne Robinson, dove la dimensione religiosa è fondamentale. C’è spazio per il trascendente nella letteratura occidentale del XXI secolo?

 

JSF

I personaggi di “Eccomi” non sentono il bisogno di affrancarsi dalla religione. Semmai hanno l’esigenza di stringere un nuovo legame con questo tipo di tradizione. Nonostante riconoscano l’ipocrisia di alcuni riti e convenzioni, il sentimento religioso è qualcosa di cui desiderano riappropriarsi. Pensiamo al bar mitzvah di Sam, alla sepoltura del nonno che deve seguire tutti i riti della religione ebraica. Nel mio romanzo c’è la religione organizzata, quella con cui questa famiglia vuole mantenersi in contatto, sebbene gli sforzi necessari per farlo abbiano ricadute spesso paradossali, quando non mettono in luce aspetti vacui o addirittura vuoti del rituale. E poi c’è questa religione privata, artefatta, tra marito e moglie: Jacob e Julia vorrebbero creare una religione fatta di piccoli riti che conoscono solo loro due, credono sia il modo per mantenere vivo questo amore che all’inizio aveva tante ambizioni, e che ora rischia di disfarsi. E poi ancora, c’è quella che potremmo definire religione del rispetto. C’è la scena in cui Jacob porta Benji in un osservatorio astronomico, e Benji chiede al padre “perché quando la gente guarda le stelle tende a sussurrare, a parlare a basa voce?” Qui, subentra la religione del rispetto. L’umiltà. Il senso di essere piccoli. Spesso la religione ci rimette in contatto con un senso delle proporzioni che smarriamo quando siamo troppo concentrati sulla nostra vita privata. Perdiamo la dimensione globale, o perché quella dimensione è invisibile, o perché la sentiamo lontana, o perché possiamo entrare in contatto con essa solo attraverso discorsi e pratiche molto diversi da quelli che regolano la vita quotidiana.

Il problema dei miei personaggi non è allora affrancarsi dalla religione, ma individuare la religione giusta per ognuno di loro, quella che più si addice alla propria vita.

 

NL

La famiglia Bloch vive in una condizione molto protetta, dove il massimo che può succedere è che Jacob scriva messaggini erotici a una ragazza con cui non è necessariamente andato a letto, o Sam, che sta per fare il bar miztvah, venga accusato di aver scritto frasi omofobe e razziste di cui magari non è neanche colpevole. Al contrario “fuori” scoppia l’apocalisse, con il terremoto che sconvolge il Medio Oriente e lo stato di Israele che rischia di svanire.

Questo rapporto tra “fuori” e “dentro”, tra un mondo molto protetto dagli eventi traumatici, e un mondo dove invece certi traumi sono molto più violenti, non ci dice qualcosa del tempo in cui viviamo? Un errore di Jacob non potrebbe essere quello di illudersi che la vita possa essere molto più ovattata di quanto non sia nella realtà? Dico “errore”, perché alla fine è il matrimonio di Jacob a crollare, mentre lo stato di Israele, seppure indebolito, resta in piedi.

 

JSF

“Eccomi” è anche un romanzo che racconta cosa significa restare troppo concentrati sulle cose sbagliate. Quello che credi di vedere, soprattutto nella tua vita privata, rischia di essere molto diverso da ciò che è in realtà. C’è questa conversazione tra Jacob e suo cugino Tamir, che vive nello stato di Israele. Jacob confessa di invidiare un po’ la vita di Tamir, tutta scandita da temi “forti”: la tensione che si respira ogni giorno in Israele, il terremoto, i venti di guerra, suo figlio arruolato nell’esercito, e così via. Al che Tamir gli risponde: “il tuo problema è che non hai abbastanza problemi”.

I personaggi principali di “Eccomi” si misurano di continuo con la percezione che possiedono della propria vita, spesso la valutano in base alle aspettative che avevano su di sé molto tempo prima, ed è qui che sbagliano. Alla fine perdono la direzione, non si concentrano su ciò che davvero sta succedendo, fanno diagnosi sbagliate sui loro reali problemi, o elaborano soluzioni per dei problemi che non hanno.

In questo romanzo ci sono due crisi: il terremoto in Israele (qualcosa su cui non puoi avere controllo, non puoi intervenire, anche se poi una catastrofe naturale scatena una serie di altre situazioni su cui invece puoi intervenire), e poi l’altra crisi, quella coniugale. La crisi tra Jacob e Julia scoppia a causa dei messaggini erotici mandati da Jacob, i quali però sono solo la manifestazione visiva di un problema nato diverso tempo prima. Sono la conseguenza della progressiva alienazione di Jacob, della sua incapacità di presentarsi per chi è realmente. Incapacità che si ritrova nel titolo. “Eccomi”. Ho avuto grande difficoltà a trovarlo, questo titolo. All’inizio pensavo a qualcosa del tipo “Distruzione sottile, o “Sottile apocalisse”. Volevo mettere in luce una crisi che si manifesta molto lentamente, per cui è difficile puntare il dito e dire: “è lì il problema”.

 

NL

I tuoi romanzi guardano anche fuori dai confini degli Stati Uniti. Sia a livello cinematografico che a livello letterario, uno dei dialoghi più fecondi a cui abbiamo assistito nel Novecento è quello tra Europa e Stati Uniti.

Penso agli scrittori europei che passavano molto tempo in Europa, come Ernest Hemingway e Henry Miller a Parigi, o come Ezra Pound, Tomas Stearns Eliot, penso a Vonnegut e Salinger nel vortice della II guerra mondiale.

Oppure penso agli scrittori europei che venivano a vivere negli Stati Uniti, come Nabokov, o come Henry Roth, come gli ebrei di seconda e terza generazione, penso a Philip Roth (che veniva in Italia a intervistare Primo Levi, e che passò un lungo periodo a Roma), o a Saul Bellow, ovviamente a te, ai figli di italiani come Don DeLillo.

Per non parlare del cinema. Qui ovviamente mi vengono in mente i registi statunitensi figli o nipoti di immigrati italiani, come Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Michael Cimino, o gli ebrei di terza generazione come Steven Spielberg che a un certo punto fa anche un’apparizione in “Eccomi”.

Spesso sono stati eventi tragici (come guerre o migrazioni) a far dialogare anche sul piano artistico la cultura europea e quella statunitense.

Mi chiedo se oggi questo dialogo sia ancora così vivo. A me pare di no, e mi dispiace, perché mi sembra che entrambe le culture possano trarre forza da una reciproca frequentazione.

 

JSF

Parlammo della stessa cosa nel 2005, quando venni a Venezia per tenere una conferenza alla Scuola Librai. Le cose da allora mi sembrano cambiate. Dieci anni fa avevo l’impressione che la cultura americana si stesse un chiudendo un po’ troppo verso l’esterno. Certo, se guardiamo ai libri di autori europei pubblicati negli Stati Uniti, e ai libri di autori statunitensi pubblicati in Europa, la sproporzione ancora oggi è enorme. Saremo in un rapporto di 1 a 100. Basti pensare che solo il 3% dei libri pubblicati negli Stati Uniti è in traduzione. Detto questo, non giurerei sul fatto che l’interazione tra scrittori, registi, artisti europei e statunitensi sia molto cambiata. Io personalmente mi ritrovo non di rado a scrivere a Berlino, a Tel Aviv, o in Spagna, e spero di poterlo continuare a fare in futuro. Al tempo stesso, quando sono a New York, mi capita di incontrare scrittori europei che si trovano lì per lavoro. A livello di frequentazione intellettuale il dialogo continuia. È a livello di cultura di massa che l’Europa arriva poco da noi.

Adesso, però, anche la cultura popolare mi sembra si stia aprendo un po’ di più. Le traduzioni di autori stranieri aumentano. Lentamente, ma aumentano. Ci sono scrittori europei che qui da noi hanno successo. Pensa a Elena Ferrante, o a Karl Ove Knausgård. Persino in tv c’è un’apertura. Ci sono format televisivi che vengono importati dall’estero e poi adattati alle nostre esigenze.

Parlavamo prima di umiltà. Ecco. Gli Stati Uniti per antonomasia non sono un popolo umile, proprio per niente, ma questo approccio è arrivato ai massimi livelli con l’era di George W. Bush. Soprattutto dopo l’11 settembre – e qui torniamo al nostro tema – la chiusura ha dato il meglio di sé, ed è ciò che vorrebbe tornare a fare con Donald Trump. Barack Obama al contrario è stato un presidente assolutamente cosmopolita, il che ha avuto i suoi effetti anche sul piano della ricezione culturale. Le due cose sono collegate. Così oggi ho la sensazione che siamo più aperti rispetto a qualche tempo fa.

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