Voce a vento: cantare lo spazio, abitare l’utopia. Intervista a Meike Clarelli

di Chiara Mogetti

Cantante, compositrice e ricercatrice vocale dalla formazione eterogenea, Meike Clarelli spazia dalla musica alla psicofonia, dal teatro, alla poesia. Dal 2008, Clarelli dirige stabilmente due cori di voci (indisciplinate) femminili: “Le Core” e “Le Chemin des femmes”. Con queste ultime ha preso attivamente parte al progetto “Voce a vento” dell’artista Claudia Losi: una performance tenutasi tra i sentieri del Monte Bulgheria, nel Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano. In questa occasione i testi originali di Claudia Losi si sono uniti al lavoro della musicista Meike Clarelli in un’esperienza che ha visto decine di donne cantare abitando, tramite la loro voce, il paesaggio circostante.

L’esperienza performativa di “Voce a vento” – tenutasi nel 2018 – ha dato vita oggi alla pubblicazione dell’omonimo libro d’artista e vinile pubblicato da Kunstverein Milano.

L’elemento femminile, centrale nel lavoro di Clarelli e Losi, ha portato le due artiste alla ricerca, tramite questa esperienza, di un bilanciamento della tradizione patriarcale, particolarmente potente nei luoghi dove ha preso vita l’esperienza.

Nell’ambito del progetto “Voce a vento” ha collaborato con l’artista Claudia Losi. Com’è nata questa collaborazione? Può raccontarci del lavoro che avete portato avanti?

Claudia e io ci siamo conosciute tramite una collaboratrice e amica comune. Da alcuni mesi Claudia stava portando avanti dei cammini in Cilento, sul Monte Bulgheria, e stava progettando una parte performativa da integrare nella sua opera. Nel frattempo, lavorando con l’Associazione Jazzi aveva attraversato quel territorio.
Sentiva che quella era una terra indurita. Si odorava un certo stampo patriarcale, in quel territorio, per la sua storia ma anche perché quell’impianto sociale è ancora presente. E la emozionava l’idea che un coro di donne potesse attraversare uno spazio simile.
È stato un po’ un amore a prima vista. Ho cominciato a preparare una parte del coro a Bologna e, nel frattempo, abbiamo avviato un dialogo con i cori locali in Cilento. Aiutata da Davide Fasullo, ho scritto le musiche sui testi di Claudia. E Claudia è sempre stata una grandissima scrittrice. Mi sono resa conto che era estremamente musicale nella sua scrittura. È una musicista, anche se non lo sa, e canta anche benissimo.
Quando siamo arrivati in Cilento, però, tutto quello che avevo immaginato non coincideva con la realtà che ho trovato. Il territorio era incredibilmente possente e, anche se eravamo in trenta, ci schiacciava. Così ampio, aperto, brullo, duro. Ci ha spaventato. Facendo le prime prove, camminando in un trekking, mi sono resa conto che la montagna vinceva tutto. Che quel mondo che Claudia aveva descritto nei testi rischiava di distruggere tutto quel che avevamo pensato e progettato fino a quel momento. Abbiamo capito che non possiamo metterci in competizione con la natura, che era necessario assumere una posizione defilata e umile, chiedere a quella magnificenza il permesso di esserci.

Lei viene da una formazione psicanalitica, ha esperienza nel sociale – mi riferisco in particolare al suo lavoro in un centro antiviolenza – e opera in campo musicale. Può raccontarci di questi suoi mondi e di come riesce a farli convergere nel suo lavoro?

Non ho seguito un percorso da musicista in senso classico. Ho anche cominciato relativamente tardi. Mi sono avvicinata al canto che avevo venticinque anni e da subito il mio è stato un percorso molto particolare. Ho avuto come docente Imke McMurtrie, famosa pedagogista vocale particolarmente conosciuta in Nord Europa. Con lei ho cominciato un percorso sulla vocalità che richiedeva di lavorare sulla consapevolezza corporea. Il suo, infatti, non è un approccio strettamente tecnico, ma olistico, integrato. C’è stato poi l’incontro con la psicofonia, disciplina dell’ascolto che ha come obiettivo l’evoluzione della persona attraverso la voce e che nasce in Francia negli anni ‘50, caratterizzata da un approccio umanocentrico. Questa idea è rimasta forte: il legame all’umano, all’individuo, con tutta la sua meravigliosa complessità. Questo sguardo sulla voce come manifestazione della complessità dell’individuo è per me una pista. La voce è sintomo, sorgente, vettore, è la rappresentazione acustica di tutti noi.
Lavorando al centro antiviolenza della Casa delle Donne di Modena, ho iniziato a creare un piccolo coro con donne vittime di tratta e di violenza, e questa è stata la mia prima esperienza con i cori. Il coro, che oggi si chiama Le Chemin des Femmes, è nato nel 2008 e in seguito si è distaccato, aprendosi alle cittadine e impegnandosi in particolare rispetto a tematiche femministe, intese in un senso piuttosto ampio. Le Core Voci Indisciplinate, nato successivamente a Bologna, raccoglie a sua volta l’esperienza di Le Chemin. Entrambi sono gruppi intergenerazionali. Soprattutto nel coro di Bologna, cantano insieme donne di oltre settant’anni e ragazze di venti, portando prospettive sulla vita completamente diverse. Convivono tante differenze, generazionali e non solo. Ci sono donne religiose ma anche bestemmiatrici.
I cori sviluppano entrambi uno sguardo diretto ai temi del femminismo, dell’ecologia, del genere, nella convinzione che tutti hanno diritto di poter esprimere se stessi e il proprio desiderio di esserci. Il motto comune alle due esperienze è “C’è qualcosa nella voce delle donne che resiste”. Anche e soprattutto alla volontà di appiattire il discorso. Questa idea si riflette nel repertorio. Le donne non cantano mai all’unisono. Sperimentano, provano vari generi, in certi brani emergono voci che rivendicano la propria soggettività.
Isabella Bordoni, artista che ha collaborato con il Collettivo Amigdala, ha contribuito a realizzare il progetto dell’Alfabeto pandemico e, in questo contesto, mi ha affidato la definizione della parola corale. Per me il senso della coralità è racchiuso qui: “corale: destinata a più voci contrapposte alla solitudine di una. Dalla radice immersa, immensa del cuore in un’accezione sacra e liturgica per volontà unanime. Nessuno, nemmeno tu, ma noi, insieme. La sua voce contiene la mia senza che sia più mia perché corale è una forma di scrittura che piove dall’alto, goccia con goccia. Irrazionale, femminile, femminista, famigliare, plurale, pericolosa, si apre nell’arresa. L’immunità del Villaggio risale a molti anni fa quando gli abitanti cominciarono ad essere coro perché la corale non canta, ‘esiste’ nel canto”.

Racconta di un’esperienza laica, incentrata sull’umano. Potrebbe spiegarci in che senso intende i termini “sacra e liturgica”?

Liturgica nel senso di ciò che significa pregare, come in un rito di preghiera assolutamente profano, non religioso. Lo intendo in senso musicale, nell’aspetto formale e musicale di una liturgia, in un’accezione sacra ma priva di connotazione religiosa.

E l’elemento del femminismo? Cosa rappresenta per lei?

Gli anni di lavoro nel centro antiviolenza di Modena sono stati formativi. Il femminismo dei centri antiviolenza riesce a uscire dall’idea di servizio alle donne intese strettamente come vittime. Lo sguardo della Rete Dire restituisce alla donna il suo protagonismo, anche nel suo essere vittima di violenza, e questo sguardo si cala in una pratica di tutela che lascia alla donna il potere di decidere. Sono idee e pratiche ereditate dal femminismo storico. Successivamente, tuttavia, mi sono allontanata dallo sguardo dei centri antiviolenza per avvicinarmi a un femminismo di respiro bolognese che ha preso in sé le pratiche legate al transfemminismo, al queerismo. Il modo in cui penso al femminismo è lo stesso in cui penso alla necessità di concepire un mondo sociale in cui vigano principi egualitari, in cui diritti e differenze siano tutelati. Il mio femminismo risponde a una visione che si oppone all’idea patriarcale di sfruttamento di qualcuno a vantaggio di un altro. Mi sento vicina al femminismo portato avanti dalle curde, che si muove in direzione di una società veramente democratica.  Il collettivo Amigdala ha fatto propria la frase di Franco Arminio per cui bisogna “intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia”. Credo che la parte utopica sia molto importante in questa visione.

Il suo lavoro mi ricorda la fine di Amatissima, capolavoro letterario di Toni Morrison, in cui il trauma si risolve attraverso la potente emissione vocale, tra canto e grido, di un gruppo di donne che va incontro all’individuo. È un’immagine che potrebbe risuonare con lei?

È un’immagine molto potente, la sento effettivamente vicina.
Io metto le mie coriste su una sorta di piano obliquo, dove le cose sono abbastanza chiare ma non possono essere del tutto leggibili. Questa quota di mistero, di inconoscibile, è dovuto al fatto che la voce di per sé è ingovernabile. La voce è un luogo di sé che permette di conoscere se stessi ma che, alla fine, ci parla di una nostra insondabilità.
La voce è il luogo dell’ingovernabilità di cui siamo fatti e che, ho sperimentato nel tempo, ha un valore curativo, soprattutto se assunto senza paura e sviluppato in un contesto comunitario, in ambienti collettivi femminili. È pericoloso abusare della parola “curativo”: intendo questo termine nel senso di aver cura di sé, dello spazio pubblico, dell’altro, del prendersi cura di una voce che è anche una voce pubblica e che diventa costruttiva attraverso una pratica di libertà, che sa che nel proprio esserci c’è una quota di inaspettato e di imprevisto. Claudia ha un’arte della cura incredibile e per me questo progetto è stata un’occasione di riflessione sull’esperienza fatta in tutti questi anni sui cori.

Quali scelte musicali e sonore vi hanno guidato?

In questo disco si aprono vari mondi sonori. “Voce a vento” è un’opera vocale a cappella per cori, ma è anche un’opera in cui le voci sono sintetizzate come strumenti elettronici. Si può avere l’impressione di sentire canti popolari, penso in particolare al brano “Raccoglie e conserva”, ma insieme a questa componente è presente nella scrittura musicale anche una quota di perturbante e di contemporaneo. In una delle tracce, ad esempio, sembra di sentire “Medusa”, di Björk. Canti scritti su tempi che sembrano tarantelle coesistono con influenze di Madonna. Claudia ha scritto un testo molto colto che richiedeva una scrittura musicale sui tempi dei canti che si fanno all’aria aperta, non nelle sale da musica. Abbiamo quindi fatto ricorso a tempi particolari, come il 12/8. La possibilità di tenere insieme questa pluralità e questa ricchezza è la cifra del lavoro sui cori che porto avanti.
“Quanto tempo” ascoltato dal vivo appariva un brano un po’ medievale ma poi, una volta registrato, ricordava i Portishead, con la sua armonizzazione new wave, elettronica. Insomma, si spazia dal dal 1200 agli anni ‘80, ma al centro rimane, forte, la voce. Abbiamo cercato di far sì che l’elemento vocale restasse il più naturale possibile. Che poi è questo il lavoro di Claudia. Ha una connessione con i luoghi, con il senso profondo delle cose, materico e insieme alto e spirituale. La natura è possente e l’umano si pone vicino a questa possenza. Siamo passate da un fuori atmosferico, dove si sente il vento del Cilento, a brani intimissimi, in cui si sussurra all’orecchio dell’ascoltatore.
Da un punto di vista discografico è stato interessante stratificare i materiali audio. Oltre alle registrazioni effettuate durante le prove, c’è una quota di registrazione realizzata sul monte, durante la performance, con condizioni meteo estreme di grande vento, e c’è una quota in studio, dove sono stati riarrangiati i brani. In alcune tracce si percepiscono questi diversi livelli, come in un minerale che si è stratificato nel tempo.

Ha progetti per il futuro che le piacerebbe condividere?

Con Claudia, prima della pandemia, stavamo progettando un viaggio che diventa un atto performativo, a partire da un’idea di Federica Rocchi di Amigdala. L’idea era di andare a incontrare il Coro delle Voci Bulgare e dalla Bulgaria, che ha una quantità di siti matriarcali interessantissimi, partire per un viaggio, le coriste insieme ad artiste come Claudia, fino in Sardegna, una delle ultime regioni in Italia con tracce del matriarcato, per scoprire diversi canti delle donne. Speriamo di poter riprendere questo progetto. Certamente stiamo lavorando in questa direzione.

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