“Come un mattino texano” di Michele Neri: un estratto
Pubblichiamo, ringraziando l’autore e l’editore, il primo capitolo di Come un mattino texano di Michele Neri, nuovo titolo della collana “Interzona” di Polidoro Editore.
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Il bicipite non smetteva di tremare e l’uomo chiamato Traven lo fissò. Gli occhi imposero fermezza.
Pensò: le mie ultime flessioni. E inspirò. Quante altre serate trascorse così, l’orizzonte giù, nella polvere sotto il letto poi su, a fissare il cuscino? Espirò. E perché stancarsi se loro lo troveranno; presto, prima che le libecciate di novembre avranno respinto i corvi. L’autunno aveva già spento il mare, smascherando un cielo diverso, una pozza d’aria oltre la foschia verde e oro. Inspirò.
Traven! Traven! Era stata la parola origliata poco prima di svegliarsi in una casa che non era sua, in cui non era mai stato. Le porte scheggiate, la pendenza del soffitto, quello non che c’era e per cui, senza riconoscerlo, Traven provava il conforto di un ritrovamento. Se soltanto vivere avesse avuto il senso di prima, sospirò, perché ancora poche settimane e le menti avrebbero percorso le strade tra le colline e reclamato il suo corpo.
Protraendosi l’attesa, Traven temeva che l’avessero dimenticato: l’uccello rimasto a nord, il cacciatore deluso e una canzone americana e triste, oh boy.
Da quando era rimasto solo, aveva imparato a spaventarsi, poi a prendersi in giro.
Pensò alla soglia: l’avrebbe varcata anche lui. L’aveva addirittura vista in anticipo e quando gli altri erano intenti a tutto, senza accorgersi di niente. Rincuorato, stiracchiò le dita sul pavimento, rimettendosi alla formula recitata ogni volta che dubitava di sé o non ricordava perché si trovasse in quel paese in cui era capitato per volontà ignota, sentendosi subito a casa.
Me ne andrò e come gli altri prima di me.
Noi, che non potevamo non avere un corpo.
Erano parole lette in un quaderno trovato dentro un cassetto. La grafia era sua, le descrizioni non sempre familiari.
Si piegò e i gomiti tornarono ad allargarsi: la finestra restituì il profilo di una cavalletta pronta al balzo, esitante, grassa.
Traven studiò ancora una volta le macchie sul suo braccio in tensione, raccontò la storia scritta poi cancellata e poi scritta di nuovo sulla pelle; attraversata la soglia, se ne sarebbe liberato. Come chi l’aveva preceduto, sarebbe riuscito a guardarsi da fuori; a quel punto un oggetto nella stanza, non più suo dell’armadio perché lui non sarebbe rimasto lì, chiuso dentro quel corpo.
Essere separato dalle ginocchia, dalle mani che stavano tremando per le flessioni di cui aveva perduto il conto: era questo, il suo destino, si chiese Traven. E con quali occhi avrebbe poi fissato i suoi abbandonati da lui e sempre indiscreti, come se nulla fosse mutato? Gli occhi si sarebbero affrontati rivendicando l’unicità dello stupore? Morire era questo? S’interrogò nuovamente. Non riconoscere l’occhio che ti spia perché tuo, senza che sia colpa di quel vecchio cuore bugiardo?
Non importava, perché finalmente avrebbe raggiunto gli altri volontari dell’oblio, ciò che restava dell’umanità intera. Volando più rapido della luce, unendosi a quanti l’avevano preceduto e superandoli, benché fossero ovunque e nello stesso istante. Una nuova particella superluminale.
Traven avrebbe saputo perché le chiamassero foglet me per quale motivo, ogni volta, sentendole avvicinare, lui avesse provato il formicolio di una vita che iniziava. Gli uomini bloccati prima della soglia, parlarono all’inizio di nebbia intelligente. Di sorsi di luce. Poi smisero di cercare anche le parole.
Seduto sul bordo del letto, era tornato il cacciatore triste. La notte calava. Sollevò un capello grigio dalla maglia bianca. Era dispiaciuto di salutarsi per l’ultima volta così, adulto e qui e là guastato. Oh boy.
Traven guardò il cielo, non trovò scuse, inspirò in fretta, espirando lentamente per provare dolore, una certezza ancora.
Prima della transizione, i candidati vivevano in un luogo che fungeva da quarantena e dove la malattia da curare era il passato. Fino al giorno della soglia. Poi anche Traven avrebbe incontrato un altro sé sempre nuovo. E compreso che cosa significasse essere niente più che l’ombra chiara che smuove la torcia sopra un sentiero, un cane bianco che corre al buio senza fermarsi. Ignorava da dove arrivasse quest’immagine. O un dado bianco che rotola al buio. Poi le trovò nelle note del diario.
Ricominciò a passare in rassegna la muscolatura, il ventre magro e rilassato quando una voce infantile lo interruppe dalla cucina.
How I wish, how I wish you were here…
Usciva dal tostapane. Era una particella, cantava e lui si stupì: le aveva chiuse fuori. Si rimproverò dello stupore. Se riuscivano a sentire i raggi del sole ridere e cantare, cosa poteva una porta. Una luce entrata da chissà dove, inondò la stanza.
La particella ripeté How I wish… e Traven si sollevò dal pavimento a fatica: per rallentare il cuore si appoggiò alla finestra, come nei pomeriggi da bambino quando la fronte affidava al vetro un segreto penoso, per caso un guanto di lana con le dita unite, caduto nel fango e che lui non aveva raccolto perché stava diventando grande.
Ignorava se a cantare fosse stata una particella nata da uomo o donna, ma era vento elettrico, poco più. Attraversata la soglia, niente era diverso e niente contava.