Così intimo, così letterario. I diari di Antonio Delfini

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di Gaetano de Virgilio

Partiamo dai foruncoli. Antonio Delfini, nei suoi Diari appena pubblicati da Einaudi a cura di Irene Babboni, un giorno di metà settembre del 1927, scrive: «Arrivai a Vignola che avevo un male al culo (e tutti i foruncoli: uno davanti, uno sotto l’ascella, uno sul collo, uno nel mezzo del pancino e tanti piccoli altri, i quali mi scoppiavano con lo sforzo dell’andare in ciclo, e mi toccava entrare ogni tanto in qualche farmacia per chiedere un batuffolo di bambagia, imbevuto d’alcool, per via di disinfettarmi quella roba)».

A quarant’anni dalla prima edizione dei Diari possiamo rileggere questo testo. Se ne è parlato sui giornali e con un po’ di cura si possono mettere in fila gli aggettivi usati per definire questo autore: si va dal consueto ‘outsider’ al più coercitivo ‘inafferrabile’, e si passa spesso dalla parola ‘fallimento’- che lo stesso Cesare Garboli utilizzò nel 1982 nella prefazione ai Diari – a espressioni idiomatiche quale ‘talento inutilizzato’ e ‘vita non vissuta’.

A vederla da lontano, sembra che si faccia l’impossibile per insultarlo o quantomeno per innalzare la sua mesta figura a vessillo di una certa critica che vede una vita sbilenca portare valore aggiunto alla letteratura di chi la vive. Lo stesso solco venne tracciato quando apparvero i diari di John Cheever, il grande scrittore americano, ‘omosessuale con figli, alcolizzato’ la cui sensibilità limitante permeava per davvero le pagine di un’opera unica. In questi ultimi mesi sono apparsi anche i diari di Peter Handke (Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi, per Settecolori Edizioni), il primo dei cinque volumi dei diari di Virginia Woolf (Diari. Volume I (1915-1919), per Bompiani) e quello di Piergiorgio Bellocchio (Diario del Novecento, per il Saggiatore). Non è troppo un caso. I diari spesso saltano fuori quando molto di un autore è già stato pubblicato e i tempi sono abbastanza maturi per svelare i bozzetti delle opere più celebri.

Questo ad esempio è Handke nei suoi diari: «Un’intera frase, e di seguito ancora una, e ancora, una, e così via, in mezzo forse “magari”, una, due frasi incompiute, a metà: questa è la mia terra». Il pensiero della creazione al di qua della stesura. Tra i Diari citati in precedenza, quest’ultimo sembra muoversi sullo stesso piano emozionale di Delfini, poiché entrambi risultano essere journals di non-appartenenza, schivi nelle intenzioni, anche se Handke è più frammentario e bozzettistico, mentre Delfini più novecentesco e incaponito.

Il genere diaristico in ogni caso resta la perla adamantina dei lettori che già di per sé leggono i writer’s writer, ossia quegli scrittori amati principalmente da altri scrittori. Pensiamo a John Fante, alla Munro, a Sebald, a K. O.Knausgaard.

L’operazione che Antonio Delfini sviluppa inconsciamente all’interno dei suoi diari sembra cavalcare perfettamente l’onda onanistica di queste due tendenze. Davanti a noi c’è uno scrittore ossessionato dallo scrivere che ci parla con estrema precisione del mondo, avendo come unico panorama la lana pregiata all’interno del proprio ombelico. I suoi diari, in questo senso, ci offrono più letture. Se da una parte in una riga vi è materiale per almeno due romanzi, dall’altra le informazioni che ci vengono date sulla vita di ogni giorno sono così intime e letterarie che è difficile ogni volta sollevare il velo della marmellata nel tentativo inutile di assaggiare solo il burro. Ora, in tutta onestà, non si può voltare lo sguardo altrove davanti ad una sua neghittosità permanente e ad una certa voglia di deresponsabilizzazione rispetto all’ambiente letterario che lo circondava, ma queste tensioni erano già chiare nei suoi racconti più celebri (da poco pubblicati da Garzanti). I diari, per quanto possibile, tentano di andare in un’altra direzione.

In Una specie di solitudine Cheever scrive: «nel momento del giudizio finale si scoprirà che mangio i pisellini infilzandoli con il coltello e che ho un buco nel cavallo dei pantaloni». Il Cheever uomo fa capolino dietro al Cheever scrittore, ed è questo che si richiede dalla lettura di un diario.

Torniamo dunque ai foruncoli, sentite Delfini: «Non conosco la grammatica; non so scrivere quello che penso; non capisco quello che leggo; non so parlare e, a forza di voler tacere, mi sono ridotto che, quando voglio esprimermi, non faccio uscire di bocca che dei suoni incomprensibili da balbuziente. Taràtaratà. TaratàTaratàTaratàTaratà; e questi modi di parlare sono i miei pensieri con la gente di fuori. Se vado in un caffè e chiedo qualcosa, dico: mi dd na bbirr; (mi dà una birra); tanto è per me sacrificante il parlare». Attraverso queste confessioni chi legge comprende che lo scrittore de Il ricordo della Basca, forse uno dei racconti più belli del Novecento italiano, poi nella vita di tutti i giorni faceva fatica a parlare.

Da lettori, essere voyeur di queste debolezze, è un sadico privilegio. Al contrario dell’ostia che in un momento solo è disco di farina di frumento e corpo di Cristo, Delfini si presenta a noi uno e trino, uomo e scrittore, non c’è trucco, non c’è inganno. Delfini piace agli scrittori perché la sua mancanza di disciplina e progettualità affascina. Mette su castelli di sabbia che distrugge con la mareggiata delle sue stesse pigrizie e inconcludenze. In molti degli incipit abbozzati nei diari afferma di non voler più scrivere cose così brutte e intanto, mentre finge di cantarsela, ricama trame di velluto Damasco. Si rimprovera di continuo («sono stato in questi mesi cattivissimo in casa e veramente odioso. Faccio soffrire tutti») e a volte se ne compiace, ha voglia di scrivere questo diario, lo scrive con l’intento della pubblicazione e poi lo trova stupido e noioso («vuol dire non aver il coraggio di lasciar sfumare le cose più stupide della vita, perché si è convinti che anche quelle abbiano un certo valore»).Mentre passeggia profila autobiografie, elabora romanzi, novelle, ma «sono momenti che appena concepiti, si squagliano insieme a un caffè o a una bibita».

E poi le donne. Delfini è l’anguilla di sé stesso, si scivola addosso, a volte passano giorni prima che decida se guardare o meno una ragazza negli occhi. «Cara paginetta», scrive l’autore modenese, «ti devo dire che io sono innamorato. Di chi non lo so – ma sono innamorato e voglio trovare una donna bella, intelligente, che mi capisca, non tinta, non moderna. Speriamo di trovarla, vero, cara paginetta? Come si dovrebbe vivere bene. Così. Come Dio vuole. Ma quante puttane! Ora vado a letto».

Le ragazze lo invitano a ballare, la sorella lo dissuade, lo tira via, lui tra l’impacciato e l’allegro procede a tentoni in conversazioni ‘da caffè’: «Al ritorno, mezzo scombussolato dal raffreddore e dalla macchina, la Nadia, la vita futura, il mare, le stazioni, i miei sogni di pitture, e la mia persona in primo piano in mezzo al mondo, giravano in continua rotazione nella mia fantasia e immaginazione».

Per Delfini resta valido quello che Piovene disse su Comisso e cioè che molti suoi scritti ‘convincono nello stesso modo di una pianta, una nuvola, una persona ben fatta, un bell’animale. Non v’è gran che da aggiungere, dopo averlo riconosciuto.

 

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