Parlare di sé per parlare di tutti. Le “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci

di Riccardo Gasperina Geroni

Opera postuma e ancora viva le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci ci restituiscono, a distanza di quasi un secolo, il pensiero tormentato e acutissimo di un uomo d’eccezione. È merito del lavoro di Francesco Giasi, direttore della Fondazione Antonio Gramsci e studioso gramsciano di lungo corso, se possiamo rileggere le lettere in una nuova edizione edita per i Millenni di Einaudi. L’opera raccoglie 511 lettere, di cui 12 inedite, e acclude un ricco album fotografico, sigillato dalla foto di Gramsci morto, sul cui corpo, livido, gonfio e sofferente, si sono anche scritte le tracce della truce storia italiana del fascismo, che imprigiona il fondatore del Partito comunista italiano l’8 novembre 1926.

Nella lunga e articolata ricostruzione della genesi delle lettere, libro inventato editorialmente da Togliatti come omaggio all’amico scomparso, Francesco Giasi mostra come le lettere siano il «parallelo esistenziale» della stesura dei Quaderni dal carcere, a oggi considerati una delle punte del pensiero filosofico italiano del Novecento. Per lo più indirizzate alla moglie Giulia Schucht e a sua sorella Tatiana, esse sono testimonianza di una inesausta vitalità di pensiero. «Le lettere – sono le parole del curatore – costituiscono un autoritratto concepito nelle condizioni concesse, compromesso dalla censura, dai tempi di scrittura, dalle cadenze degli invii, dalla vigilanza della direzione del carcere, e riescono di rado a far luce sulla vita quotidiana di Gramsci». Qualche traccia di quotidianità è tuttavia possibile scorgerla: «per vivere tranquilli in carcere – scrive il 12 novembre 1927 –, occorre abituarsi al purissimo necessario; tu [Tatiana] capisci bene che ogni piccola comodità, in questo ambiente, diviene una specie di vizio che è poi difficile estirpare, data l’assenza di distrazioni»; oppure il 27 agosto dell’anno successivo Gramsci confessa: «ciò che mi ha reso duro il carcere, finora (a parte tutte le altre privazioni che sono portate dalla mia situazione) è stato l’ozio intellettuale».

In ogni caso, sarebbe un errore leggere questa raccolta come un semplice documento o tutt’al più una testimonianza particolarmente significativa. È tra le tante cose soprattutto un’opera dal valore letterario, se è vero che la prima edizione, quella del 1947 (con 218 lettere edite), vinse nello stesso anno il Premio Viareggio. E infatti la scrittura letteraria, insieme alla speculazione filosofica, costituiva una difesa attiva contro la censura, così anche contro la solitudine della situazione carceraria. C’è in particolare una lettera molto nota che vorrei qui richiamare e che è esemplificativa della densità letteraria di questi testi. La lettera, scritta il 6 marzo 1933 e indirizzata, come spesso accadeva, a Tatiana, prende spunto dal quadro di Theodore Géricault, La Zattera della medusa, composto tra il 1818 e il 1819 e ora al Louvre. Nella lettera, Gramsci non si limita a raffigurare l’evento del quadro, il naufragio di alcuni uomini che sono così costretti dalla necessità a cibarsi di carne umana per sopravvivere, ma dinamizza l’ecfrasi integrandola con i pensieri dei futuri naufraghi quando non avrebbero ancora potuto immaginare che cosa sarebbe presto accaduto. Nessuno di questi poveri uomini, scrive Gramsci, «pensava di diventare… naufrago e quindi tanto meno pensava di essere condotto a commettere gli atti che dei naufraghi, in certe condizioni, possono commettere, per esempio, l’atto di diventare… antropofaghi».

Eppure, la mancanza di viveri suggerisce ai naufraghi l’impensabile, e quella che era una ipotesi teorica e remota si presenta ora con tutta la sua violenza e immediatezza. Il tragico apologo (richiamato anche nel Quaderno 15, sotto il titolo Note autobiografiche) ricorda non solo il presente della vita di Gramsci, ma il presente fascista dell’Italia, la sua trasformazione molecolare: «il più grave è che in questi casi la personalità si sdoppia: una parte osserva il processo, l’altra parte lo subisce, ma la parte osservatrice […] sente la precarietà della propria posizione, cioè prevede che giungerà un punto in cui a sua funzione sparirà, cioè non ci sarà più autocontrollo, ma l’intera personalità sarà inghiottita da un nuovo ‘individuo’ con impulsi, iniziative, modi di pensare diversi da quelli precedenti».

Parlava di sé per parlare di tutti. Queste lettere vanno ancora oggi decriptate, rilette alla luce dell’impossibilità di dire impunemente la verità, e in questo risiede il loro gradiente letterario e affabulatorio, così affascinante e così disperato per il loro autore morto giovanissimo, il 27 aprile del 1937.

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